mercoledì 31 dicembre 2014

Una poesia e…



I primi auguri di Arianna










La porta nel cielo
di Orazio Pezzi

Il pianto di Arianna
ha spezzato
l'ansia dell'attesa.
Si è aperta una porta
nel cielo
L'angelo è disceso fra Voi
per dirvi
ecco il regalo del Signore
la Vita.





A TUTTI I LETTORI DELL«IRÔLA»
L’augurio di un felicissimo 2015


(da Arianna Vandini e dai nonni Agide e Diana)


lunedì 29 dicembre 2014

Mario Babini ed Antonio Meluschi («Il Dottore»)



Gli «Amarcord» di un partigiano filese (IV)
di Giovanni Pulini
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]


Il mio ricordo di Mario Babini
Ero poco più di un ragazzo quando un mio compagno, che come me aveva interrotto la scuola per imparare dallo zio il mestiere di falegname, mi chiese di andare a trovarlo sul luogo del lavoro. Lo zio, falegname già affermato, aveva un piccolo capannone, vicino all’abitazione, utilizzato come laboratorio: il mio amico lavorava lì. Nell’officina una radio sempre accesa veniva ascoltata da tutti, occasionali frequentatori e amici dello zio. Un giorno ci andai e trovai il mio compagno con lo zio che stavano lavorando su di un banco alla presenza di tre persone. Queste stavano accanto ad una stufetta addossata alla parete; lungo il muro c’erano alcune mensole e sopra di esse la radio accesa. Con una certa animazione i presenti commentavano negativamente le notizie che stavano ascoltando. Appresi proprio in quel luogo e in quella occasione le prime lezioni di antifascismo; se ben ricordo correva l’anno 1939, ed erano i mesi in cui la Germania occupava la Cecoslovacchia e minacciava la Polonia.
Gli argomenti di discussione non mancavano ed io ascoltavo con grande attenzione: era un linguaggio che mi appassionava. Si parlava della guerra di Spagna che stava per concludersi lasciando una scia di morti tale da non potersi neppure quantificare: era stata una guerra fratricida.
Ogni giorno, quando gli impegni di lavoro mi lasciavano libero, mi recavo alla falegnameria: mi piaceva l’ambiente ed ero anche ben accetto dai frequentatori abituali che a volte mi ponevano alcune domande. Uno di loro mi chiese perché avessi interrotto la scuola e quando gli spiegai che la mia famiglia necessitava del contributo lavorativo, mi disse che non era giusto interrompere gli studi per necessità contingenti.
Un giorno il falegname, Giovanni Matulli, per i filesi Gianël, mi chiese se avessi trovato giusto che soldati tedeschi, in Polonia, intimassero armi alla mano a donne e bambini di lasciare le loro case asserendo che loro erano i padroni.
Un giorno entrò un signore che non avevo mai visto prima, le persone che stavano ascoltando la radio si alzarono e gli andarono incontro per salutarlo, da questo capii che doveva essere una persona importante, dopodiché, fatti i saluti di circostanza, si mise a parlottare con Gianël. Chiesi chi fosse quel signore: era Mario Babini, un radiotecnico che costruiva radio per un negozio di Ravenna, mentre Matulli ne preparava il mobiletto esterno. Ricordo che prima di uscire, avvicinandosi a noi ci chiese come fosse la ricezione. Va ricordato che nel periodo fascista non era possibile ricevere le stazioni trasmittenti estere a causa di uno schermo di disturbo che ne rendeva difficoltoso  l’ascolto. Babini prese la radio dalla mensola e, con alcuni strumenti che aveva con sé in borsa, si sintonizzò su Radio Londra. «Avrete più materiale di discussione!» disse poi, andandosene.

Mario Babini
Babini era un romagnolo di Giovecca, ma  avendo  sposato una ragazza di Filo, viveva lì in modo quasi permanente. Era un fondatore della cellula comunista di Filo ed era un uomo di grande capacità organizzativa. In particolare ricordo che, alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943, lo vidi seduto davanti alla bottega del barbiere intento a leggere il giornale, mentre giungeva dai paesi vicini un rumoroso corteo che inneggiava all’avvenimento. Lui disse: «Non facciamoci illusioni, la Libertà, forse, è ancora lontana».
L’uomo, di consolidata formazione politica, non smetteva mai di organizzare, attività che era in tutta evidenza nella sua natura. Aveva un modo particolare di esporre le sue ragioni e lasciava percepire con immediatezza la classe di un comandante. Ricordo un incontro a casa degli suoceri, al quale anch’io partecipai, che aveva come ordine del giorno il reclutamento di partigiani combattenti.
Sei dei partecipanti si unirono alla Brigata che operava sulle colline tosco-emiliane ed io, dopo qualche mese di latitanza, dopo che Babini fu barbaramente ucciso a tradimento sulla porta di casa dei genitori, mi unii ad una formazione partigiana operante nella Valle di Comacchio. Quella formazione era la 35° brigata Garibaldi che poi prese proprio il nome di “35a Brigata Mario Babini”.

Antonio Meluschi, il «Dottore»
Il Dottore” era il nome di battaglia del Comandante della 35° Brigata partigiana “Mario Babini”, Antonio Meluschi. Arrivò nel tardo autunno al mio paese, Filo, e prese alloggio in una casa vicino alla valle; con sé aveva la famiglia composta dalla moglie, Renata Viganò, e dal figlio Agostino, un bimbo, di quattro o cinque anni, da tutti chiamato . Nessuno poteva immaginare che questa famiglia nascondesse la sua vera attività: Il Dottore era il comandante della Brigata e l’infermiera Renata era il Commissario Politico della stessa. Per la gente che lo vedeva ogni tanto e di passaggio, erano semplicemente sfollati dalla città.

Antonio Meluschi 
(Il Dottore)
Il Dottore si distinse subito per la grande bravura e ciò determinò l’ammirazione di tutti gli antifascisti del paese. Vorrei dare la giusta memoria al personaggio, del quale a mio parere si è parlato poco, inquadrando meglio questo Comandante così chiacchierato nel bene e nel male. Meluschi era un uomo d’azione, con modi molto spicci e molto militari, e come tale non apprezzato da tutti, specialmente dalla popolazione che non amava le maniere forti.
Nel periodo della mia clandestinità non ricordo di averlo mai visto, perciò mi limito al racconto di episodi che ho saputo indirettamente. Lo conobbi soltanto a guerra finita.
La zona valliva da noi controllata era sulla rotta degli aerei che bombardavano l’Europa e rientravano alle loro basi. Qualche aereo veniva colpito e l’equipaggio si paracadutava nella nostra zona: questi aviatori erano stati informati che, in caso di atterraggio o ammaraggio in quel territorio, i partigiani li avrebbero raccolti e, in qualche modo, portati in salvo nelle loro retrovie. Non era semplice. Il percorso veniva effettuato in acque non sempre calme, le operazioni erano complesse ed io ero uno degli addetti a questo servizio.
Nei primi mesi del 1945 accadde un incidente. In una casa allagata cinque aviatori attendevano il trasbordo, reso impossibile a causa del mare grosso e ciò li innervosì al punto da disarmare due partigiani e di minacciarli chiedendo di essere immediatamente imbarcati. Ne fu informato, non so come, Il Dottore che si precipitò sul posto accompagnato dal Luogotenente Armando Montanari, detto “e’ Desk”, e riuscirono, in qualche modo che non fu riferito, a dissuadere gli ammutinati.
Ho voluto raccontare questo episodio poiché negli anni ’70 la RAI fece proprio un servizio a tal proposito, “Uomini in guerra” nel quale furono intervistati alcuni superstiti che riportarono il fatto.
Un altro episodio che mi fu raccontato mette in risalto la forte personalità di Meluschi.
Terminato il conflitto, dopo aver seppellito i morti, bisognava fare i conti con la fame. Chi possedeva una barca si dedicava alla pesca delle anguille nella Valle di Comacchio, attività che sconfinava nell’illegalità in quanto le valli erano di proprietà del Comune di Comacchio. Tuttavia, date le circostanze, vigeva ancora in quei primi mesi di Libertà la legge dell’arrangiarsi. I possessori delle barche, e io fra loro, erano quasi tutti ex combattenti, abituati ad infrangere le leggi. La pesca rendeva bene, il pescato permetteva di dare il necessario per la casa ed il rimanente veniva venduto.
Un giorno il locale Comitato di Liberazione intervenne asserendo che la risorsa della pesca doveva essere ripartita anche con coloro che non possedevano un’imbarcazione. Il Comitato fece intervenire a tale proposito Il Dottore. Questi convocò immediatamente gli interessati dicendo loro che da quel giorno le regole le avrebbe dettate lui: al mattino avremmo dovuto essere tutti a terra ad orario prestabilito, mentre il pescato avremmo dovuto consegnarlo ad una persona da lui designata. Il prezzo lo avrebbe stabilito lui stesso. Aggiunse infine che avrebbe predisposto una ronda per fare rispettare tutte le regole. Il mattino successivo a terra ci fu qualche mugugno, piccoli tafferugli, forti minacce, poi la questione si normalizzò.
Nel paese si era venuta a creare nel tempo una certa sudditanza verso questo personaggio. Il Dottore era stato un grande Comandante, tuttavia la guerra era finita. Usava ancora modi militareschi, era un uomo d’azione, ma la gente aveva bisogno di pace. Dovevano cessare i rancori, doveva cessare l’istigazione all’odio e Il Dottore da questo orecchio ci sentiva poco.
Ricordo che ci fu un’assemblea nel palazzone di Filo, non ne ricordo l’ordine del giorno, ma sicuramente si trattava di una questione che riguardava il Comandante. Lui stesso era il relatore. Quando ebbe terminato ci fu qualche intervento di disapprovazione. Senza aspettare che gli interventi si esaurissero, Meluschi prese allora d’autorità la parola, bacchettò i dissenzienti e disse di avere altri impegni, sicché bisognava chiudere alla svelta l’assemblea. Il Segretario del Partito Comunista del paese, nella persona di Guerriero Vandini, da tutti conosciuto come Ghéo, prese a quel punto la parola e disse al “Dottore”, senza girarci troppo attorno, che se aveva tanta fretta poteva accomodarsi, indicando la porta d’uscita.
Da quella sera Antonio Meluschi sparì dal paese e non ricordo di averlo mai più visto. 

                                                                                                                     (IV – fine)

venerdì 26 dicembre 2014

Storia di due padroni al tempo di guerra



Gli «Amarcord» di un partigiano filese (III)
di Giovanni Pulini
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]


La casata dei Tamba
A Filo d’Argenta, mio paese natale, la famiglia Tamba era proprietaria di un vasto territorio, in parte lavorato in compartecipazione con i braccianti del paese ed in parte lavorato a mezzadria.
Tamba era residente a Lugo di Ravenna e a Filo possedeva la villa che affacciava sul «campicello», un prato oggi Piazza Agida Cavalli. Il palazzo era recintato da un possente muro dietro al quale c’era un piccolo parco con alberi giganteschi.
Durante l’estate, quando i Tamba erano in villa, la servitù faceva le pulizie tenendo le finestre aperte ed una radio, l’unica nel paese e specchio della loro ricchezza, trasmetteva musica ininterrottamente: nel periodo fascista la cronaca era proibita ed i programmi culturali erano inesistenti.
Noi ragazzi, sdraiati sul prato della piazza, godevamo con grande piacere questi momenti gioiosi e anche molte persone adulte si radunavano nello spiazzo per lo stesso motivo.
A poca distanza dalla nostra abitazione c’era una fornace di proprietà dei Tamba e vi si fabbricavano mattoni fatti a mano, ricavandone un prodotto di pessima qualità. Nella fornace mio padre aveva mansioni di maltarolo: impastava la terra, un lavoro da bestia, senza un orario prefissato. La paga la stabiliva il padrone. Così dunque nacque il rapporto fra la mia famiglia ed i Tamba.
Un giorno il patriarca di quella famiglia signorile morì, i tre figli ereditarono e si divisero il patrimonio, la villa di Filo ed una cospicua quantità di terreno, che si estendeva fino al centro urbano, furono ereditati da Antonio.

Tamba Diotallevio
Nella foto anni ‘20 la Via Chiesa nel centro di Filo prima delle distruzioni belliche [ora tratto di Via Oca-Pisana]. La Villa Tamba è l’edificio più a destra nel punto ove oggi sorgono le Scuole Elementari., il fronte della residenza Tamba è delimitato dalla vistosa recinzione. Si notino la vecchia chiesa con l’imponente e perduto campanile abbattuti ad inizio anni ’30. Fra essi e la Villa Tamba, ove oggi sta il giardino dell’Asilo Parrocchiale abbandonato, le «scuole nuove» in faccia a vista, un edificio scolastico complementare alle cosiddette «scuole vecchie» che, con la ricostruzione del dopoguerra, lasciarono il posto alla Casa del Popolo.

Il terreno era molto fertile, c’erano filari di vite in piena produzione; alcuni di essi, in compartecipazione, erano stati dati alla mia famiglia e da questi si traeva il vino necessario al fabbisogno. In mezzo ai filari c’erano delle viti che producevano un’uva che maturava  a metà agosto, in concomitanza con l’Assunzione della Beata Vergine, e per ciò noi chiamavamo questo frutto “uva della Madonna”.
 A casa nostra l’uva si mangiava col pane, tanto da diventare il companatico.
Un giorno, verso sera, una delle mie sorelle mi disse di andare con lei per raccogliere una sporta d’uva che sarebbe servita per la nostra cena. Mi caricò sul cannone della  bicicletta e andammo. Lasciammo il nostro mezzo ad un centinaio di metri dalla vite, raccogliemmo l’uva necessaria e tornammo sui nostri passi, ma lì trovammo anche il fattore che ci aspettava e che ci strappò la borsa dalle mani dicendo che l’avrebbe portata al suo padrone. Mia sorella ed io tornammo a casa pieni di vergogna per l’accaduto. Dopo qualche minuto arrivò il maggiordomo dei Tamba e disse a mio padre di seguirlo che il padrone doveva parlargli. Negli anni non ho mai dimenticato la testa bassa, segno di grande umiliazione interiore, con cui mio padre rientrò in casa, senza commenti, senza parole; tutto questo per una sporta d’uva.

La sparatoria di Villa Tamba e l’eccidio di Filo
Allo scoppio della guerra i Tamba si trasferirono in via permanente nella villa di Filo che fu teatro, ai primi di settembre, di un episodio  mai chiarito fino in fondo, oscuro come tanti avvenimenti di quel periodo che non si conosceranno mai del tutto, poiché la spietatezza della guerra ha portato via molti testimoni.
Il fatto tragico lo esporrò così come mi fu raccontato, scusandomi per eventuali ed involontarie imprecisioni. Una sera ai primi di settembre del 1944 un gruppo di quattro persone bussarono alla villa dei Tamba intimando, in nome della Resistenza, di consegnare nelle loro mani Lire Centomila, somma da destinarsi al mantenimento dei combattenti partigiani.
Tamba rispose che non disponeva, in quel momento, di simile somma accordandosi per la sera seguente. La sera del giorno stabilito, i quattro bussarono alla porta, si trovarono di fronte un Maresciallo tedesco: ne seguì una sparatoria ed il militare germanico fu ucciso[1].
I presenti all’Osteria, a poca distanza da casa Tamba, da cui si presume provenisse il gruppo armato, al rumore degli spari, rincasarono immediatamente, il barista chiuse l’esercizio e si ritirò nel suo alloggio sopra il locale. La reazione tedesca fu però immediata. Chiamarono l’oste e si fecero condurre fino alle case dei clienti presenti al momento della sparatoria. Dentro al bar rinchiusero una quarantina di persone che il giorno successivo furono trasferite ad Argenta. Il Federale indicò chi doveva pagare con la vita questa barbara esecuzione. Durante il ritorno, a quattro chilometri dall’incrocio di Filo, cinque di questi furono fucilati ed altri cinque furono ammazzati nel centro del paese, a pochi passi dal luogo dell’accaduto.


In questa foto, forse dei primi anni ’40, il passeggio domenicale lungo la Via Provinciale [oggi Via 8 settembre 1944] nel centro di Filo. La foto è stata scattata da un terrazzo adiacente l’Osteria, poi Bar Centrale [oggi Bar Giada]. Nello scorcio di edificio più a sinistra il caseggiato Barabani con l’abitazione di Ivo Vandini, seguono le «scuole vecchie» poi danneggiate dai bombardamenti e quindi abbattute [oggi Casa del Popolo]. Oltre l’incrocio con la Via Chiesa e la strada per Bando, la Cà dla Nuziadina. 

Dei Tamba poi si persero le tracce, nella loro villa si insediò un Comando tedesco, fino a che fu bombardata e distrutta nell’aprile del ‘45. Terminati gli scontri fra eserciti contrapposti, le armi tacquero e si contarono i morti, ai quali si diede pietosa sepoltura.

Filo, 14 aprile 1945, giorno della Liberazione. Come si presentava la Via Chiesa: dov’erano le scuole supplementari e Villa Tamba, si scorgono solo macerie
In quei giorni si dava però anche sfogo a vent’anni di repressione. La gente del paese, suo malgrado, era abituata a vedere morti, scoprire cadaveri e fra questi macabri rinvenimenti fu trovato, nel greto di un canale, il corpo, completamente nudo,  di uno dei protagonisti - così si disse -  dei fatti di villa Tamba[2]. Alla notizia del ritrovamento nessuno si meravigliò, ma quei fatti rimasero per molti versi un enigma e mai si seppe chi li avesse autorizzati. Questo dà l’idea di quanto poco contasse la vita.
Col tempo si seppe che Tamba dirigeva una fazenda nella pampa argentina.
Dopo qualche anno Tamba tornò a Filo, si stabilì in località Fiorana e trasformò la casa colonica di sua proprietà in una casa di stile spagnolo, tanto era stato influenzato dalla sua permanenza in Argentina.
Passarono gli anni ed io mi trasferii a Bologna dove facevo il taxista. Un giorno risposi ad una chiamata telefonica e, recatomi all’indirizzo, mi trovai davanti il signor Tamba. Strada facendo gli dissi di conoscerlo e di essere il figlio di quel Zavateñ che aveva conosciuto tanti anni prima.
Arrivammo a destinazione e scesi dall’auto per salutarlo e dalla sua espressione capii che il nostro incontro gli aveva fatto piacere: abbozzò un sorriso come quando si incontra un parente non rivisto per tanto tempo. Tamba disse che si ricordava della nostra famiglia e di quando lavoravamo nella sua proprietà, chiese di mio padre e si commosse a tal punto che le lacrime gli scendevano lungo il viso.
Mi raccontò della sua odissea del dopoguerra, tanti particolari di accadimenti suoi e della sua famiglia. Quell’uomo aveva bisogno di sfogarsi con una persona che lo capisse e secondo lui io ero la persona giusta. Anch’io mi commossi ascoltandolo e mi sentii orgoglioso nel constatare che queste confidenze mi venivano fatte da un uomo che aveva una cultura ed una classe ben diversa dalla mia.
Il motivo per cui ho raccontato e scritto questa storia è dato dal ricordo frequente di quell’incontro e penso che il Signor Tamba non raccontasse a chiunque avesse voglia o tempo di ascoltarlo, ciò che ha raccontato a me.

Guiélum Rosetti
Rosetti Guglielmo, un personaggio che ha lasciato il segno nella mia generazione, era un romagnolo di Ravenna, conosciuto in città col soprannome di famiglia, i Fabroñ, mentre nel mio paese, Filo, tutti lo conoscevano come Guiélum ed era il proprietario della grande Azienda denominata Campeggia, con sede nel fondo agricolo che ancora oggi porta quel nome.
La proprietà era di dimensioni enormi e confinava col il centro urbano di Filo. Guiélum dirigeva personalmente l’Azienda, di questa una parte era a mezzadria e una parte a compartecipazione. Ogni contadino aveva la disponibilità di un pozzo Norton per l’abbeveraggio degli animali e per l’uso domestico. Io abitavo in un piccolo borgo, abitato da dodici famiglie, e l’approvvigionamento dell’acqua distava tre chilometri.
Guiélum andava in giro con una bicicletta priva di qualunque accessorio, vestiva con indumenti logori e rattoppati; durante l’inverno calzava zoccoli, sempre infangati, e indossava una mantella grigioverde di tipo militare: chi lo avesse incontrato  senza conoscerlo avrebbe pensato che era un poveraccio. Non so quale titolo di studio avesse, ma si sapeva che durante la Grande Guerra era Colonnello di Cavalleria.
Tutti noi vedemmo i primi trattori, le seminatrici meccaniche e quant’altro di moderno sopravveniva a Filo, proprio nella Campeggia: Guiélum anticipava i tempi dello sviluppo agricolo di almeno dieci anni. Lui non dava confidenza a nessuno, nel paese non aveva amici, ma so con certezza che era un uomo generoso: ai braccianti con risorse limitate che vivevano nei pressi dei suoi terreni non ha mai fatto mancare il necessario.
Un giorno il Maresciallo dei Carabinieri lo fermò in malo modo chiedendogli i documenti, dove abitasse e dove lavorasse, Guiélum rispose che era il padrone della Campeggia, che era un Colonnello della Cavalleria in pensione e gli snocciolò le generalità. Il Maresciallo, visibilmente imbarazzato, si mise sull’attenti, un episodio, questo, che ebbe come testimoni due operai che stavano facendo manutenzione in strada.
Mio padre prendeva in affitto l’argine del fiume Reno, al limitare del fondo Campeggia, e tutta la mia famiglia, durante i mesi estivi lo percorreva per la fienagione, sicché conoscevamo bene Guiélum.


Filo di Alfonsine, argini del Reno, anni ‘50. Lavoratori impegnati nella fienagione

Un giorno la storia della Campeggia e dell’Italia cambiò. La dichiarazione di guerra travolse i bei propositi di Guiélum. Dopo tre anni di guerra l’Italia, con qualche vittoria e molte sconfitte, tentò di uscire dal massacro lasciando un Esercito allo sbando, ma l’armistizio dell’8 settembre del ‘43 non fermò lo scempio, lo peggiorò, consegnando la nazione a Tedeschi e Fascisti che sterminarono parte della popolazione italiana.
Ai primi di marzo del 1945 mi trovavo a Ravenna, già liberata; nella Piazza era stato sistemato un cartellone con la planimetria dell’Emilia Romagna che veniva aggiornato a seconda degli spostamenti del fronte. Un giorno mentre osservavo il cartellone vidi Guiélum che stava facendo la stessa cosa; mi avvicinai e gli dissi: «Come va signor Rosetti?».
Vidi dipingersi il terrore sul suo volto: io ero vestito da partigiano ed in quel periodo quella divisa creava tensione, soprattutto quando ci si avvicinava ad un civile. In questo caso era anche un civile proprietario di grandi capitali. Non lo lasciai riflettere ed aggiunsi che ero di Filo, figlio di Zavateñ, soprannome di mio padre, come si usa nei nostri paesi.
Guiélum  mi chiese da quanto tempo mancassi dal paese e se avessi notizie dei suoi contadini. Gli raccontai della fucilazione di dieci civili da parte tedesca, nomi e cognomi, Guiélum li conosceva tutti.
Si era fatta l’ora di pranzo e Guiélum volle a tutti i costi portarmi a casa sua. Abitava in una grande casa fuori città e la raggiungemmo a bordo di un calesse trainato da un cavallo pezzato; la gente osservava il nostro passaggio con stupore, non capivo se guardavano il cavallo o la strana coppia che formavamo.
A me pareva sussurrassero “un partigiano vicino ad un borghese, che strano!”. Giunti a casa sua, non appena la famiglia seppe che ero di Filo, mi bersagliò di domande, ma io non avevo le risposte che si attendevano. Ci mettemmo seduti a tavola dove fu servito un brodo profumatissimo con tagliolini, mai gustato prima, né dopo. Era una famiglia gioviale, tutti parlavano il dialetto, ed io mi sentivo a mio agio. Quando finimmo il pranzo Guiélum propose di portarmi in città con il calesse, e così fu.
Io ero acquartierato alla Caserma di Cavalleria e, quando arrivammo, scese anche Guiélum che mi porse la mano e mi diede cinquanta Lire. Mi disse di tenere quei soldi perché avrebbero potuto servirmi.
Fu l’ultima volta che lo vidi.
Quando la guerra terminò, nell’Azienda filese si dovette procedere alla bonifica delle mine e questa lasciò una scia sanguinosa di morti, compresi donne e bambini: motivo per cui i Rosetti vendettero la Campeggia. Nonostante lo sviluppo dell’agricoltura che ci fu in seguito, per molto tempo si continuò a parlare in paese della loro azienda come modello di riferimento e modernità.

(III – continua)


[1] Si veda una più completa ricostruzione dell’intera vicenda, del suo contesto e dei suoi lati oscuri, basata sulle testimonianze ritenute più attendibili in questo stesso blog: http://filese.blogspot.it/2014/02/filo-1944-leccidio-dei-dieci-ostaggi_11.html  [Filo 1944 – L’eccidio dei dieci ostaggi...].
[2] Si trattava di Piovani Virgilio, trovato morto il 26 maggio 1945.