lunedì 25 maggio 2009

Una foto, una storia (4)

Una foto, una storia (4)

Silvano Rossi sulle ginocchia di Uber Bacilieri (1956)

di Agide Vandini




Silvano Rossi, classe 1948, vive da decenni in quel di Fusignano, ma lui e la sua famiglia sono ancora molto conosciuti e ricordati a Filo, dove gestirono, con sapienza e maestria, prima l’uno e poi l’altro dei due forni del paese, fra gli anni ’50 e ’60.

Silvano, ancora molto legato agli amici d’infanzia e di gioventù, mi ha dato con entusiasmo questa sua foto che lo ritrae, bambino, sulle ginocchia del grande campione del pugilato ferrarese Uber Bacilieri.

E’ una foto scattata a metà degli anni ’50, all’interno del Forno Rossi oggi dismesso (quello del Palazzone per intenderci), all’epoca gestito dai gemelli Rossi: Fernando (Piröcia), papà di Silvano, e Fortunato (Tëna).

Uber Bacilieri (1923-2007), campione di pugilato e anche uomo di rara modestia per la quale fu sempre amato da tutti, accettò l’invito dei Rossi, non appena saputo della grande passione del loro piccolo Silvano per il pugilato, un bimbo che si ritagliava sistematicamente le foto dai giornali e le incollava in un quaderno dedicato ai suoi idoli e campioni dell’epoca.

Lo avevano invitato un paio di ferraresi, rappresentanti di prodotti per la panificazione e in contatto col Forno Rossi, che si erano resi conto della grande passione del ragazzo. Il campione venne volentieri a Filo e si presentò con un bel paio di guantoni (che si vedono in bella mostra sul tavolo) per il piccolo Silvano. Veniva fresco fresco dalla riconquista del titolo italiano col piacentino Crosia (titolo già detenuto nel ’52 e nel ’53) e quel giorno raccontò perciò di botte date e prese, di cui sentiva ancora gli effetti.

Era un pugile molto tecnico, il ferrarese, che non aveva però, a quel che si diceva, il pugno del KO.

Apprezzò comunque, quel gigante buono e gentile, la semplicità e l’ospitalità della famiglia Rossi, inclusi i cappelletti e la cucina della Dorina, famosa in paese per le sontuose torte Margherita… A Filo, tornò quindi ancora con entusiasmo, un paio di volte, in quegli stessi anni. In una delle visite in cui Uber Bacilieri fu nuovamente gradito ospite dei Rossi, ricorda la mamma di Silvano, il pugile ferrarese arrivò a mangiarsi, fra lo stupore dei presenti, addirittura un coniglio intero…

In una di quelle occasioni portò con sé, dalle palestre ferraresi, un ring e un po’ di materiale sportivo dismesso, che fu montato nella sala del Palazzone, un prezioso materiale da allenamento che invogliò parecchi ragazzi filesi a provare l’emozione di questo sport duro, ma affascinante ed antico quanto l’uomo.

Campioni di pugilato, pur coi doni di Bacilieri, a Filo non ne nacque alcuno, ma ci si divertì parecchio, e anche Silvano capì ben presto che il pugilato era forse più bello da guardare che da … praticare.

E’ rimasto però, ancora oggi, nella famiglia Rossi, il ricordo dell’onore che il campione fece alla loro casa e alla loro tavola. Di quei bei momenti, la preziosa foto, per la premura dell’amico Silvano, è ancora buona testimone.


Nella foto in alto, al lato sinistro del tavolo, Uber Bacilieri, sulle sue ginocchia, il piccolo Silvano Rossi, al suo fianco i due rappresentanti ferraresi e Dorina Felloni, mamma di Silvano. Al lato destro del tavolo, in primo piano il papà di Silvano Fernando Rossi (Piröcia), la cugina Anna Rossi e suo padre Fortunato (Tëna) gemello di Fernando. Dietro di lui il padre Vincenzo Rossi (Cagnara), nonno di Silvano e, alle spalle di questi, Adalgisa Zambardi (Möra), mamma di Anna e zia di Silvano.


Cliccare sulle immagini per vederle ingrandite.


domenica 17 maggio 2009

Non sempre i miracoli vengono a fagiolo…

Una composizione dialettale di Orazio Pezzi

Non sempre i miracoli avvengono al momento giusto, verrebbe da pensare leggendo queste gustose rime di Orazio Pezzi…

La figura peraltro de’ frê zarcanton (frate cercatore), con le sue ingenuità e le tante umane tentazioni, ispira da secoli poeti e scrittori, menestrelli e stornellatori. Basterebbe citare letterati illustri come il Manzoni e il suo Fra’ Galdino, oppure attori leggendari come il grande Totò e il suo “Monaco di Monza”, per sottolineare come il personaggio e le sue caricature, siano state e siano tuttora di grande popolarità.

Orazio Pezzi, rifacendosi a questa figura, torna alle creazioni dialettali e lo fa col suo stile delicato, con una storia gustosa e divertente in rima baciata, come si conviene del resto alla tradizione emiliano-romagnola della zirudëla, una composizione che un tempo rallegrava, con le sue allusioni satireggianti, convivi e trebbi serali e che, va da sè, non può che essere accolta con entusiasmo in questa virtuale “Irôla de’ fugh” (agide vandini).

Nell’immagine a fianco Macario e Totò in una scena de’ “Il Monaco di Monza”

La virtò miraculoša

di Orazio Pezzi

U j éra una vôlta un pòvar frê

Ch’l’avéva póch e gnit da magnê

Alóra us mitè in žir a zarchê.

Camena, camena, par parec dè,

Strach môrt, cun i pi gonfi e insanguné,

Int la riva d’un fös u s’afarmè.

Senza adèsan tot a un trat u s’indurmintè.

Una žóvna sgnóra ch’la fašéva la bughê

Tŏta parmuróša e senza fê armór la s’avšinè.

«Oh, pureta me, guêrda coma ch’l’è cunzê…

S’ avlì avnì a ca mi, a stëgh a lè,

Cla ca’ bienca cun e’ quérc culór cafè,

Parò a stëgh tŏta sóla da par me

E vo am parì un öm unest e timurê…»

Sé, u j éra tŏt quel che on e’ putéva imažinê:

Una tëvla imbandida che gnench a Nadêl t’la pu truvê,

Ad cióra pu, bon om, u j è un lët par ripušê…

Döp a soquanti ór, stéš int l’érba us distè

Cun la penza pina e sazi coma un re.

U n’è pusèbil un fat de’ gènar, a j ò sól sugnê…

Us gvardè intóran, mo’ ungn éra inson da ringraziê…

«Azidŏli e’ mi Signór stavôlta avì esagerê…»

Alóra una vóš da l’élta tŏt intòran la trunè:

«E’ mi frê zarcanton t’cì tent bon, mo un pô zuchen,

Cun tŏt ch’at l’ò mĕsa daventi, t’an n’é prufitê.

Se tot i fŏs coma te, j arĕb e’ Paradis asicurê,

Mo’ te, t’a n’é pérs la tësta e t’an m’é las êtar da fê

Che fêt un miràcul, par la tu granda unestê…»

La virtù miracolosa

di Orazio Pezzi

C’era una volta un povero frate

Che aveva poco e nulla da mangiare

Sicché si mise in giro a cercare.

Cammina, cammina, per molti giorni,

Stanco morto, coi piedi gonfi e sanguinanti,

Lungo la riva d’un fosso si fermò.

Senza accorgersene tutt’ad un tratto s’addormentò.

Una giovane signora che faceva il bucato

Premurosamente e senza far rumore s’avvicinò.

«Oh, povera me, guarda com’è conciato…

Se volete venite a casa mia, abito lì,

Quella casa bianca col tetto color caffè,

Però abito tutta sola

E voi mi sembrate uomo onesto e timorato…»

Sì, c’era tutto quel che ci si poteva immaginare:

Una tavola imbandita che non si vede neppure a Natale,

Di sopra, poi, buon uomo, c’è un letto per riposare…

Dopo alcune ore, disteso sull’erba, però, si risvegliò

Con la pancia piena e sazio come un re.

Non è possibile una cosa del genere, ho sognato…

Si guardò attorno, ma non c’era nessuno da ringraziare…

«Cribbio, oh mio Signore, stavolta avete esagerato…»

Allora una voce dall’alto tuonò tutt’intorno:

«Frate cercatore sei tanto buono, ma un po’ zuccone,

Pur mettendotela davanti non ne hai approfittato.

Fossero tutti come te, avrebbero il Paradiso assicurato,

Ma tu, non hai perso la testa e io non ho potuto far altro

Che un miracolo, di fronte alla tua grande onestà…»

giovedì 7 maggio 2009

In memoria della nostra Maria

1949-2009: 60 anni fa cadeva Maria Margotti

di Agide Vandini

Era nata alla Chiavica di Legno di Filo di Alfonsine ed abitava con la sua famigliola al Molino di Filo, nella frazione argentana, Maria Margotti, o meglio, la pôvra Maria, come io l’ho sempre sentita ricordare. Cadde durante uno sciopero bracciantile 60 anni fa, il 17 maggio del 1949 e una lapide sul luogo dell’accaduto, a pochi passi dal Ponte Stoppino, lungo la strada che da Argenta porta a Molinella, ne ricorda la vicenda con queste toccanti parole:

Martire del lavoro / Madre di due bambine / compagna di tutti gli oppressi / in lotta per il proprio riscatto / qui cadde / MARIA MARGOTTI /uccisa da una raffica d'odio / durante lo sciopero dei braccianti / il 17 maggio 1949 / veniva da Filo d'Argenta / per difendere / il diritto alla vita / da allora vive per sempre / nel cuore di milioni di donne.

Un colpo sparato da un carabiniere in mezzo alla folla di manifestanti folgorò la 34enne Maria, vedova di guerra di Mario Baldini, venuta fin qui con le compagne in bicicletta, a una ventina di Km da casa sua. Cadde come una foglia morta fra i braccianti che le stavano attorno. Lasciò due figliolette affrante dal dolore ed attoniti tutti i compagni e le compagne che le erano stati a fianco in tante dure battaglie per il lavoro.

Riporto in sintesi come si svolsero i fatti secondo i testimoni dell’epoca.

Nella zona di Molinella era in corso in quel 1949 una dura e lunga controversia in cui i braccianti bolognesi lottavano per ottenere un migliore contratto di lavoro. Era anche il periodo di Scelba ministro degli interni e delle divisioni sindacali seguite alla scissione socialista, messa in atto due anni prima dalla componente saragattiana. Un forte crumiraggio era stato organizzato a sostegno degli agrari, sicché i lavoratori socialcomunisti del luogo pensarono di chiedere la solidarietà ai compagni delle zone limitrofe.

Fu così che il 17 maggio una grande massa di lavoratori di Filo, accorsero a Molinella nell'intento di portare un loro contributo di solidarietà. Giunti al ponte Stoppino, prima di Marmorta, trovarono però carabinieri e polizia a bloccare l’accesso nella zona bolognese. Ne nacquero scontri e tafferugli in cui la polizia aggredì con violenza i manifestanti, e calpestò, con i gipponi, persino le biciclette dei filesi. Ad un certo punto un carabiniere sparò alcuni colpi di mitra ed uno di questi colpì al petto Maria Margotti, che cadde morta all'istante. Le indagini appurarono la responsabilità del carabiniere che al processo venne poi condannato.

La vicenda commosse e colpì l’Italia operaia del dopoguerra per la toccante tragedia umana, ma non solo. Maria divenne un simbolo, una bandiera portata con orgoglio durante le dure lotte del bracciantato che infiammarono le nostre campagne per tutti gli anni ’50. E’ stata molto ricordata negli anni che seguirono ed alcune documentate pubblicazioni commemorative ne tramandano tuttora la memoria. Il coro delle mondine filesi formato dalle compagne di Maria portò, molti anni dopo, il suo nome e ne cantò la vicenda dolorosa ormai divenuta simbolo del sacrificio e del coraggio delle nostre donne nelle lotte per il lavoro. Anche una importante via di Filo d’Argenta e la piazza di Filo di Alfonsine ricordano ai posteri Maria Margotti.

Il clima e i sentimenti di quei giorni lontani si possono ancora cogliere intatti nel palpitante articolo che scrisse per lei la scrittrice Renata Viganò, autrice de’ «L’Agnese va a morire», a un anno dall’evento. Lo ripropongo all’attenzione dei lettori che potranno rendersi conto di quanto questa tragedia toccò profondamente l’animo degli operai in lotta.

E’ uno struggente amarcord che, ne sono certo, anche a 60 anni dai fatti, e ormai calati in un mondo così diverso nei valori e nei rapporti sociali, non può che emozionare e far riflettere ancora una volta, sul caro prezzo pagato in ogni tempo per le conquiste del lavoro, e sui tanti e pesanti tributi in termini di vite umane che, è meglio non dimenticarlo mai, sono stati versati in questo paese per ottenere Libertà, Dignità e Democrazia. Ecco perché, Maria, i filesi ti ricordano e ti ricorderanno con fierezza e con orgoglio. Sempre.

Nelle Valli di Filo nessuno la dimentica

di Renata Viganò (da «L’Unità» del 18 maggio 1950)

C’è qualcuno che mi dice, guardando il ritratto della Maria: «Però ha un'aria triste. Forse se lo sentiva che doveva morire». Un discorso che mi fa rabbia, e rispondo come devo rispondere. Perché doveva sentirsi di morire, la Maria che aveva trentaquattro anni e stava bene di salute? Io la conoscevo, aveva si, un viso bruno e triste, ma era così di temperamento, bruna taciturna e tranquilla, e la tristezza le veniva dalla morte del marito, di cui non si poteva consolare.

Quando io dico: «Vado al mio paese» m’intendo di dire Filo d'Argenta, anzi il Mulino di Filo, un villaggio ai margini della bonifica. Ma non è il mio paese, fino al gennaio del ‘45 non sapevo neanche che esistesse, però ci sono stata da partigiana gli ultimi mesi della Resistenza e poi in prima linea quando ci fu l’offensiva; là fui nell’ora della Liberazione, là ci ho quasi lasciato la pelle, e ho tremato per paura che ci lasciassero la pelle mio marito ed il mio bambino. Ho vissuto i primi giorni belli dopo la fine della guerra, credevo proprio che la guerra fosse finita (e non era vero) e quello è diventato il mio paese.

Mulino di Filo, frazione di Argenta, è il paese di Maria Margotti.

Quando seppi che a Molinella era stata assassinata con una raffica di mitra una donna, una bracciante di Mulino di Filo che si chiamava Maria Margotti - tutte le donne del Mulino le conosco - subito non ho capito chi era; là non ci si chiama con il nome e cognome, tutti hanno un soprannome, quasi un nome di battaglia per la vita, come noi da partigiani per la lotta clandestina; Maria Margotti per me era la Maria del figlio di Battista, e soltanto quando ho visto il suo viso nei giornali, l’ho riconosciuta.

L’ho riconosciuta ricordando la sua casa, una casa povera in un gruppetto di altre, al principio della Fossetta, e ci passavo per andare al villaggio, sulla strada maestra, dove c'è l'osteria, il tabaccaio, la cooperativa di consumo, qualche altra bottega, poche case e nient'altro: il Mulino di Filo è una piccola frazione.

Quando passavo, la Maria mi salutava, ci salutavamo tutte, io e le donne del villaggio; eravamo state insieme sotto le bombe, eravamo state insieme a dormire fra la paglia nelle stalle, ad ascoltare «Pippo» che non era mai stanco di tirare giù bombe e spezzoni; poi eravamo state insieme ai funerali dei caduti, sui camion per i primi comizi sotto il riflesso delle bandiere rosse, sotto il cielo placato e chiaro dopo la liberazione, senza più le lame dei riflettori che segnavano il fronte di Alfonsine, né i bengala che un aereo alto e silenzioso ci mandava negli occhi all'improvviso, né il ronzio dei caccia bombardieri che poi sganciavano senza neppure sapere che cosa volessero colpire.

La Maria mi salutava dalla sua porta, vicina a quella di Renato il calzolaio che mi fece le prime scarpe dopo che avevo camminato per tanto tempo nel fango con un paio di calosce rotte, in faccia a quella della Gigina che mi lavò l'unico vestito, e della Iolanda che curai di una bruciatura. Mi salutava col suo viso quasi infantile sotto i capelli lisci, sempre vestita di nero delle vedove. Ci salutavamo con tutte le donne, quando dalla Val Bruciata venivo al Mulino per la Fossetta.

Quel giorno che andò a Molinella si mise un fazzoletto bianco per il sole. Morì così, col fazzoletto bianco da mondina.

Eppure la più felice è stata lei, che non si è accorta di morire. Con una pallottola che rompe gli organi necessari per vivere non ci si accorge di morire. E' come un urto che fa cadere in terra. Tanto, in terra, ci si butta per istinto quando si sente sparare. Solo che dopo, gli altri si rialzarono, e Maria Margotti rimase lì con la faccia contro l'argine. La più felice è stata lei, che non ha visto, quel carabiniere - e adesso sappiamo il suo nome - non ha visto quel figlio di povera madre che per pochi soldi dei suoi padroni ha sparato a freddo contro una madre come sua madre. Quello doveva essere dall’altra parte, un ragazzo come gli altri, con la bicicletta fracassata e la testa piena di parole amare, a difendere le cose sue, le cose dei poveri, e invece era sulla strada in motocicletta, con una divisa frusta, il numero come un forzato, e dava retta ai padroni spaventati che gli dicevano : «Spara, spara senza pietà».

I compagni dissero, dopo la raffica: «Su alzati, Maria. Andiamo a casa». Lei rimase immobile, distesa, ed essi la rivoltarono, e le videro il sangue, che vuol dire morte; e alla morte non credevano.

Ci credettero dopo, quando fra le loro braccia Maria restò ferma e sorda, e le voci spaurite cominciarono a chiamare forte, inutilmente : «Maria, Maria». E ci credettero più tardi, quando lei fu su una tavola di legno tra i fiori nell'ospedale di Molinella, e le sue bambine, venute da Filo, sbalordite e tremanti, si buttarono su quella tavola e chiamarono: «Mamma, mamma» - e non rispose più nessuno.

Adesso, ed è già passato del tempo, Maria Margotti è morta, è morta come poteva morire qualsiasi altra delle donne del Mulino di Filo, perché sono tutte braccianti e compagne, e allo sciopero tutte aderiscono, è morta come poteva aderire la Terzilla e l’Elsa e la Gigina e la Paola, come poteva morire la Tisa che era vicina a lei quando il carabiniere sparò, e che ha avuto un figlio di diciotto anni fucilato per rappresaglia dai tedeschi insieme ad altri nove, la terribile legge tedesca del «dieci per uno». Tutte potevano morire le donne del Mulino; è stata scelta la Maria Margotti, vedova con due bambine, la Pina e la Berta, vedova del figlio di Battista, ed è diventata un simbolo, una bandiera, la prima bracciante caduta nello sciopero bracciantile della primavera del 1949, un nome, una figura che esce dai nostri piccoli ricordi di compagni per entrare nel rosso elenco dei caduti per l'umanità, per la gioia, il lavoro, il pane dell’umanità.

Al Mulino di Filo, negli ultimi mesi della Resistenza i tedeschi non scantonavano dalla strada maestra. Giù verso la Fossetta, verso il gruppo di case dove abitava Maria Margotti, i tedeschi non venivano. Avevano paura dei partigiani. Non parliamo dei fascisti che erano spariti, fuggiti, dopo quell’ultima impresa di aver dato ai tedeschi i dieci nomi per la rappresaglia. In ogni casa dalla Fossetta in poi, fin nella bonifica allagata, c’erano partigiani, staffette, infermiere, quelle che facevano il pane, quelle che facevano le calze e le maglie. Praticamente la zona era controllata dai partigiani.

E anche la Maria Margotti era fra quelle donne, lavorava per i partigiani, faceva qualche cosa per la Resistenza. Ebbene mi piacerebbe sapere dove era in quei giorni il carabiniere che le ha sparato e l'ha ammazzata puntando verso di lei, verso tutto il popolo inerme la canna del mitra bucato come un flauto. Può darsi che fosse a Salò, o se non a Salò in una succursale della repubblichetta, pronto agli ordini di quel branco di pazzi criminali che erano i suoi padroni, e se non c’era lui, c’era qualcuno di quelli che adesso lo comandano; e c’era poi un altro branco di padroni, allora nascosto in cantina, che sono poi saltati fuori quando non c'era più pericolo a governare in nome di Cristo. Questi ultimi, un tempo, hanno fatto la voce grossa all'estero, si sono vestiti coi colori della Resistenza, si sono fatti proprio grandi di quello che avevano compiuto tutte le piccole Maria Margotti d'Italia, e i fratelli, i figli, i mariti di tutte le Marie Margotti. E adesso dicono a quelli che allora erano o nella repubblica di Salò o nascosti con loro in cantina: «Sparate, sparate, questa gente ormai non ci serve più. Anzi, ci annoia, ed è pericolosa con quel suo domandare lavoro e pane».

Mi piacerebbe anche sapere che cosa ne pensano quei signori ufficiali aviatori americani - e ce ne sono stati tanti - che ebbero l'aereo colpito nel cielo del Mulino di Filo dalla contraerea tedesca della Bastia. Venivano giù col paracadute, e noi, donne, compresa la Maria Margotti, correvamo nella loro direzione con tute e giacche e scarpe; erano ben felici di levarsi le belle divise di cuoio, panno e pelo, e indossare i nostri poveri indumenti contadini, e trovare i partigiani che gli facevano passare la linea e raggiungere le loro formazioni, evitando la prigionia tedesca, la fame di Maathausen ecc. Mi piacerebbe sapere come avrebbero fatto a salvarsi, se non ci fossero state le Marie Margotti e i partigiani, se tutti in Italia fossero stati come la brigata nera di Salò o come i padroni di oggi allora nascosti in cantina. Ma i signori ufficiali anglo-americani fuggiti dai campi di concentramento italiani e alloggiati allora intorno ai nostri fuochi, scaldati nei loro letti, non si ricordano più di niente, mettono tutto in conto gli episodi di guerra, belle storie eroiche da narrare nelle halls di Londra e di Washington; e applaudono al piano Marshall, al piano Erp, al Patto Atlantico, a tutti i piani e patti che oggi i padroni italiani accettano con gratitudine in nome di Cristo per armare mani di italiani e comandarli di sparare, di sparare senza pietà, contro la Maria Margotti del Mulino di Filo, contro i braccianti di Brescia, di Persiceto, di Crevalcore, di Malborghetto, contro tutte le vere donne ed i veri uomini d’Italia.

Nelle tre immagini:

1. Maria Margotti, martire del Lavoro, in una foto giovanile del 1934

2. Le biciclette dei braccianti sfasciate dalle jeeps della celere

3. L’uccisione di Maria Margotti» di Renato Guttuso.