Settant’anni dopo, la memoria di
un paese martoriato (3)
di Agide Vandini
Dopo
l’armistizio il fronte di guerra rimase fermo per parecchi mesi lungo la
cosiddetta Linea Gustav, linea che univa Cassino a Termoli. Gli Alleati
tennero quelle posizioni dall’ottobre del ‘43 al maggio del ‘44[1].
Gli
echi della guerra e degli spari contrapposti sono dunque ancora assai lontani
nei mesi in cui la violenza repubblichina ferrarese prende di mira gli
antifascisti filesi Vandini Guerriero, Matulli Giovanni e Mario Babini, da
tempo oppositori attivi e irriducibili al regime.
Nella notte fra
il 28 e il 29 Febbraio 1944 giunge dal ferrarese fino al centro di Filo una
squadra di Brigate Nere. E’ a bordo di una camionetta che si ferma lungo la
Provinciale (oggi via 8 settembre 1944) di fronte all’abitazione di Ivo
Vandini, mio nonno, una povera dimora al piano terra di un vecchio condominio
abbattuto nel dopoguerra; quel terreno è oggi incorporate nel giardino
Barabani che fiancheggia la Cà de’
Pòpul.
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Centro
di Filo nell’anteguerra. Al lato sinistro: la parte terminale della Cà Longa, la Cà d S-ciflèñ, il condominio Barabani (al piano più basso la
residenza di Ivo Vandini), Le vecchie scuole (oggi Casa Comunale di Filo
d’Argenta), la cà dla Vizinzóna. Al
lato destro si distinguono: l’osteria gestita al tempo di guerra dalla Bianca
e dal marito Enrico Nuvoli (insegna «Vini e Liquori»), un caseggiato
abbattuto nel dopoguerra per i danni subiti dai bombardamenti, la casa e
bottega Barbieri (col balcone), la Cà
d’Nicola il maniscalco e più oltre, in corrispondenza della Ca’ dla Vizinzona, la vecchia caserma
dei Carabinieri. Per l’identità delle persone fotografate nella cartolina si
veda in questo stesso blog, anno 2010: «C’est
égal, scherzi del dialetto» : http://filese.blogspot.it/2010/02/cest-egal-scherzi-del-dialetto.html
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Guerriero
Vandini (Ghéo), sua moglie Elvira
Toschi, e la figlioletta Carla, ai piedi della rampa che scende dalla strada,
intorno al 1940. Sullo sfondo, a sinistra le vecchie scuole, a destra la
vecchia caserma.
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Si
sapranno in seguito, dall’autista del camion, un informatore della Resistenza,
i dodici nomi, cognomi e provenienze di questi individui in missione punitiva,
dodici sconosciuti portatori di morte, che, scesa la rampa, circondano la casa
e bussano con prepotenza al portone. Si affaccia nonna Agida, 53 anni, da
sempre preoccupata per i suoi figli, uno dei quali, Sereno, prigioniero in Germania,
un altro, Guerriero, sempre in pericolo, perseguitato politico dall’età di
diciott’anni, dorme con la moglie Elvira e la figlioletta Carla, a pochi passi
da lei, in una stanzetta accessibile solo dall’esterno.
«Abita
qui Vandini Guerriero?...» Le parole risuonano minacciose nella notte, parole
che il capoccia fascista pronuncia mentre sbircia dalla porta assieme ad un
altro squadrista. Entrambi hanno il fazzoletto da collo tirato sopra la punta
del naso, sì che gli occhi assassini sfavillano in tutta la loro esaltazione e
follia.
La
casa ove all’epoca abitava al piano terra la famiglia di Ivo Vandini è in
primo piano nella foto (già proposta in questo blog) scattata dagli inglesi
il 14 aprile 1945, giorno della Liberazione di Filo. E’ quella più a destra
che precede la Ca’ d’S-cifleñ, più
alta e col tetto a quattro acque.
A
fianco, per una migliore comprensione del testo, una piantina sommaria del
piano terra dell’edificio ricostruita grazie alle indicazioni di mia sorella, Carla Vandini.
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«Forse non c’è, dorme in una stanza dietro
casa. Cosa volete, perché lo cercate…?» E poi subito, senza attendere risposta
Agida si rivolge al marito: «Và a vdé te,
Ivo..»; nel frattempo cerca di intrattenere i due forestieri che crede
soli. Segue con la coda dell’occhio il marito che ha le mani che tremano e non
riesce, dall’interno, ad aprire il catenaccio esterno, quello che chiude le due
metà inferiori della porta che dà accesso al cortile posteriore e conduce alla
cameretta della famigliola di Guerriero.
«Lasa stê ch’a végn me…» si spazientisce
la nonna e poi si precipita, apre con agilità la porta. Non sa che la casa è
circondata di anime nere assetate di sangue. Scende lo scalino per correre dal
figlio, pensa di urlargli “Scappa Guerriero, scappa…” Ma quelle parole non
riescono ad uscirle dalla bocca, subito sopraffatta dalla scarica di mitra di
uno dei brigatisti appostato nel buio e scaraventata a terra dalle tremende
pallottole esplodenti dum-dum che la colpiscono al basso ventre. Agida crolla al
suolo in un bagno di sangue.
Neppure
il tempo per questi sgherri di accorgersi che si tratta di una donna anziana,
di capire che non è stato centrato un «rosso» da eliminare, di constatare che
il bersaglio, ahimè, è una povera madre protesa alla salvezza del figlio.
Subito gli assassini in forze si dirigono alla stanzetta occupata dalla
famigliola, proprio mentre Ghéo,
risvegliato dai colpi, sta uscendo dalla porta della sua camera da letto.
E’
ancora pieno inverno, c’è parecchia neve per terra. Guerriero è in camicia da
notte, a piedi scalzi, ma viene fatto salire, a spintoni, così com’è sul
cassone del camion. Carla di nove anni e la mamma Elvira rimangono chiuse nella
loro camera: da lì possono udire le urla e il tramestio all’esterno, ma non
possono uscire, allarmare, chiamare soccorso, né farsi aiutare da qualcuno. Carla
ne rimane traumatizzata. Elvira è disperata, poi prende il coraggio a due mani
e si rivolge alla figlioletta: «Che ci ammazzino pure tutte e due…», dà uno
spintone alla porta e si ritrova nel cortile insanguinato proprio mentre la
camionetta sta portando via Guerriero.
Sul
cassone di quel mezzo, ormai in strada, Ghéo
comincia a battere i denti, infreddolito; ode sempre più lontane, ma
insistenti, le grida del padre.
Partito
il camion degli squadristi il nonno, rivolgendosi a destra e a manca, chiama
soccorso. Va sotto la finestra del dottor Geminiani che inizialmente,
terrorizzato e timoroso di conseguenze personali, non ne vuol sapere[2].
Elvira riesce finalmente a fermare una macchina che trasporti la nonna ad
Argenta, all’ospedale, quantunque si capisca che non c’è più nulla da fare.
Agida, dopo un’agonia terribile, in preda alla sete e a dolori tremendi al
ventre,
muore due giorni
dopo, il 2 marzo 1944.
Nella
notte d’inverno il camion delle anime nere prende la direzione della Bastia e
fa sosta alla S-ciapèta. Lì, nel
borghetto, la squadraccia preleva senza resistenza alcuna Giovanni Matulli,
compagno di Ghéo nelle prigioni
fasciste quattordici anni prima; l’amico Gianêl
è impaurito, appena un po’ più vestito di lui.
Oltre
Case Selvatiche, un centinaio di metri oltre la curva ad «esse» in salita, Ghéo e Gianêl vengono scaraventati
giù dalla piccola scarpata, di fronte alla Civettara. Mentre la camionetta
staziona sullo stradello, i due antifascisti vengono sollecitati con urla e
grida a scavarsi la buca alla svelta, quella della loro tomba.
Gianêl ormai non ce la fa più a
reagire, Ghéo trova, chissà come, la
forza e la rabbia per chiedere al capo drappello, tale Felloni di Massa
Fiscaglia[3]:
«Perché ci sparate, siamo innocenti, che cosa abbiamo fatto di male?» Questi lo
apostrofa in malo modo e gli si avventa contro: «Stai zitto tu che il 25 luglio
eri sul camion con quelli che bruciavano le divise delle Camicie nere…»
Ghéo sa che quanto dice il
caposquadra corrisponde al vero. E’ vero che lui l’estate precedente, in
licenza agricola proprio nei giorni della destituzione del Duce, era andato,
assieme ad altri, nelle case dei fascisti a farsi consegnare le divise color di
morte per farne un fumante falò. Gli appare chiaro che qualche informatore deve
aver segnalato la cosa ai comandi repubblichini e la circostanza, considerata
la sua opposizione al regime di vecchia data, lo ha fatto salire, agli occhi
dei caporioni fascisti, ai primi posti della lista nera, uno di quelli, cioè,
da eliminare alla svelta per far star buoni e quieti tutti i «rossi» di questo
dannato paesino.
Ghéo comunque non nega, anzi: «E con
questo? Io non ho mica commesso alcun reato! Il Fascismo, il regime, il 25
Luglio è caduto e io ne ho semplicemente bruciato i simboli….» Non ha alcun
piano Guerriero, lui che pure è alla testa di un Gruppo di Azione Partigiana
che si occupa di resistenza passiva[4] in
paese: capisce che non c’è alcuna concreta possibilità di fuga. La discussione
gli fa però prender tempo, guadagnare istanti preziosi, fino a che i fari di
un’automobile proveniente da Argenta sopraggiungono nella notte; il capo
brigatista si stacca allora dal plotone di esecuzione ormai pronto e va a
conferire con chi porta notizie, forse latore di nuovi ordini. Il breve
colloquio col conducente della vettura avviene lontano dalle orecchie delle
altre camicie nere e da quelle degli ostaggi che attendono, ormai impotenti,
l’epilogo; sono pochi attimi in cui, al Felloni, viene evidentemente riferito
che la donna colpita è morente, che non ha quindi alcuna possibilità di scampo.
Il
capoccia a quel punto urla ai prigionieri l’ennesimo comando: «Salite sulla
strada e andatevene a casa a piedi!...» I due prigionieri risalgono, passo dopo
passo, la ripida scarpata mentre gli squadristi urlano: «… E dite in paese che
noi siamo socialisti, che vogliamo il bene degli operai…». Ghéo e Gianêl sono
convinti di udire da un momento all’altro alle loro spalle il crepitio della scarica
più oltraggiosa, la mitragliata alla schiena; quasi con incredulità si
ritrovano invece, scalzi e semisvestiti, sulla ghiaia appuntita della strada,
allora corrono fino alla curva; là, oltre la discesa ad «esse», lascito di
antiche chiaviche lì interrate, cominciano a credere che sia stata concessa
loro la vita, senza però capirne la ragione, senza nemmeno immaginarsi un
perché.
Il
grave motivo dell’improvviso «pentimento» squadrista, Ghéo lo capisce alle soglie di casa, nel riabbracciare la famiglia
in preda alla disperazione; non c’è più il sangue materno versato nel cortile,
ripulito in tutta fretta dall’Elvira, ma intuisce il sacrificio ormai certo
dell’Agida di cui fin lì ha ignorato la sorte; capisce che quel gesto della
madre, offrendogli la propria, gli ha ridato la vita una seconda volta.
Le
pene per Guerriero non finiscono qui. L’Agida cessa, come si è detto, la sua
agonia all’ospedale di Argenta due giorni dopo, davanti ai familiari affranti.
Il peso delle sofferenze della madre in fin di vita per salvare la sua, e la
perdita che ne consegue, è terribile. Gli rimane scolpita nella memoria, fra le
tante, la frase nobile e toccante pronunciata dallo zio Amilcare, in sua
presenza. Lui, il fratello maggiore di Agida, da poco sfollato a Filo, tornato
da Bologna con la famiglia e col figlio (futuro Prof. Giancarlo Cavalli), al
capezzale soggiunge con voce rotta dall’emozione: «Meglio mia sorella in questo
letto di morte, piuttosto che tu, suo figlio, fra gli assassini che hanno
sparato a tradimento…»
Il
pensiero di Guerriero corre ai fratelli minori, al forte Raffaele, a Sereno che
è prigioniero in Germania e che non riceverà più alcuna lettera dalla madre.
Nessuno dei fratelli gli rivolgerà mai direttamente colpe né responsabilità per
l’accaduto, ma il triste tormento lo accompagnerà per tutta la vita. Sarà
sempre difficile e doloroso per lui toccare quel tasto[5].
Nel
frattempo il 4 marzo 1944, cinque giorni dopo la vergognosa impresa, appena due
giorni dopo la morte dell’Agida, il Felloni riuscì a scrivere, in un rapporto
per il Capo della Provincia di Ferrara, un cumulo di pasticciate sciocchezze e
di ridicole autogiustificazioni. Non vi si accenna neppure a Gianêl, l’altro ostaggio catturato; la
nonna Agida compare ad un tempo sia davanti che sul retro dell’abitazione, vi
si parla di “massa confusa” uscita dalla casa e fra essa anche il corpo di
Guerriero materializzatosi dal nulla; infine vi si dichiara la menzogna di una
«ferita all’inguine», anziché riferire della già avvenuta morte della donna:
Chiamato di rinforzo da elementi della
Polizia Repubblicana Federale, mi sono portato nella zona di Argenta con
quaranta squadristi, la sera del 28 u.s. In località Filo di Argenta, ricevemmo
l’ordine di prelevare alcuni elementi comunisti schedati con l’avvertimento che
gli individui erano pericolosi e che con molta probabilità avrebbero fatto
resistenza. Impartii pertanto le opportune disposizioni ai miei Squadristi e
nell’abitazione di tale Vandini, già
confinato ed elemento pericoloso, prima di bussare alla porta, feci
circondare la casa con l’ordine che ad eventuale tentativo di fuga e
all’intimazione di fermarsi e l’ordine non venisse eseguito, di sparare.
Dopo aver ripetutamente bussato alla
porta del Vandini, venne una donna a chiedermi chi volevo e il perché e nel
mentre si scambiavano queste parole a porta aperta e con la luce accesa, dalla
porta di dietro della casa, una massa
confusa e al buio, tentava di fuggire. All’intimazione degli squadristi
Malfaccini e Colombani di fermarsi, queste ombre prendevano invece la corsa e
fu solo allora che i precitati Squadristi fecero uso delle armi. A terra trovammo una donna ed un uomo,
entrambi semi svestiti e solo la donna ferita. L’uomo era infatti illeso ed era
il Vandini ricercato. Questi dopo l’interrogatorio venne rilasciato e la donna,
fatta visitare immediatamente, presentava una ferita all’inguine.
Nessun altro incidente per tutta la
serata[6].
I
fascisti insomma, in quella situazione disonorevole, si coprono a vicenda, del
resto si sentono in diritto di compiere ogni sopruso e non accettano
responsabilità. Nessuno è stato, nessun colpevole… Anzi. La loro azione è stata
meritoria, perbacco… E l’Agida morta?… «Sarete stati voi…», qualcuno arriva a
dire a nonno Ivo. Non danno neppure il permesso di seppellirla, la nonna, e il
funerale avviene per questo una settimana dopo, quasi alla chetichella, in una
tomba rimasta a lungo anonima e intestata a mia madre Elvira[7].
Sulla
vicenda riporto fra le note alcuni stralci del resoconto di Viviano Toti che
intervistò a lungo mio padre e di cui ho omesso i particolari imprecisi[8].
Giorni
tristi, giorni di pianto, giorni con la nonna nel feretro e la gente del paese
che non ha neppure più il coraggio di scendere quei pochi metri di rampa, tanto
è forte il timore d’essere annoverati fra gli «amici del sovversivo». Chi è
molto vicino alla famiglia, all’amico Ghéo,
e non ha paura di esporsi, è Amato Rossi, uno dei sei filesi che di lì a poche
settimane deciderà di salire sulle colline romagnole per combattere la sua
battaglia. Sarà comandante di una Compagnia nella «Bianconcini», la 36° Brigata
Garibaldi.
Altri
giovani filesi, donne e uomini, combatteranno con coraggio, nel nome di Agida
Cavalli, chi come staffetta, chi in armi in una formazione inquadrata nella
35ma bis, brigata partigiana di pianura organizzata militarmente nell’autunno,
diversi mesi più tardi; ma prima ci sarà ancora, a seminare il terrore in
paese, l’uccisione a tradimento di Mario Babini (il 6 maggio) - e la 35ma bis
porterà il suo nome - nonché la fucilazione dei dieci ostaggi, per
rappresaglia, l’8 settembre del 1944. Anche su questi altri due fatti tragici
importantissimi mi soffermerò opportunamente.
Scrisse
nel dopoguerra Renata Viganò a conclusione del suo emozionante racconto della
morte dell’Agida: «[…] Nel febbraio 1944,
quassù a nord, era troppo presto ancora per ammazzare le donne. Più avanti non
ci fu ritegno, accadde anche la strage di Marzabotto. Ma quando fu colpita
l'Agida, una donna uccisa dai fascisti non portava bene né ai tedeschi che
dovevano star lì in paese chi sa quanto, né alla repubblichina di Salò che
tentava di rendersi simpatica. Per questo fu salvato Guerriero, dalla sua mamma
che andò sola di notte contro i colpi sbagliati anche per coloro che li
spararono. Tanto è vero che poi si dettero la colpa l'un l'altro, i diversi
comandi, e il permesso dell'inumazione fu dato sei giorni dopo.[…]»[9]
«Noi Donne», 27 Aprile 1952
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A
fianco un articolo rievocativo («L’Unità», domenica 14 marzo 1965, p. 4 - Em.
Rom.) che annuncia la cerimonia tenutasi a Filo nel 21° della morte
dell’Agida, nel quadro delle celebrazioni del XX° della Resistenza. Sotto,
una foto scattata nell’occasione. Oratore, l’allora sindaco Antonio dalle
Vacche. I primi due da sinistra, sul palco, sono Bruno Natali ed Ansalda
Siroli, quest’ultima in rappresentanza dell’UDI. Alla destra dell’oratore,
una rappresentanza della famiglia: Raffaele (Raflòñ), Agide e Guerriero (Ghéo)
Vandini con a fianco la moglie Elvira Toschi.
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Ivo Vandini (1889-1969), ritratto a fine anni ‘30
nel cortile posteriore di casa a pochi passi dal punto in cui nel 1944
l’Agida cadrà ferita a morte. Dietro la recinzione, l’ampio «campicello», ora
Piazza «Agida Cavalli». Sullo sfondo, a sinistra, casa Tamba, a destra le
vecchie scuole, ora Casa Comunale.
Agida Cavalli
(1891-1944)
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Filo.
La piazza dedicata ad Agida Cavalli e il Monumento ai Caduti. In basso a
sinistra la stele che ne ricorda il gesto (agosto 2013)
La stele
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Articolo rievocativo di Agide Vandini
dedicato ad Agida Cavalli
«Nuova Ferrara», il 24 aprile 2006
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UNA MADRE EROICA – COSÌ MORÌ LA
BRACCIANTE AGIDA CAVALLI[10]
di Rosina Babini[11],«L’Unità»
nei primi anni ’50, trascrizione di
Agide Vandini
Era
una notte di marzo ’44.
Arrivò
in paese a Filo un camion; poteva essere la mezzanotte passata. Smontano una
decina di militi brigatisti neri, che accerchiano la casa del Partigiano
Guerriero Vandini. Bussano alla porta della casa che guarda sulla strada
provinciale e la Madre si affaccia a chiedere chi è. Cercano Guerriero Vandini!
La Madre risponde che Guerriero è assente, sperano di poterlo salvare.
Si
ritira[12] portandosi verso una piccola uscita
posteriore, sul cortile, da dove avrebbe potuto avvertire il figlio del
pericolo. Non aveva finito di aprire la porta che una raffica di mitra la
raggiungeva. Al rumore della scarica si affaccia il figlio, chiedendo
sbigottito cosa era successo. I brigatisti neri vendendolo così in camicia
appena sceso dal letto lo afferrano e lo portano via senza nemmeno permettergli
di volgere uno sguardo alla Madre, caduta in un lago di sangue.
Il
marito chiede soccorso alla nuora che dista due passi e alla famiglia accanto,
ma a nessuno è permesso di avvicinarsi. Il marito abbandona la Madre[13] disperato in cerca di un medico che la possa
soccorrere. Ritorna col medico[14] il quale dichiara necessario il ricovero
immediato in ospedale, date le condizioni gravissime della Madre.
A
questa dichiarazione il capobanda dei brigatisti neri chiede al medico di non
addossargli troppa responsabilità per l’accaduto. Giunta all’ospedale, la Madre
viene sottoposta ad operazione nel tentativo di salvarla, purtroppo inutile.
La
Madre agonizza per tre giorni e a coloro che la vanno a visitare in ospedale,
ella, con quasi un sorriso sulle labbra, dice: «Muoio contenta perché ho
tentato di salvare la vita di mio figlio e il mio sacrificio è valso a
salvarlo».
La
madre morta fu tenuta per otto giorni nella camera mortuaria dell’ospedale
perché le autorità fasciste non davano il permesso di sepoltura e di trasporto
della salma al paese.
L’omaggio
del popolo riuscì a portare una folla enorme a visitare la salma della Madre;
il volto della madre sorrideva, oltre la morte, quasi a significare agli
assassini che Lei non era morta, perché viveva nel cuore di tutte le madri
italiane alle quali indicava come si muore per la causa del Popolo.
Così
è morta la bracciante AGIDA CAVALLI, eroina della Resistenza.
Il
figlio, difatti, fu rilasciato, dopo aver subito violenze e minaccia di fucilazione.
[2] La richiesta di
soccorso al Dottor Geminiani è ben documentata in un articolo apparso
nell’immediato dopoguerra su L’Unità, a firma di Rosina Natali, un articolo di
grande sensibilità che ho integralmente trascritto e che riporto a fine testo,
con alcune note esplicative.
[3] Egidio Checcoli,
in Filo della memoria, Prato, Ed.
Consumatori, 2002, pp. 105-107 riporta che la «squadra d’azione» apparteneva
alla Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale (MVSN), più conosciuta come Tupìn. Francesco Felloni, da Dogato (FE)
era il comandante della squadraccia e ricopriva l’incarico di Ispettore della
VII° zona della MVSN. In una lista trascritta da quella che mia madre seppellì
in un barattolo e che mio padre conservò sempre, posseggo ancora i nomi dei
dodici squadristi. Per rispetto dei discendenti riporto solo le iniziali dei
dieci nominativi non citati da Felloni: S.R., T.U., M.A., M.G., S. (nome
mancante, ma è possibile che si tratti del Malfaccini indicato dal Felloni),
R.G., R.P. (detto Piróñ), R.P. (detto
Pirìñ), C.E., C.A. (tutti di
Migliarino) cui va aggiunto, oltre al Felloni, Colombani Quirico di
Dogato. Tutti costoro subirono un
processo nel dopoguerra, e beneficiarono dell’amnistia intervenuta.
[4] «A Filo intanto si forma la prima squadra GAP diretta
da Guerriero Vandini. Il primo obiettivo dei ribelli è di ostacolare il passaggio delle colonne della Wehrmacht
e di coordinare la vita civile assicurando che i depositi di grano non
finiscano in Germania. Iniziano le operazioni di disarmo dei fascisti isolati e
riprendono a funzionare i «collettivi di lavoro» che impediscono quasi ovunque
ai repubblichini di disporre a loro
discrezione della mano d'opera» (V.Toti,
Antifascismo e Resistenza nell'Argentano,
Tesi di Laurea, p. 104).
[5] A Sereno, da
quel giorno prese a scrivere (e lo fece per un anno e mezzo) mia madre Elvira,
fingendo una grave malattia dell’Agida. Mio padre volle evitare al fratello
minore il dolore della notizia della morte tragica della madre. Pensò che
nell’incertezza della sorte di tutti loro, fosse meglio attendere la fine del
conflitto, nella speranza che tutti si fossero salvati. Così fu infatti
fortunatamente, ma il problema si pose al ritorno di Sereno dalla Germania,
nell’autunno del 1945. Ghéo fu quel
giorno avvertito da un compaesano dell’arrivo imminente del fratello: stava
tornando a Filo, a piedi, dalla stazione di San Biagio. Mio padre s’incamminò e
gli andò incontro. Lo rivide stanco e festoso, ma dovette raccontargli la triste
sorte della madre e la dura esperienza vissuta dalla famiglia. Fu un ritorno
mesto per Sereno alla propria casa, capì, si rese conto e alla lunga si fece
una ragione dell’accaduto, ma non volle parlarne mai più. Raffaele, detto Rafléñ in famiglia e Raflòñ in paese, ebbe a sua volta una
brutta avventura di ritorno dal cimitero, poco dopo il fatto tragico. Era andato a visitare la tomba materna da
solo (era vietato andarci in più di due persone per volta) vestito di giacca e
cravatta. Fu fermato all’incrocio da alcuni esaltati all’altezza dell’Osteria
di Bénàs, quella frequentata dai
fascisti locali, e invitato a togliersi la cravatta rossa. Al suo rifiuto fu
schiaffeggiato e malmenato finché non poté divincolarsi e tornare alla sua
abitazione nella Ca’ Longa (Carla
Vandini).
[6] E.Checcoli, op.cit., pp.106-107. Guerriero comunque non subì mai alcuna
condanna al confino. Per la sentenza già citata del 29.4.1931 dovette scontare
18 mesi di prigione e 3 anni di vigilanza speciale, quest’ultima in parte
condonata dopo 7-8 mesi. Ne fu prosciolto il 30 gennaio 1933. Tutto il contenuto
del suo casellario giudiziario è stata pubblicato una decina d’anni fa in
appendice al prezioso testo di Egidio Checcoli (pp. 335-350). Vi si documenta
(p. 340) come Guerriero 19enne, nell’ottobre del ‘31 e con ancora sei mesi di
prigione da scontare, abbia rifiutato di associarsi alla domanda di grazia
sovrana inoltrata dai familiari a sua insaputa. Avrebbe dovuto - così mi
raccontò - ammettere un reato che non intendeva riconoscere. Soprattutto non se
la sarebbe più sentita, poi, di guardare in faccia i suoi compagni. Questo gli
causò, nella prigione di Arezzo, botte e spintoni, oltre a tre giorni di pane e
acqua.
[7] […]Agida Cavalli, una donna di Filo d'Argenta che
fu massacrata a colpi d'arma da fuoco sulla porta di casa nel 1944, mentre
tentava di prender tempo per consentire al figlio partigiano di fuggire. Una
morte assurda, feroce, che richiese tempo (Agida fu trasportata in ospedale con
una macchina che toccò alla nuora Elvira andare a cercare). Nel rapporto di
polizia che racconta i fatti si parla di una ferita ad una gamba, mentre i
fascisti le spararono al ventre, senza ragione, e lasciò la casa inondata di
sangue, un sangue che Elvira cercò di nascondere alla figlioletta di pochi anni
nascondendosela dietro le gonne, e che ripulì in fretta, nella notte stessa,
perché il marito - se mai fosse riuscito a tornare - non capisse in quel modo
terribile che la madre era vicina alla morte. […] (D.Tromboni - L.Zagagnoni, Con animo di donna,
Ferrara, Cartografica Artigiana, 1998, pp. 110-111)
[8] «[...]A Filo
Vandini è attivamente ricercato e ai primi di febbraio su segnalazione di una
spia la G.N.R. riesce a sorprenderlo di notte durante una visita alla famiglia.
La madre Agida Cavalli nel tentativo di salvare il figlio viene colpita da una
raffica di mitra. Vandini è arrestato quasi subito […]. Mentre viene caricato
sul camion della G.N.R. ode le urla del padre che cerca invano di soccorrere la
moglie morente. […] viene portato via assieme a Matulli […]. Durante il breve
percorso che da Filo porta a ponte Bastia i fascisti manifestano più volte
l'intenzione di passarli per le armi per via dei precedenti di Vandini conosciuto come uno dei più tenaci
organizzatori antifascisti della zona. “I fascisti sapevano del mio lavoro di
propaganda contro la guerra che svolgevo in mezzo ai giovani - racconta Vandini
- erano molto documentati sul mio passato e sul mio presente di militante
comunista. Quando arrivammo sul ponte Bastia [alla Civettara (n.d.A)] ci fecero
scendere e con nostra meraviglia ci ordinarono di sparire all'istante e di dire
in paese che erano socialisti e che volevano bene agli operai. Io e Matulli ci
aspettavamo una raffica di mitra da un momento all'altro, ma forse ritennero
sufficiente per quella notte l'aver assassinato mia madre”. I funerali di Agida
Cavalli furono celebrati otto giorni dopo il delitto in quanto i fascisti
pretendevano dalla famiglia una dichiarazione che accusasse i comunisti...»V.Toti, op.cit., pp. 110-111.
[9] r.viganò, «Una madre della Resistenza», Noi Donne, 27 aprile 1952 (si veda
l’immagine che segue). L’intero e toccante articolo di Renata Viganò è stato da
me ripubblicato e corredato di note integrative in A.Vandini, Sotto
l’ombra d’un bel fior, Faenza, Edit, 2005, pp. 67-68.
[10] Nel testo, come
in altre pubblicazioni del dopoguerra, Agida è indicata erroneamente col nome
di “Agide”. Anche Dario Fo la citò nella «Battaglia dei Fiocinini» col nome
distorto. La nonna risulta tuttavia regolarmente registrata come “Agida” nel
registro dei battesimi della parrocchia e all’anagrafe comunale. «Agida», del
resto, è sempre stata chiamata in paese da tutti; tanti ricorderanno che mio padre, di nome
Guerriero, per distinguerlo da altri con lo stesso nome (Banzi, Soffiatti ecc.)
veniva sempre indicato come Gveriéro
dl’Agida. Purtroppo «Agide» (nome che pur risale a quattro re di Sparta,
uno dei quali protagonista della tragedia dell’Alfieri che ispirò parecchi
romagnoli, fra i quali il mio bisnonno), fuori dal contesto locale è nome
maschile pressoché ignoto, tanto da ritenerlo, chissà poi perché, nome
femminile. Io, che porto quel nome da un pezzo, quanto ad equivoci, ne potrei
raccontare delle belle. Da qui provengono le distorsioni anche se io,
francamente, non ho mai conosciuto al mondo una donna di nome «Agide»…
[11] Si tratta della
filese Rosina Natali, la cui famiglia era dirimpettaia dei Vandini, vedova di
Mario Babini di cui si ricorderà il sacrificio nel prossimo articolo dedicato
al martire.
[12] Nel racconto si
omette, per brevità, una parte della discussione fra Agida e il capo degli
squadristi che avviene sul portone di casa. La nonna tenta forse di dire in un
primo momento che il figlio è assente, poi, di fronte alla insistenza del
Felloni che si mostra certo della presenza in casa di Guerriero, cerca di
mandare, come si è narrato, il marito dal figlio e davanti all’incespicare
dell’uomo che non riesce più ad aprire la porta, decide di accorrere
direttamente.
[13] Ovviamente si
tratta della moglie, qui sempre indicata come «Madre».
[14] Si tratta del
Dott. Alfredo Geminiani, persona forse poco incline a mettersi contro le
brigate nere, inclusa peraltro in un elenco di «squadristi filesi» pubblicato
sul Corriere Padano cinque anni prima (4-3-1939, Atti della Federazione dei
Fasci - Anno 1939). Ricordo bene mio nonno Ivo narrare ancora con rabbia, nel
dopoguerra, i momenti di disperazione in cui egli non riusciva, nonostante gli
urli, a convincere il medico affacciatosi alla finestra ad accorrere.
Raccontava che ad un certo punto gli gridò che, se non fosse sceso subito, a
forza di urla avrebbe fatto tremare tutti i vetri della sua casa.
4 commenti:
Ricevo dall'amico Pippi (Aderito Geminiani), un ex campione dello sport filese che ci segue da lontano e pubblico col suo consenso:
aderitto geminiani
19:30 (18 ore fa)
a me
Caro Agide,
che bello leggerti ,i tuoi racconti su quei tristi episodi ,cosi' umani cosi' veri mi hanno commosso e non e' che io mi commuova facilmente ,ma sara' l'eta'… Descrivi i fatti che sembra di averli vissuti in prima persona ,una lettura godevole anche se purtroppo funesta e tu la descrivi con tutta l'anima e l'ardore di far sapere al mondo i fatti che cosi' tanto da vicino ti hanno toccato, senza scalfire il senso di umanità' che ti contraddistingue. Mi ha colpito il fatto che la tua cara Nonna abbia patito tanto prima di spirare, credevo fosse morta all'istante, poi il racconto sul mio omonimo dottore mi ha lasciato di ghiaccio, forse se fosse intervenuto tempestivamente si poteva salvare. Ma in guerra il giuramento di Ippocrate non ha valore? E non mi dilungo. Anche il ritorno a Filo di tuo padre e Gianèl, che aspettavano mentre facevano ritorno la raffica fatale e' meritevole di meditazione; a piedi nudi, loro stessi ignudi, col freddo e la neve chissa' cosa avranno pensato!!!!!. Il racconto e' bello a volte struggente, tuo nonno che invoca aiuto e nessuno si fa avanti... Complimenti Agide per me ti sei superato, la narrazione e' spontanea, vera, sciolta, avvincente. Il corredo poi delle immagini e' stupendo, così come gli aneddoti. Insomma tutto, e te lo dico col cuore. Complimenti ancora Agide, un grande abbraccio a te e tua sorella. A risentirci a presto.
pippi
Agide Vandini agide.vandini@gmail.com
09:15 (4 ore fa)
a aderitto
Pippi carissimo,
ti ringrazio con tutto il cuore per ciò che mi hai scritto. So che il fatto è tragico e doloroso. Commuove sempre anche me quando lo rileggo. Lo sforzo di scriverne, e di riportare tutta la dinamica dei fatti che mi è stata trasmessa, è stato notevole. Soprattutto mi ha guidato il desiderio di lasciare uno scritto, finalmente completo anche nei dettagli, che consenta a chi lo legge di capire davvero, anche a distanza di tanti anni, cosa avvenne, perché e in quale contesto.
La codardia del Dott. Gemininani fu evidente, temeva certamente di vedere e constatare qualcosa di sgradito e non voleva impelagarsi con quelle anime nere la cui cattiveria doveva conoscere assai bene. Tuttavia a quel che ho sempre sentito dai miei genitori, la nonna, colpita al ventre da pallottole esplodenti, non avrebbe avuto scampo in alcun caso.
Sono comunque particolari che raccontano molto intorno al dramma vero vissuto dalla famiglia tutta a cominciare da mio padre.
Se non hai nulla in contrario questa tua lettera avrei piacere di pubblicarla nello spazio commenti. Posso?
Un grazie ed un grande abbraccio.
Agide
Ricevo dal cugino Dott. Andrea Cavalli, figlio del Prof. Giancarlo, nipote e discendente di Amilcare, fratello di Agida Cavalli e pubblico con grande piacere e col suo consenso:
Andrea Cavalli
22:35 (15 ore fa)
a me
Caro Agide,
Una storia che ho sempre sentito raccontare, ma in modo discreto, quasi silenzioso, privo di particolari da papà . Zio Sereno non ne parlava mai e nemmeno Rita. Per tutti , capisco solo ora, un dolore immenso, segnante tutta una vita.....
Papà ricordava sempre che si sentì più sicuro a Bologna sotto i bombardamenti, che a Filo da sfollato!
E comprendo la forza con cui le nostre tranquille e pacifiche famiglie abbiano aborrito ogni forma di regime e violenza, facendoci crescere tutti nell'amore e nell'altrui rispetto.
Una pagina che conoscevo, ma che in questo approfondimento ha portato grandissima commozione e tanta nostalgia x chi non è più tra noi.
Grazie infinite, un abbraccio forte,
Andrea
Il giorno 30/gen/2014, alle ore 08:10, Agide Vandini ha scritto:
Agide Vandini agide.vandini@gmail.com
10:50 (3 ore fa)
a Andrea
Andrea carissimo,
ti sono profondamente grato per quanto mi hai scritto.
Come ho riportato nel racconto, mio padre ha sempre detto poco dell'accaduto. Era qualcosa che, anche il solo parlarne gli rinnovava evidentemente il dolore. Mia madre, da cui ho saputo ogni particolare e che ha sempre cercato di rispondere ad ogni domanda per soddisfare ogni mia curiosità, mi raccomandava sempre di stare attento, di evitare se possibile l'argomento così doloroso per lui. Qualcosa poi, con l'andar del tempo, mi disse, mi raccontò in particolare quel che avvenne alla Civettara e quel che provò in attesa di un colpo alla schiena che non arrivò. Ne parlò anche all'Ospedale Maggiore, sfogando la sua rabbia, immediatamente dopo l'intervento ai polmoni, un paio di mesi prima della morte, allorché da parte del personale medico gli fu detto che non reagiva abbastanza, che non sapeva sopportare il dolore. Fu lì che disse: «Adesso sono vecchio, il coraggio quando serviva non mi è mai mancato, se è vero che sono stato davanti al plotone di esecuzione...»
Gli occhi degli infermieri, e anche quelli dei vicini di letto, si girarono allora verso mia madre, sempre al suo capezzale, in cerca di una qualche conferma, pensando che stesse farneticando. Mia mamma a modo suo li rassicurò tutti: «A j è poch da guardè, l'è propi e' véra savìv...».
La tua calzante riflessione : "E comprendo la forza con cui le nostre tranquille e pacifiche famiglie abbiano aborrito ogni forma di regime e violenza, facendoci crescere tutti nell'amore e nell'altrui rispetto" è anche la mia. Proprio il grande dolore sopportato da mio padre che non ebbe mai istinti di vendetta sanguinaria, e quel suo ideale protendersi, sempre, verso un mondo in cui queste violenze non debbano mai più avvenire, sono stati e sono ancora l'insegnamento più grande che mi abbia impartito.
Un grandissimo abbraccio.
Agide
Segnalo questa integrazione, apportata quest'oggi, alla nota 5:
Raffaele, detto Rafléñ in famiglia e Raflòñ in paese, ebbe a sua volta una brutta avventura di ritorno dal cimitero, poco dopo il fatto tragico. Era andato a visitare la tomba materna da solo (era vietato andarci in più di due persone per volta) vestito di giacca e cravatta. Fu fermato all’incrocio da alcuni esaltati all’altezza dell’Osteria di Bénàs, quella frequentata dai fascisti locali, e invitato a togliersi la cravatta rossa. Al suo rifiuto fu schiaffeggiato e malmenato finché non poté divincolarsi e tornare alla sua abitazione nella Ca’ Longa (Carla Vandini).
Ho apportato alcune piccole marginali correzioni ed ho, allo stesso tempo, inserito tre nuove immagini con relativo commento che integrano e migliorano il testo oroginario.
Agide Vandini
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