sabato 31 ottobre 2015

Sagra degli Antichi Sapori 2015



Le locandine



Siamo tutti invitati.



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martedì 27 ottobre 2015

Il «Quaderno» dell’Irôla n.12



La favola delle tre ocarine


Ho affidato a www.scribd.com il Quaderno dell’Irôla n.12. Contiene la favola qui pubblicata pochi giorni fa. Il link diretto per l’accesso al file (.pdf) (di 10 pagine)(scaricabile) è il seguente:


Riepilogo per comodità dei lettori che ne fanno raccolta i «Quaderni» sin qui usciti e presenti in rete:


N.
Data Upload
Titolo
Link a www.scribd.com

Pagine
(escluso la copertina)

00     30.04.2014  Frontespizi e Integrazioni Quad. 1-4  http://www.scribd.com/doc/221159152/Frontespizi-e-Integrazioni-Quaderni-Irola-1-4                      9
01     08.01.2009 L’antico Hospitale di San Giovanni in Filo                http://www.scribd.com/doc/9695193/LAntico-Hospitale-Filo                                         8
02     13.02.2011 Le otto chiese della storia di Filo                               http://www.scribd.com/doc/48682684/Le-8-chiese-della-storia-di-Filo                       16
03A  11.05.2011 I trascorsi filesi di Ziridöni (10 pagine)      http://www.scribd.com/doc/55543424/I-trascorsi-filesi-di-Ziridoni-vers-scribd    10
03B  11.05.2011 Loris Rambelli -Paesaggio con figure http://www.scribd.com/doc/55540319/Paesaggio-con-figure-Ziridon-di-Loris-Rambelli                     32
03C  11.05.2011 Giovanna Righini Ricci)- Ziridöni       http://www.scribd.com/doc/55351186/Ziridoni-Di-Giovanna-Righini-Ricci                           4
04     26.08.2011 Per le vie di Filo                                                        http://www.scribd.com/doc/63554116/Per-Le-Vie-Di-Filo-Guida                               16
05    15.05.2014 Quando a Filo si pescavano gli storioni http://www.scribd.com/doc/224272246/Quando-a-Filo-Si-Pescavano-Gli-Storioni          10
06    09.06.2014 Person.caratt.filesi (I°Racc.) http://www.scribd.com/doc/228407719/Quaderno-n-6-Personaggi-caratteristici-filesi-I-Raccolta                      19
07    07.07.2014 Perché Filo è diviso in due                                          http://www.scribd.com/doc/232876033/07-Perche-Filo-e-Diviso-in-Due                  10
08    29.08.2014 Person.caratt.filesi (II°Racc.)  http://www.scribd.com/doc/238075131/08-Personaggi-caratteristici-filesi-2-Raccolta                     10
09    29.08.2014 Person.caratt.filesi (III°Racc.)  http://www.scribd.com/doc/238075874/09-Personaggi-caratteristici-filesi-3-Raccolta                      8
10    11.11.2014 Filo 1944 - Il ricordo                                   https://www.scribd.com/doc/246216153/10-Filo-1944-Il-Ricordo                             35
11    05.12.2014 Novant’anni fa Albino Vanin          https://www.scribd.com/doc/249232257/11-Novant-Anni-Fa-Albino-Vanin                                          10


A questi viene perciò ad aggiungersi:

12    27.10.2015 La favola delle tre ocarine          https://www.scribd.com/doc/287198538/12-La-Favola-Delle-Tre-Ocarine                                  10


Rimando, per indicazioni e suggerimenti circa la modalità di raccolta, alla lettura di quanto pubblicato il 30.4.2014: http://filese.blogspot.it/2014/04/i-quaderni-dellirola.html

Consiglio vivamente, una volta effettuato lo scarico (“download”) del file da scribd, di controllare la corretta composizione delle pagine in “Word” e di apportare gli aggiustamenti manuali necessari, prima di procedere alla stampa.
a.v.

domenica 11 ottobre 2015

Un’antica favola che ci è cara



La fôla dagli ucarìñ ch’agli andéva a nöz a Bànd
di Agide Vandini
disegni di Romano Saccani Vezzani



La pubblicazione della fôla dal tre uchini nel numero più recente de’ la Ludla[1] mi ha riportato, non senza una certa emozione, ai ricordi della prima infanzia, alla cara famiglia paterna, alla casa, alla vita e alla gente di allora, il tutto evocato da una narrazione ben più antica della moderna I tre porcellini [2] cui viene associata, fiaba che nei trĕb [veglie] filesi si è raccontata fino al dopoguerra, con gran divertimento dei più piccoli.
Ovviamente a noi fu sempre gustosamente raccontata in dialetto, vera lingua madre dei bimbi nati nella prima metà del Novecento, quando si apprendeva la forbita lingua italiana soltanto a scuola[3].
La trama delle «trè uchini» nel dialetto ravennate di San Zaccaria è, di base, la stessa che udii da bambino; differisce però nelle espressioni dialettali che più caratterizzano la favola, nel ritmo narrativo, soprattutto si discostano i riferimenti geografici e ambientali. Lì le tre ochette vogliono recarsi al mare per la folta pineta ravennate, qui invece, in uno scenario antico (stravolto dalle bonifiche di fine ‘800), vogliono andare da Filo a Bando lungo fossi e sentieri di palude, attraverso il periglioso Bosco del Tamariso, attratte da un allettante pranzo di nozze cui non possono, o meglio non vogliono, mancare.


Alla nostra epoca, l’ascolto dell’anziano narratore era anche l’occasione, per apprendere  nozioni fondamentali della complessa  storia del nostro territorio ( […] Ch’a savìva che una vôlta, pr andêr a Bànd da Fìl, u ngn ìra miga e’ stradòñ dla Spišëna ch’e’ pasa pröpi dnìnz a ca’ vöstra, quèst l’è stê fat dl’Otzènt[4]. A que l’ira tota vàl ch’la ‘rivéva infena pët a la Ciša. Alóra us putéva andêr a Bànd sól par la Strê di’ Dŏs, ch’la žiréva intórn a la Vàl, la puntéva vérs a la Bindëla, e pu la vultéva par cvèla che adës a ciamèñ la Strê di Tamarìš, long a una Fösa bëla lêrga infĕna a l’Ôca; alè us travarséva un pöst bùr e salvèdg, un bös-c pariculóš: e’ Bös-c di’ Tamarìš…[…])
[ Sappiate che un tempo, per andare a Bando da Filo, non c’era  lo Stradone dell’Oca-Pisana che passa davanti a casa vostra, questo fu tracciato solo a fine Ottocento. Qui le acque della valle giungevano fin sotto la Chiesa. All’epoca per raggiungere Bando si percorreva la Strada dei Dossi che aggirava la valle, puntava verso la Ca’ Bindella (a ovest), poi svoltava (a nord) per quella che oggi chiamiamo “Strada delle Tamerici” (Via Tamerischi), indi, lungo una larga Fossa (Fossa Paolina oggi interrata) giungeva al dosso dell’ «Oca» (nei pressi del Cippo del Carabiniere); lì ai lati del sentiero stava un bosco folto e selvatico, irto di pericoli, il Bosco del Tamariso…[…])
Mio padre, che aveva udito più volte da bambino questa favola, allorché nel nostro caseggiato si diffondeva la voce della presenza, la sera stessa, di Cömo e’ fularèñ [5], non mancava di suggerirmi:  «T’è da dìj alóra, a Cömo, ch’uv cunta la fôla dal trè Ucarìn ch’agli andéva a nöz a Bànd…»[Devi dirgli allora, a Cömo, che vi racconti la favola delle tre ochette che andavano a nozze a Bando…]
Quando ciò finalmente avvenne, in un’epoca in cui dei cartoni animati non si sapeva neppure l’esistenza, Bàbo Ghéo, fabbro di mestiere, volle riascoltare quella storia da me e volle farsi raccontare la gioia e le esclamazioni dei bambini al momento della sconfitta rovinosa de’ lóv [del lupo] nello scontro con la solida e provvidenziale casetta di ferro.
L’ingenuità delle ochette, divenuta nel tempo pressoché proverbiale, veniva ripresa talvolta da mia madre o da mia sorella, quando accennavano a persone un po’ sprovvedute («T’an vìd ch’al pê agli ucarìn ch’agli andéva a nöz a Bànd…» [Non vedi che sembrano le ochette che andavano a nozze a Bando…]), ma l’espressione in paese è sempre stata di uso molto comune e quindi m’è capitato di sentirla più volte anche da altri.

U j ìra ‘na vôlta, tènt èñ fa…
C’era una volta, tanti anni fa…
E’ perciò una favola, questa, a cui noi filesi ci sentiamo particolarmente affezionati. La nostra fantasiosa variante, così ben adattata al territorio antico, non può che arricchire il già grande patrimonio folclorico e narrativo romagnolo di cui fa indubbiamente parte.
 Fa molto piacere apprendere, dallo stesso articolo della Ludla, che: «di recente, dalla fôla dal tre uchini è stato tratto un cortometraggio a cartoni animati ad opera di Claudio Tedaldi in collaborazione con l’Atelier del cartone Animato».
La speranza ovviamente è di poter vedere, prima o poi e da qualche parte, quel Cartone che i bimbi filesi di tante generazioni hanno visto proiettato soltanto nella loro fantasia, facendola galoppare, nelle fredde sere d’inverno, sulle parole mirabolanti del fularèñ[6].
Bene, ora è il momento di raccontarla per filo e per segno questa splendida fôla dal fascino antico, magnificamente illustrata dai disegni che la matita, la fantasia, l’humour e la verve di Romano Saccani Vezzani hanno messo a nostra disposizione.
Le colorite varianti filesi del testo dialettale (con libera traduzione a fianco), sono frutto di quanto sedimentato nella memoria di chi scrive e, inevitabilmente, del suo stile narrativo.

°°°°°°°°



 

Al trè ucarìn ch’agli andéva a nöz a Bànd

U j ìra una vôlta, tènt èñ fa, quand che, coma ch’a v’ò ža det, a quĕ da nòñ l’ìra quéši tŏt aqua, una fila ad trè ucarìñ, trè surëli, ch’agli andéva a nöz a Bànd.
Al stašéva a quĕ a Fìl a ca’ d’un valarôl, fra so quant pòl e ‘na quica anàdra. Un bël dè al sintè dì, da un zižòn ch’u s’ìra férum  avšĕñ ae’ mišadùr, che a Bànd u j srĕb stê, da lè a puc, un gran Nöz.
A Fìl u j  staséva dla  žént imparintêda cun qui  d Bànd e st’agli ucarìn agli avéva sintì cunté tŏt quèl ch’us magnéva in che paéš e’ dè d San Machêri, quand che i Filìs i andéva in parìnt coma pu fašéva i Bandìš e’ dè ‘d Sant’Ègta.
E’ fo acsè che una matĕna, zĕti zĕti, al s’aviè, al ciapè la Strê di’ Dŏs e al s’infilè vérs a Bànd.
Camẽna te, che te camẽna, al pasè pr i Dŏs, e pù piàñ piàñ vérs a la Bindëla infĕna a quand ch’agli arivè a la Strê di’ Tamariš, al s mitè sòbit a möl int e’ Fusòñ dal Ciavg,  da lè al vultè pr in sŏ, vérs a l’Ôca. Màñ màñ ch’al s’fašéva avãnti ad qua e addlà  de’ Fusòn al tachè a vdé a infisìs i tamarìš, cun di’ rèm chi švintléva prinsĕna int l’aqua. Impët a l’Ôca, pröpi quand che ormai u s’avšinéva la séra al taché a sintì di’ rug’ chi paréva, anzi u s putéva dì ch’j ìra ad sicùr, qui d’un lóv.
Le tre ochette che andavano a nozze a Bando

C’era una volta, tanti anni fa, nel tempo in cui come già detto, il nostro territorio era in gran parte coperto da acqua e paludi, tre ochette, tre sorelle, che andavano ad un pranzo di nozze a Bando.
Vivevano qui a Filo, in un umile cortile, fra pochi polli e qualche anitra. Un bel giorno sentirono dire da un germano giunto ai bordi del macero, che a Bando di lì a poco ci sarebbero state grandi Nozze.
A Filo abitava gente imparentata con famiglie di Bando e le ochette avevano sentito raccontare di quanto si mangiava in quel paese il giorno di San Macario, giorno di fiera in cui i filesi si recavano dai parenti, visite restituite dai bandesi per Sant’Agata.
Fu così che un mattino, zitte zitte le tre ochette se ne andarono verso Bando per la Strada dei Dossi.
Cammina, cammina, passarono davanti ai Dossi [un ex convento], impuntarono la Cà Bindella e alla Strada delle Tamerici s’immisero nella Fossa Paolina nuotando verso nord, verso il dosso dell’Oca. Avanzando nell’acqua videro via via infittirsi la vegetazione con grandi rami che sporgevano finanche dentro la fossa. Giunte all’Oca, ormai quasi a sera, cominciarono ad udire in lontananza degli ululati, che parevano venire, anzi erano certe che venissero, da un lupo affamato.


Al stašéva a quĕ a Fìl a  ca’ d’un valarôl…
[Vivevano qui a Filo presso un vallarolo…]

al taché a sintì di’ rug’…
[cominciarono ad udire in lontananza degli ululati…]

St’agli ucarìn al s’impresionè sòbit, nenca parchè a lè d’intóran u ngn ìra né un capan e né un pulér.
«Oh purèti nòñ, e adês ‘s a fašegna?» Al dgè tŏti trè.
Intènt ch’al dgéva acsè, u s sintè, int e’ stradòn ad fiènc a la Fösa e’ cirlê dal rôd d’una brôza: l’ìra un cuntadèñ che turnéva a cà dòp avé fat un pô d’cana a lè piò in là, long a j aržnèt dla Vàl.
«Oh, bonòman, farmìv par piašé ch’avèñ bšògn. Ormai u s fa bùr, nòn arĕsmi d’andê insĕna a Bànd,  mŏ, al sintì nenca vŏ, e pê che žìra e’ lóv int sti parëg’. A s fašiv ‘na capanina, par caritê?»
«Beh mo ‘s capès! A i mitarò du minùt, a v la fèg sòbit!»
Cun so quént manŏc ad cana, òñ atàc a clêtar, in dŏ e dŏ quàtar u j fašè una bêla capanina e pu l’andè par la su strê.
Ona dagli ucarìn la i saltè sòbit indéntar ‘gènd:
« A la prùv mĕ, ch’a so la surêla piò granda…»
Mǒ apèna intrêda, patašgnàc, la mité sòbit e’ carnàz e pu la zighè: «Adës, chi ch’l’è fura, l’è fura, e chi ch’lè déntar, l’è déntar!»
Al dò surlìni a n’al savéva piò a chi arcmandês, al tachè a piènžar ad fura da l’ǒs, mǒ la piò granda la nn‘in vlè savé e la n’arvè pröpi briša.

Le ochette si spaventarono molto anche perché, nei paraggi, non si vedevano capanni o pollai.
«Oh povere noi, -dissero assieme- e adesso che facciamo?»
Proprio in quel momento venne, dallo stradone adiacente la Fossa uno stridio di ruote di biroccio: era un contadino che tornava a casa dopo aver tagliato un po’ di canna lungo le rive della Valle.
«Buonuomo, fermatevi per favore che abbiamo bisogno. E’ quasi buio, vorremmo andare a Bando, ma, lo sentite anche voi, c’è in giro il lupo in questo luogo. Ce la fareste una capannina, per carità?»
«Ma certo! Impiegherò due minuti, ve la faccio subito!»
Con qualche fascio di cannuccia, uno di fianco all’altro fece subito una bella capannina e poi se ne andò per la sua strada.
Una delle ochette entrò dentro e disse:
«La provo io, che sono la sorella maggiore…»
Appena entrata però, patasgnac, azionò il catenaccio in un lampo dicendo: «Ora, chi è fuori e fuori, e chi è dentro è dentro!»
Le due sorelline rimasero allibite, non sapevano più a chi raccomandarsi, si misero a piangere fuori dall’uscio, ma la sorella non aprì, fu irremovibile.



A s’ fašiv ‘na capanina, par caritê?»
[Ce la fareste una capannina, per carità?]

chi ch’l’è fura, l’è fura…
[chi è fuori e fuori…]



E’ tachéva ormai a ‘rburês i cantóñ e i rug’ de’ lóv i s sintéva sèmpar piò avšĕn, alóra a dò ucarìn al s mitè a caminê pianžend long ae’ sintìr ch’andéva a Bànd, fĕna ch’al sintè l’armór d’un carèt. L’ìra d’un marangòñ, un garžòn de’ falignàm ch’l’avéva tajê int e’ bos-c un bël pô ‘d tundĕl ad tamaréš.
Agli curè incóntar tŏti dò zighènd: «Fas e’ piašé, marangòñ, fàs una capanìna che ormai e’ fa nöt e u j è e’ lov che žira par e’ bos-c!»
«Mŏ purìn al mi ucarìn, a v’la fèg sòbit!»
E’ ciapè int la séga e döp un pô e’ dašè fura una bëla capanina ad tamaré e pu, nenca lò, u s’aviè par la su strê.
La mžêna la ‘gè alóra: «Adës u m tòca pu a mĕ a pruvê la cašina…» La saltè déntar e… ciàc ciàc, la mitè e’ carnàz nenca lì, dgènd: «Chi ch’l’è fura, l’è fura, e chi ch’l’è déntar, l’è déntar!».
La znìna, la pureta, la zighéva a tŏt andê: «Arvĕsum, arvĕsum, t’a n’e’ sìnt che e’ lóv l’è quĕ che ‘riva?» U n’i fŏ gnit da fê.

Cominciavano a calare le tenebre, gli ululati del lupo si avvicinavano, quando le due ochette ripresero piangendo il sentiero per Bando, finché udirono il rumore d’un carretto. Era di un legnaiolo, un garzone del falegname venuto nel bosco per tagliare qualche bel ramo di tamerice.
Gli corsero incontro piangendo: «Facci un favore, legnaiolo, facci una capannina che è quasi notte e qui c’è il lupo che sta vagando per il bosco!»
«Povere ochette, ve la faccio subito!»
Mise mano alla sega e dopo un po’ dalle sue mani uscì una casetta fatta di buoni rami di tamerice; anche lui poi, riprese la sua strada.
L’ochetta mezzana disse allora: «Ora tocca a me provare la casetta…» Entrò e poi… ciac ciac, fece scattare dietro di sé il catenaccio dicendo : «Ora, chi è fuori e fuori, e chi è dentro è dentro!»
La piccolina, poveretta, ormai non aveva più lacrime per piangere: «Aprimi, aprimi, non senti che il lupo sta arrivando? Non ci fu niente da fare.


Mŏ purìn al mi ucarìn, a v’la fèg sòbit!
[Povere ochette, ve la faccio subito!]


Arvĕsum, arvĕsum…
[Aprimi, aprimi…]




Ormai u s’éra quéši fàt nöt, u n s muvéva piò ‘na fója e la strê biènca la s’avdéva a malapèna cun i zig de’ lóv chi paréva incóra piò všĕn.
L’ucarìna piò znìna la caminéva e s la pianžéva quand che d’un tràt la sintè di pës ad córsa e e’ strìdar dal rôd d’un carèt. L’ìra càrg ad latǒñ e ad spranghi d’fër e u j caichéva drì un fràb ch’u s’andéva a cà têrd, dòp avé finì e’ lavór da i padròñ d’un pëz ad valèta.
«Dai magnàñ, aiùtum, fàm una capanina, par caritê, ch’a so ‘rmasta da par mĕ, e e’ žira e’ lóv!».
La dmandéva e s la zighéva, elóra e’ fràb e’ ciapè sòbit int agli intnàj e e’martêl, e cun quàtar böt e’ dašè fura una cašina d fër da fê mĕl voj.


Ormai era già quasi notte, non si muoveva più foglia, la bianca strada s’intravedeva appena e le urla del lupo s’udivano sempre più vicine.
La piccola ochetta camminava e piangeva ancora a dirotto quando ad un tratto sentì qualche passo di corsa e lo stridere delle ruote di un carretto. Era carico di ferraglia e di verghe di ferro, sospinto da un fabbro che tornava a casa tardi per aver finito il lavoro presso i padroni di uno scorcio di valle.
«Oh calderaio, aiutami, fammi una capannina per carità, sono rimasta sola e qui c’è un lupo vagante!»
Chiedeva e piangeva così tanto che il fabbro prese subito martello e tenaglie; in pochi colpi mise in piedi una casina di ferro davvero invidiabile.

Dai magnàñ, aiùtum…
Oh calderaio, aiutami…


…e’ dašè fura una cašina d fër da fê mĕl voj.
[…mise in piedi una casina di ferro davvero invidiabile.]


Intènt e’ lóv e’ šnašléva long a j aržnĕt e stra ‘l möti, pidghènd e šgargatènd, da la fàm ch’l’avéva. Da stramêž i tamarìš e’ sintè un udór che cgnuséva ad röba da magnê: l’udór dagli ucarìn. U j andè drì e l’arivè a la cašina d paja.
«Ooh, la mi ucarina, al sö che t’cì a lè, arvĕsum la pôrta!» E sòbit döp: «Dai fa prèst ch’a j ò fàm…» E pu, prĕma d’avé ‘n’arspösta: «Adës a t’fëg un scuržèñ scuržòn ch’at bŏt žò tot e’ capanòñ!»
E’ acsè difàti e’ fašè, e’ lóv. L’amulè una bòmba che la zuglìna, la paja e la cana al vulè infĕna ae’ zìl, e pu u s butè adös a l’ucarìna: «Aammm». Cun la fàm vëcia ch’l’avéva u la mandè žo tŏta intìra, tŏt int un pcòñ.
Intanto il lupo annusava ogni odore lungo gli arginelli e nei pantani, pestando e sgolandosi a più non posso, dalla fame che aveva. Fra le fronde di tamerice fiutò un aroma d’oca mangereccia che gli era noto. Lo seguì e giunse alla capannina di paglia.
«Ochetta, so che sei lì, aprimi la porta!» E subito dopo: «Fa presto che ho fame…» Poi, prima di ricevere risposta: «Ora ti faccio uno scoreggino scoreggione e ti butto giù tutto il capannone!»
Il lupo passò subito ai fatti. Sganciò una bomba tale che i giunchi, la paglia e la canna volarono fino al cielo e poi si buttò addosso all’ochetta: «Aamm». Con la fame vecchia che aveva, l’ingoiò tutta intera, in un solo boccone.


e’ lóv e’ šnašléva long a j aržnĕt…
[il lupo annusava ogni odore lungo gli arginelli…]


a t’fëg un scuržèñ scuržòn…
[ti faccio uno scoreggino scoreggione…]

E’ fašè du pês, e’ stašéva incóra mandènd žò, quand ch’e’ sintè incóra l’udór d’ucarìna. Senza pinsê piò a gnìt, ste luàz, da la fàm ch’us tiréva drì da un töc, e’ tachè a pidghê sfarghènd e’ nêš drì tëra e puc luntàñ, stra i spèñ e al ràž sota i tamarìš, e’ truvè e’ capanĕñ ‘d lègn dl’ucarìna mžêna.
Cun ‘na vós incóra piò ragaìda alóra e’ rugiè:
«Ucarìna, arvĕs la pôrta, ch’a t la bǒt žò!»
E sòbit döp: «A t’fëg un scuržèñ scuržòn ch’at bŏt žò tot e’ capanòñ!» L’amulè una ghéga sèca ch’la paréva una sajèta int e’ méš d’agòst; i tundĕl ad tamaréš i squasè in sŏ e in žò pr un pëz e pu i s’arbultè.
E’ lóv e’ spalanchè la bucaza  cun chi dẽnt chi paréva di curtĕl da mazalér e pu adös: u s magnè pr intìr nenca l’ucarìna mžêna.
Adës mo l’avéva la pènza bëla tiràta, e’ sintéva incóra al pèñ ch’agli rušghéva in góla, mo’ l’ìra un bël töc che u n s’sintéva acsè pĕn. Parò, s’la n’ìra sól un’impresiòñ, a lŏ u j paréva ad sintì incóra che bòñ udór d’ucarìna.
Šnêša, šnêša a pènza a bàs u s fašè ciapê da l’udór e, a lè puc luntàn, int e’ slêrg d’una barléda, e’ truvè un’êtra cašina, quèla d’fër, quèla dla piò znìna dagli ucarìn.
«Dai mö, puchi maravĕj ch’a j ò ‘rmàst puca pazìnzia, arvĕsum sobìt sinö a t fëg un scuržĕñ scuržòñ ch’at bŏt žò tŏt e’ capanòñ!»
Mo’ u n’asptitè gnenc l’arspösta, l’amulè sòbit un gran scuržaz, e pu dù, e pu trì. Pruom… Pruom…Pruomm. Mocchè. U s prilè e la cà d fêr l’ìra incóra férma com un pónt.
U j dašè incóra parëci vôlt, bromm… brommm cun di sfùrz sèmpar piò grĕnd: breemm… breemmm… e e’ fŏ a lè che la pènza la j s-ciupè.
Alóra l’ucarìna  znìna pianì pianì l’arvè la pôrta, la gnè fura e l’andè da e’ lóv stramazê par tëra.

Fece due passi e stava deglutendo quando sentì ancora forte l’odore di ochetta. Senza riflettere, il golosone, con la fame che si tirava dietro da un pezzo, esplorò ogni anfratto col naso radente a terra e poco lontano, fra spini e rovi sotto le tamerici, trovò la casetta di legno dell’ochetta mezzana.
Con la voce ancor più rauca allora gridò:
«Ochetta apri la porta, sennò te la butto giù!»
E dopo: «Ora ti faccio uno scoreggino scoreggione e ti butto giù tutto il capannone!»
Sparò un colpo secco che pareva una saetta nel mese di agosto; i tondelli di tamerice traballarono per un po’, poi rovinarono a terra.
Il lupo spalancò la boccaccia dai denti affilati come altrettanti coltelli da macellaio e in un attimo ingoiò intera anche l’ochetta mezzana.
Ora sentiva davvero la pancia ben tesa, sentiva ancora le gustose penne sfregargli la gola, ed era un bel po’ che non si sentiva così pieno. Tuttavia, se non era una pura impressione, a lui pareva di sentire ancora un intenso odore d’ochetta.
A forza di annusare pancia a terra percepì l’odore preciso e, poco lontano, in un piccolo spiazzo trovò un’altra casetta, quella di ferro, quella della più piccola fra le ochette.
«Dai, su, poche storie che non ho più pazienza, aprimi subito altrimenti ti faccio uno scoreggino scoreggione che ti butto giù tutto il capannone!»
Ma non aspettò la risposta, sparò immediatamente un gran peto, e poi un secondo e un terzo. Pruom… Pruom… Pruomm. Macché. Si girò e la casina di ferro era ferma e cstabile come un ponte.
Si sforzò ancora parecchie volte, bromm… brommm… con sforzi sempre maggiori: breemm… breemmm… e fu lì che la pancia gli scoppiò.
Allora la piccola ochetta, pian piano aprì la porta, uscì e andò presso il lupo stramazzato a terra.



u s magnè pr intìr nenca l’ucarina mžêna.
[ingoiò intera anche l’ochetta mezzana.]


e’ fŏ a lè che la pènza la j s-ciupè.
[fu lì che la pancia gli scoppiò].


pianì pianì l’arvè la pôrta…
[pian piano aprì la porta…]


Cun un curtlaz ch’u j avéva làs e’ fràb la j arvè la pènza e la tirè fura al su do surëli. Agli éra un pö sparnazêdi, mo’ incóra vìvi e pu nènc  purasé pintidi.
Lì la s li purtè int la cà d fër indǒ ch’al s mitè a durmì abrazêdi infĕna a la matĕna.
Coma che spuntè e’ sól al ciapè la strê par Bànd e döp un pô al dašè fura da e’ Bos-c di’ Tamariš.
A Bànd, int e’ misadùr indó ch’us tgnéva ste gran nöz u s’ìra ardŏt una fila d’ôc, d’anàdar e zižǒñ ch’la n finéva piò. E’ fǒ un nöz che durè una ciöpa ‘d dè, cun dal magnêd ch’a n’al s’ìra mai vĕsti.


Con un coltellaccio lasciatole dal fabbro gli aprì la pancia e così fece uscire le sue sorelle. Erano un po’ spennate, ma miracolosamente vive e molto pentite.
Lei se le portò nella casina di ferro dove dormirono abbracciate fino al mattino.
Appena spuntò il sole ripresero la strada per Bando e presto uscirono dal Bosco del Tamariso.
A Bando, nel macero ove si teneva il gran pranzo di Nozze, s’era radunata una fila enorme d’oche, anatre e germani. Fu una celebrazione che durò un paio di giorni, con mangiate mai viste prima.



e la tirè fura al su do surëli.
e così tirò fuori le sue sorelle.


e’gran nöz
il gran pranzo di Nozze



Quand ch’al s’agnè cà e al fŏ impët a la Bušanaza, stavôlta al s’tufè int al Brèncul e agli avanzè insĕna quéši ae’ Valòñ,  fašèndla piò lónga, mŏ scansènd, par l’amór di Dio, e’ bùr de’ Bo-sc di’ Tamarìš.


Quando tornarono a casa, nei pressi della Bušanaza, stavolta si tuffarono nelle Valli Brancole e ne percorsero un bel tratto fin quasi all’odierno Borgo Vallone, allungando il percorso, ma evitando, per carità di Dio, l’oscuro Bosco del Tamariso.




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[1] La Ludla (La Favilla), periodico dell’Associazione “Istituto Fredrich Schurr per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo”, Anno XIX, settembre 2015, n.7 (162) pp. 8-9.
[2] «I tre porcellini» - riporta Wikipedia - è una fiaba tradizionale europea di origine incerta. Pubblicata per la prima volta da James Orchard Halliwell-Phillipps intorno al 1843 nella raccolta Nursery Rhymes and Nursery Tales, riprende certamente un racconto della tradizione orale di molto antecedente […].
[3] La sostituzione del  romagnolo col toscano-italiano nella funzione di lingua madre è avvenuta rapidamente  in Romagna in tempi recenti, ossia intorno ai primi anni ’50 del ‘900 quando l’affermarsi della radio e della televisione determinò grandi cambiamenti in un paese in forte sviluppo economico, mutamenti «epocali» che segnarono per molti aspetti l’abbandono di usi, costumi e cultura popolare diffusi da secoli presso le nostre popolazioni.
[4] Si tratta dell’Oca-Pisana (da scrivere col trattino), lo stradone lungo un paio di Km che, dopo le bonifiche di fine Ottocento, unì il dosso dell’Oca con la Cà Pisana, quest’ultima localizzata nei pressi dell’odierno fungo dell’acquedotto, accorciando il tragitto Filo -Bando e tagliando fuori la vecchia  «Strada dei Dossi». La porzione di Mappa a fianco è tratta dalla Carta [napoleonica] del Ferrarese, Vienna, Kriegsarchiv, B VII a 284-6, foglio 4 G, e risale al 1812-1814.
[5] Per approfondire il personaggio si veda in questo blog: 28.10.2007 - Cömo di Agide Vandini, Ricordo del narratore e intrattenitore filese Ricci Maccarini Mario (Cömo) - http://filese.blogspot.it/2007/10/personaggi-filesi-1-cmo.html
[6] Fulesta in altre parti della Romagna.