giovedì 30 gennaio 2014

Filo 1944 – Arrivano le Brigate Nere...



Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (3)
di Agide Vandini



Dopo l’armistizio il fronte di guerra rimase fermo per parecchi mesi lungo la cosiddetta Linea Gustav, linea che univa Cassino a Termoli. Gli Alleati tennero quelle posizioni dall’ottobre del ‘43 al maggio del ‘44[1].
Gli echi della guerra e degli spari contrapposti sono dunque ancora assai lontani nei mesi in cui la violenza repubblichina ferrarese prende di mira gli antifascisti filesi Vandini Guerriero, Matulli Giovanni e Mario Babini, da tempo oppositori attivi e irriducibili al regime.
Nella notte fra il 28 e il 29 Febbraio 1944 giunge dal ferrarese fino al centro di Filo una squadra di Brigate Nere. E’ a bordo di una camionetta che si ferma lungo la Provinciale (oggi via 8 settembre 1944) di fronte all’abitazione di Ivo Vandini, mio nonno, una povera dimora al piano terra di un vecchio condominio abbattuto nel dopoguerra; quel terreno è oggi incorporate nel giardino Barabani che fiancheggia la Cà de’ Pòpul.


Centro di Filo nell’anteguerra. Al lato sinistro: la parte terminale della Cà Longa, la Cà d S-ciflèñ, il condominio Barabani (al piano più basso la residenza di Ivo Vandini), Le vecchie scuole (oggi Casa Comunale di Filo d’Argenta), la cà dla Vizinzóna. Al lato destro si distinguono: l’osteria gestita al tempo di guerra dalla Bianca e dal marito Enrico Nuvoli (insegna «Vini e Liquori»), un caseggiato abbattuto nel dopoguerra per i danni subiti dai bombardamenti, la casa e bottega Barbieri (col balcone), la Cà d’Nicola il maniscalco e più oltre, in corrispondenza della Ca’ dla Vizinzona, la vecchia caserma dei Carabinieri. Per l’identità delle persone fotografate nella cartolina si veda in questo stesso blog, anno 2010: «C’est égal, scherzi del dialetto» :  http://filese.blogspot.it/2010/02/cest-egal-scherzi-del-dialetto.html

Guerriero Vandini (Ghéo), sua moglie Elvira Toschi, e la figlioletta Carla, ai piedi della rampa che scende dalla strada, intorno al 1940. Sullo sfondo, a sinistra le vecchie scuole, a destra la vecchia caserma.

Si sapranno in seguito, dall’autista del camion, un informatore della Resistenza, i dodici nomi, cognomi e provenienze di questi individui in missione punitiva, dodici sconosciuti portatori di morte, che, scesa la rampa, circondano la casa e bussano con prepotenza al portone. Si affaccia nonna Agida, 53 anni, da sempre preoccupata per i suoi figli, uno dei quali, Sereno, prigioniero in Germania, un altro, Guerriero, sempre in pericolo, perseguitato politico dall’età di diciott’anni, dorme con la moglie Elvira e la figlioletta Carla, a pochi passi da lei, in una stanzetta accessibile solo dall’esterno.
«Abita qui Vandini Guerriero?...» Le parole risuonano minacciose nella notte, parole che il capoccia fascista pronuncia mentre sbircia dalla porta assieme ad un altro squadrista. Entrambi hanno il fazzoletto da collo tirato sopra la punta del naso, sì che gli occhi assassini sfavillano in tutta la loro esaltazione e follia.


 La casa ove all’epoca abitava al piano terra la famiglia di Ivo Vandini è in primo piano nella foto (già proposta in questo blog) scattata dagli inglesi il 14 aprile 1945, giorno della Liberazione di Filo. E’ quella più a destra che precede la Ca’ d’S-cifleñ, più alta e col tetto a quattro acque.

A fianco, per una migliore comprensione del testo, una piantina sommaria del piano terra dell’edificio ricostruita grazie alle indicazioni  di mia sorella, Carla Vandini.



   «Forse non c’è, dorme in una stanza dietro casa. Cosa volete, perché lo cercate…?» E poi subito, senza attendere risposta Agida si rivolge al marito: «Và a vdé te, Ivo..»; nel frattempo cerca di intrattenere i due forestieri che crede soli. Segue con la coda dell’occhio il marito che ha le mani che tremano e non riesce, dall’interno, ad aprire il catenaccio esterno, quello che chiude le due metà inferiori della porta che dà accesso al cortile posteriore e conduce alla cameretta della famigliola di Guerriero.
«Lasa stê ch’a végn me…» si spazientisce la nonna e poi si precipita, apre con agilità la porta. Non sa che la casa è circondata di anime nere assetate di sangue. Scende lo scalino per correre dal figlio, pensa di urlargli “Scappa Guerriero, scappa…” Ma quelle parole non riescono ad uscirle dalla bocca, subito sopraffatta dalla scarica di mitra di uno dei brigatisti appostato nel buio e scaraventata a terra dalle tremende pallottole esplodenti dum-dum che la colpiscono al basso ventre. Agida crolla al suolo in un bagno di sangue.
Neppure il tempo per questi sgherri di accorgersi che si tratta di una donna anziana, di capire che non è stato centrato un «rosso» da eliminare, di constatare che il bersaglio, ahimè, è una povera madre protesa alla salvezza del figlio. Subito gli assassini in forze si dirigono alla stanzetta occupata dalla famigliola, proprio mentre Ghéo, risvegliato dai colpi, sta uscendo dalla porta della sua camera da letto.
E’ ancora pieno inverno, c’è parecchia neve per terra. Guerriero è in camicia da notte, a piedi scalzi, ma viene fatto salire, a spintoni, così com’è sul cassone del camion. Carla di nove anni e la mamma Elvira rimangono chiuse nella loro camera: da lì possono udire le urla e il tramestio all’esterno, ma non possono uscire, allarmare, chiamare soccorso, né farsi aiutare da qualcuno. Carla ne rimane traumatizzata. Elvira è disperata, poi prende il coraggio a due mani e si rivolge alla figlioletta: «Che ci ammazzino pure tutte e due…», dà uno spintone alla porta e si ritrova nel cortile insanguinato proprio mentre la camionetta sta portando via Guerriero.
Sul cassone di quel mezzo, ormai in strada, Ghéo comincia a battere i denti, infreddolito; ode sempre più lontane, ma insistenti, le grida del padre.
Partito il camion degli squadristi il nonno, rivolgendosi a destra e a manca, chiama soccorso. Va sotto la finestra del dottor Geminiani che inizialmente, terrorizzato e timoroso di conseguenze personali, non ne vuol sapere[2]. Elvira riesce finalmente a fermare una macchina che trasporti la nonna ad Argenta, all’ospedale, quantunque si capisca che non c’è più nulla da fare. Agida, dopo un’agonia terribile, in preda alla sete e a dolori tremendi al ventre, muore due giorni dopo, il 2 marzo 1944.
Nella notte d’inverno il camion delle anime nere prende la direzione della Bastia e fa sosta alla S-ciapèta. Lì, nel borghetto, la squadraccia preleva senza resistenza alcuna Giovanni Matulli, compagno di Ghéo nelle prigioni fasciste quattordici anni prima; l’amico Gianêl è impaurito, appena un po’ più vestito di lui.
Oltre Case Selvatiche, un centinaio di metri oltre la curva ad «esse» in salita, Ghéo e Gianêl  vengono scaraventati giù dalla piccola scarpata, di fronte alla Civettara. Mentre la camionetta staziona sullo stradello, i due antifascisti vengono sollecitati con urla e grida a scavarsi la buca alla svelta, quella della loro tomba.
Gianêl ormai non ce la fa più a reagire, Ghéo trova, chissà come, la forza e la rabbia per chiedere al capo drappello, tale Felloni di Massa Fiscaglia[3]: «Perché ci sparate, siamo innocenti, che cosa abbiamo fatto di male?» Questi lo apostrofa in malo modo e gli si avventa contro: «Stai zitto tu che il 25 luglio eri sul camion con quelli che bruciavano le divise delle Camicie nere…»
Ghéo sa che quanto dice il caposquadra corrisponde al vero. E’ vero che lui l’estate precedente, in licenza agricola proprio nei giorni della destituzione del Duce, era andato, assieme ad altri, nelle case dei fascisti a farsi consegnare le divise color di morte per farne un fumante falò. Gli appare chiaro che qualche informatore deve aver segnalato la cosa ai comandi repubblichini e la circostanza, considerata la sua opposizione al regime di vecchia data, lo ha fatto salire, agli occhi dei caporioni fascisti, ai primi posti della lista nera, uno di quelli, cioè, da eliminare alla svelta per far star buoni e quieti tutti i «rossi» di questo dannato paesino.
Ghéo comunque non nega, anzi: «E con questo? Io non ho mica commesso alcun reato! Il Fascismo, il regime, il 25 Luglio è caduto e io ne ho semplicemente bruciato i simboli….» Non ha alcun piano Guerriero, lui che pure è alla testa di un Gruppo di Azione Partigiana che si occupa di resistenza passiva[4] in paese: capisce che non c’è alcuna concreta possibilità di fuga. La discussione gli fa però prender tempo, guadagnare istanti preziosi, fino a che i fari di un’automobile proveniente da Argenta sopraggiungono nella notte; il capo brigatista si stacca allora dal plotone di esecuzione ormai pronto e va a conferire con chi porta notizie, forse latore di nuovi ordini. Il breve colloquio col conducente della vettura avviene lontano dalle orecchie delle altre camicie nere e da quelle degli ostaggi che attendono, ormai impotenti, l’epilogo; sono pochi attimi in cui, al Felloni, viene evidentemente riferito che la donna colpita è morente, che non ha quindi alcuna possibilità di scampo.
Il capoccia a quel punto urla ai prigionieri l’ennesimo comando: «Salite sulla strada e andatevene a casa a piedi!...» I due prigionieri risalgono, passo dopo passo, la ripida scarpata mentre gli squadristi urlano: «… E dite in paese che noi siamo socialisti, che vogliamo il bene degli operai…». Ghéo e Gianêl sono convinti di udire da un momento all’altro alle loro spalle il crepitio della scarica più oltraggiosa, la mitragliata alla schiena; quasi con incredulità si ritrovano invece, scalzi e semisvestiti, sulla ghiaia appuntita della strada, allora corrono fino alla curva; là, oltre la discesa ad «esse», lascito di antiche chiaviche lì interrate, cominciano a credere che sia stata concessa loro la vita, senza però capirne la ragione, senza nemmeno immaginarsi un perché.
Il grave motivo dell’improvviso «pentimento» squadrista, Ghéo lo capisce alle soglie di casa, nel riabbracciare la famiglia in preda alla disperazione; non c’è più il sangue materno versato nel cortile, ripulito in tutta fretta dall’Elvira, ma intuisce il sacrificio ormai certo dell’Agida di cui fin lì ha ignorato la sorte; capisce che quel gesto della madre, offrendogli la propria, gli ha ridato la vita una seconda volta.
Le pene per Guerriero non finiscono qui. L’Agida cessa, come si è detto, la sua agonia all’ospedale di Argenta due giorni dopo, davanti ai familiari affranti. Il peso delle sofferenze della madre in fin di vita per salvare la sua, e la perdita che ne consegue, è terribile. Gli rimane scolpita nella memoria, fra le tante, la frase nobile e toccante pronunciata dallo zio Amilcare, in sua presenza. Lui, il fratello maggiore di Agida, da poco sfollato a Filo, tornato da Bologna con la famiglia e col figlio (futuro Prof. Giancarlo Cavalli), al capezzale soggiunge con voce rotta dall’emozione: «Meglio mia sorella in questo letto di morte, piuttosto che tu, suo figlio, fra gli assassini che hanno sparato a tradimento…»
Il pensiero di Guerriero corre ai fratelli minori, al forte Raffaele, a Sereno che è prigioniero in Germania e che non riceverà più alcuna lettera dalla madre. Nessuno dei fratelli gli rivolgerà mai direttamente colpe né responsabilità per l’accaduto, ma il triste tormento lo accompagnerà per tutta la vita. Sarà sempre difficile e doloroso per lui toccare quel tasto[5].
Nel frattempo il 4 marzo 1944, cinque giorni dopo la vergognosa impresa, appena due giorni dopo la morte dell’Agida, il Felloni riuscì a scrivere, in un rapporto per il Capo della Provincia di Ferrara, un cumulo di pasticciate sciocchezze e di ridicole autogiustificazioni. Non vi si accenna neppure a Gianêl, l’altro ostaggio catturato; la nonna Agida compare ad un tempo sia davanti che sul retro dell’abitazione, vi si parla di “massa confusa” uscita dalla casa e fra essa anche il corpo di Guerriero materializzatosi dal nulla; infine vi si dichiara la menzogna di una «ferita all’inguine», anziché riferire della già avvenuta morte della donna:

Chiamato di rinforzo da elementi della Polizia Repubblicana Federale, mi sono portato nella zona di Argenta con quaranta squadristi, la sera del 28 u.s. In località Filo di Argenta, ricevemmo l’ordine di prelevare alcuni elementi comunisti schedati con l’avvertimento che gli individui erano pericolosi e che con molta probabilità avrebbero fatto resistenza. Impartii pertanto le opportune disposizioni ai miei Squadristi e nell’abitazione di tale Vandini, già confinato ed elemento pericoloso, prima di bussare alla porta, feci circondare la casa con l’ordine che ad eventuale tentativo di fuga e all’intimazione di fermarsi e l’ordine non venisse eseguito, di sparare.
Dopo aver ripetutamente bussato alla porta del Vandini, venne una donna a chiedermi chi volevo e il perché e nel mentre si scambiavano queste parole a porta aperta e con la luce accesa, dalla porta di dietro della casa, una massa confusa e al buio, tentava di fuggire. All’intimazione degli squadristi Malfaccini e Colombani di fermarsi, queste ombre prendevano invece la corsa e fu solo allora che i precitati Squadristi fecero uso delle armi. A terra trovammo una donna ed un uomo, entrambi semi svestiti e solo la donna ferita. L’uomo era infatti illeso ed era il Vandini ricercato. Questi dopo l’interrogatorio venne rilasciato e la donna, fatta visitare immediatamente, presentava una ferita all’inguine.
Nessun altro incidente per tutta la serata[6].

I fascisti insomma, in quella situazione disonorevole, si coprono a vicenda, del resto si sentono in diritto di compiere ogni sopruso e non accettano responsabilità. Nessuno è stato, nessun colpevole… Anzi. La loro azione è stata meritoria, perbacco… E l’Agida morta?… «Sarete stati voi…», qualcuno arriva a dire a nonno Ivo. Non danno neppure il permesso di seppellirla, la nonna, e il funerale avviene per questo una settimana dopo, quasi alla chetichella, in una tomba rimasta a lungo anonima e intestata a mia madre Elvira[7].
Sulla vicenda riporto fra le note alcuni stralci del resoconto di Viviano Toti che intervistò a lungo mio padre e di cui ho omesso i particolari imprecisi[8].
Giorni tristi, giorni di pianto, giorni con la nonna nel feretro e la gente del paese che non ha neppure più il coraggio di scendere quei pochi metri di rampa, tanto è forte il timore d’essere annoverati fra gli «amici del sovversivo». Chi è molto vicino alla famiglia, all’amico Ghéo, e non ha paura di esporsi, è Amato Rossi, uno dei sei filesi che di lì a poche settimane deciderà di salire sulle colline romagnole per combattere la sua battaglia. Sarà comandante di una Compagnia nella «Bianconcini», la 36° Brigata Garibaldi.
Altri giovani filesi, donne e uomini, combatteranno con coraggio, nel nome di Agida Cavalli, chi come staffetta, chi in armi in una formazione inquadrata nella 35ma bis, brigata partigiana di pianura organizzata militarmente nell’autunno, diversi mesi più tardi; ma prima ci sarà ancora, a seminare il terrore in paese, l’uccisione a tradimento di Mario Babini (il 6 maggio) - e la 35ma bis porterà il suo nome - nonché la fucilazione dei dieci ostaggi, per rappresaglia, l’8 settembre del 1944. Anche su questi altri due fatti tragici importantissimi mi soffermerò opportunamente.
Scrisse nel dopoguerra Renata Viganò a conclusione del suo emozionante racconto della morte dell’Agida: «[…] Nel febbraio 1944, quassù a nord, era troppo presto ancora per ammazzare le donne. Più avanti non ci fu ritegno, accadde anche la strage di Marzabotto. Ma quando fu colpita l'Agida, una donna uccisa dai fascisti non portava bene né ai tedeschi che dovevano star lì in paese chi sa quanto, né alla repubblichina di Salò che tentava di rendersi simpatica. Per questo fu salvato Guerriero, dalla sua mamma che andò sola di notte contro i colpi sbagliati anche per coloro che li spararono. Tanto è vero che poi si dettero la colpa l'un l'altro, i diversi comandi, e il permesso dell'inumazione fu dato sei giorni dopo.[…]»[9]

«Noi Donne», 27 Aprile 1952


A fianco un articolo rievocativo («L’Unità», domenica 14 marzo 1965, p. 4 - Em. Rom.) che annuncia la cerimonia tenutasi a Filo nel 21° della morte dell’Agida, nel quadro delle celebrazioni del XX° della Resistenza. Sotto, una foto scattata nell’occasione. Oratore, l’allora sindaco Antonio dalle Vacche. I primi due da sinistra, sul palco, sono Bruno Natali ed Ansalda Siroli, quest’ultima in rappresentanza dell’UDI. Alla destra dell’oratore, una rappresentanza della famiglia: Raffaele (Raflòñ), Agide e Guerriero (Ghéo) Vandini con a fianco la moglie Elvira Toschi.





 
Ivo Vandini (1889-1969), ritratto a fine anni ‘30 nel cortile posteriore di casa a pochi passi dal punto in cui nel 1944 l’Agida cadrà ferita a morte. Dietro la recinzione, l’ampio «campicello», ora Piazza «Agida Cavalli». Sullo sfondo, a sinistra, casa Tamba, a destra le vecchie scuole, ora Casa Comunale.

Agida Cavalli
(1891-1944)



Filo. La piazza dedicata ad Agida Cavalli e il Monumento ai Caduti. In basso a sinistra la stele che ne ricorda il gesto (agosto 2013)

La stele
Articolo rievocativo  di Agide Vandini
dedicato ad Agida Cavalli
«Nuova Ferrara», il 24 aprile 2006

UNA MADRE EROICA – COSÌ MORÌ LA BRACCIANTE AGIDA CAVALLI[10]
di Rosina Babini[11],«L’Unità» nei primi anni ’50,  trascrizione di Agide Vandini

Era una notte di marzo ’44.
Arrivò in paese a Filo un camion; poteva essere la mezzanotte passata. Smontano una decina di militi brigatisti neri, che accerchiano la casa del Partigiano Guerriero Vandini. Bussano alla porta della casa che guarda sulla strada provinciale e la Madre si affaccia a chiedere chi è. Cercano Guerriero Vandini! La Madre risponde che Guerriero è assente, sperano di poterlo salvare.
Si ritira[12]  portandosi verso una piccola uscita posteriore, sul cortile, da dove avrebbe potuto avvertire il figlio del pericolo. Non aveva finito di aprire la porta che una raffica di mitra la raggiungeva. Al rumore della scarica si affaccia il figlio, chiedendo sbigottito cosa era successo. I brigatisti neri vendendolo così in camicia appena sceso dal letto lo afferrano e lo portano via senza nemmeno permettergli di volgere uno sguardo alla Madre, caduta in un lago di sangue.
Il marito chiede soccorso alla nuora che dista due passi e alla famiglia accanto, ma a nessuno è permesso di avvicinarsi. Il marito abbandona la Madre[13]  disperato in cerca di un medico che la possa soccorrere. Ritorna col medico[14]  il quale dichiara necessario il ricovero immediato in ospedale, date le condizioni gravissime della Madre.
A questa dichiarazione il capobanda dei brigatisti neri chiede al medico di non addossargli troppa responsabilità per l’accaduto. Giunta all’ospedale, la Madre viene sottoposta ad operazione nel tentativo di salvarla, purtroppo inutile.
La Madre agonizza per tre giorni e a coloro che la vanno a visitare in ospedale, ella, con quasi un sorriso sulle labbra, dice: «Muoio contenta perché ho tentato di salvare la vita di mio figlio e il mio sacrificio è valso a salvarlo».
La madre morta fu tenuta per otto giorni nella camera mortuaria dell’ospedale perché le autorità fasciste non davano il permesso di sepoltura e di trasporto della salma al paese.
L’omaggio del popolo riuscì a portare una folla enorme a visitare la salma della Madre; il volto della madre sorrideva, oltre la morte, quasi a significare agli assassini che Lei non era morta, perché viveva nel cuore di tutte le madri italiane alle quali indicava come si muore per la causa del Popolo.
Così è morta la bracciante AGIDA CAVALLI, eroina della Resistenza.
Il figlio, difatti, fu rilasciato, dopo aver subito violenze e minaccia di fucilazione.
        



[2] La richiesta di soccorso al Dottor Geminiani è ben documentata in un articolo apparso nell’immediato dopoguerra su L’Unità, a firma di Rosina Natali, un articolo di grande sensibilità che ho integralmente trascritto e che riporto a fine testo, con alcune note esplicative.
[3] Egidio Checcoli, in Filo della memoria, Prato, Ed. Consumatori, 2002, pp. 105-107 riporta che la «squadra d’azione» apparteneva alla Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale (MVSN), più conosciuta come Tupìn. Francesco Felloni, da Dogato (FE) era il comandante della squadraccia e ricopriva l’incarico di Ispettore della VII° zona della MVSN. In una lista trascritta da quella che mia madre seppellì in un barattolo e che mio padre conservò sempre, posseggo ancora i nomi dei dodici squadristi. Per rispetto dei discendenti riporto solo le iniziali dei dieci nominativi non citati da Felloni: S.R., T.U., M.A., M.G., S. (nome mancante, ma è possibile che si tratti del Malfaccini indicato dal Felloni), R.G., R.P. (detto Piróñ), R.P. (detto Pirìñ), C.E., C.A. (tutti di Migliarino) cui va aggiunto, oltre al Felloni, Colombani Quirico di Dogato.  Tutti costoro subirono un processo nel dopoguerra, e beneficiarono dell’amnistia intervenuta.
[4] «A Filo intanto si forma la prima squadra GAP diretta da Guerriero Vandini. Il primo obiettivo dei ribelli è di ostacolare il passaggio delle colonne della Wehrmacht e di coordinare la vita civile assicurando che i depositi di grano non finiscano in Germania. Iniziano le operazioni di disarmo dei fascisti isolati e riprendono a funzionare i «collettivi di lavoro» che impediscono quasi ovunque ai repubblichini di disporre a loro discrezione della mano d'opera» (V.Toti, Antifascismo e Resistenza nell'Argentano, Tesi di Laurea, p. 104).
[5] A Sereno, da quel giorno prese a scrivere (e lo fece per un anno e mezzo) mia madre Elvira, fingendo una grave malattia dell’Agida. Mio padre volle evitare al fratello minore il dolore della notizia della morte tragica della madre. Pensò che nell’incertezza della sorte di tutti loro, fosse meglio attendere la fine del conflitto, nella speranza che tutti si fossero salvati. Così fu infatti fortunatamente, ma il problema si pose al ritorno di Sereno dalla Germania, nell’autunno del 1945. Ghéo fu quel giorno avvertito da un compaesano dell’arrivo imminente del fratello: stava tornando a Filo, a piedi, dalla stazione di San Biagio. Mio padre s’incamminò e gli andò incontro. Lo rivide stanco e festoso, ma dovette raccontargli la triste sorte della madre e la dura esperienza vissuta dalla famiglia. Fu un ritorno mesto per Sereno alla propria casa, capì, si rese conto e alla lunga si fece una ragione dell’accaduto, ma non volle parlarne mai più. Raffaele, detto Rafléñ in famiglia e Raflòñ in paese, ebbe a sua volta una brutta avventura di ritorno dal cimitero, poco dopo il fatto tragico.  Era andato a visitare la tomba materna da solo (era vietato andarci in più di due persone per volta) vestito di giacca e cravatta. Fu fermato all’incrocio da alcuni esaltati all’altezza dell’Osteria di Bénàs, quella frequentata dai fascisti locali, e invitato a togliersi la cravatta rossa. Al suo rifiuto fu schiaffeggiato e malmenato finché non poté divincolarsi e tornare alla sua abitazione nella Ca’ Longa (Carla Vandini).
[6] E.Checcoli, op.cit., pp.106-107. Guerriero comunque non subì mai alcuna condanna al confino. Per la sentenza già citata del 29.4.1931 dovette scontare 18 mesi di prigione e 3 anni di vigilanza speciale, quest’ultima in parte condonata dopo 7-8 mesi. Ne fu prosciolto il 30 gennaio 1933. Tutto il contenuto del suo casellario giudiziario è stata pubblicato una decina d’anni fa in appendice al prezioso testo di Egidio Checcoli (pp. 335-350). Vi si documenta (p. 340) come Guerriero 19enne, nell’ottobre del ‘31 e con ancora sei mesi di prigione da scontare, abbia rifiutato di associarsi alla domanda di grazia sovrana inoltrata dai familiari a sua insaputa. Avrebbe dovuto - così mi raccontò - ammettere un reato che non intendeva riconoscere. Soprattutto non se la sarebbe più sentita, poi, di guardare in faccia i suoi compagni. Questo gli causò, nella prigione di Arezzo, botte e spintoni, oltre a tre giorni di pane e acqua.
[7] […]Agida Cavalli, una donna di Filo d'Argenta che fu massacrata a colpi d'arma da fuoco sulla porta di casa nel 1944, mentre tentava di prender tempo per consentire al figlio partigiano di fuggire. Una morte assurda, feroce, che richiese tempo (Agida fu trasportata in ospedale con una macchina che toccò alla nuora Elvira andare a cercare). Nel rapporto di polizia che racconta i fatti si parla di una ferita ad una gamba, mentre i fascisti le spararono al ventre, senza ragione, e lasciò la casa inondata di sangue, un sangue che Elvira cercò di nascondere alla figlioletta di pochi anni nascondendosela dietro le gonne, e che ripulì in fretta, nella notte stessa, perché il marito - se mai fosse riuscito a tornare - non capisse in quel modo terribile che la madre era vicina alla morte. […] (D.Tromboni - L.Zagagnoni, Con animo di donna, Ferrara, Cartografica Artigiana, 1998, pp. 110-111)
[8] «[...]A Filo Vandini è attivamente ricercato e ai primi di febbraio su segnalazione di una spia la G.N.R. riesce a sorprenderlo di notte durante una visita alla famiglia. La madre Agida Cavalli nel tentativo di salvare il figlio viene colpita da una raffica di mitra. Vandini è arrestato quasi subito […]. Mentre viene caricato sul camion della G.N.R. ode le urla del padre che cerca invano di soccorrere la moglie morente. […] viene portato via assieme a Matulli […]. Durante il breve percorso che da Filo porta a ponte Bastia i fascisti manifestano più volte l'intenzione di passarli per le armi per via dei precedenti di Vandini conosciuto come uno dei più tenaci organizzatori antifascisti della zona. “I fascisti sapevano del mio lavoro di propaganda contro la guerra che svolgevo in mezzo ai giovani - racconta Vandini - erano molto documentati sul mio passato e sul mio presente di militante comunista. Quando arrivammo sul ponte Bastia [alla Civettara (n.d.A)] ci fecero scendere e con nostra meraviglia ci ordinarono di sparire all'istante e di dire in paese che erano socialisti e che volevano bene agli operai. Io e Matulli ci aspettavamo una raffica di mitra da un momento all'altro, ma forse ritennero sufficiente per quella notte l'aver assassinato mia madre”. I funerali di Agida Cavalli furono celebrati otto giorni dopo il delitto in quanto i fascisti pretendevano dalla famiglia una dichiarazione che accusasse i comunisti...»V.Toti, op.cit., pp. 110-111.
[9] r.viganò, «Una madre della Resistenza», Noi Donne, 27 aprile 1952 (si veda l’immagine che segue). L’intero e toccante articolo di Renata Viganò è stato da me ripubblicato e corredato di note integrative in A.Vandini, Sotto l’ombra d’un bel fior, Faenza, Edit, 2005, pp. 67-68.
[10] Nel testo, come in altre pubblicazioni del dopoguerra, Agida è indicata erroneamente col nome di “Agide”. Anche Dario Fo la citò nella «Battaglia dei Fiocinini» col nome distorto. La nonna risulta tuttavia regolarmente registrata come “Agida” nel registro dei battesimi della parrocchia e all’anagrafe comunale. «Agida», del resto, è sempre stata chiamata in paese da tutti; tanti  ricorderanno che mio padre, di nome Guerriero, per distinguerlo da altri con lo stesso nome (Banzi, Soffiatti ecc.) veniva sempre indicato come Gveriéro dl’Agida. Purtroppo «Agide» (nome che pur risale a quattro re di Sparta, uno dei quali protagonista della tragedia dell’Alfieri che ispirò parecchi romagnoli, fra i quali il mio bisnonno), fuori dal contesto locale è nome maschile pressoché ignoto, tanto da ritenerlo, chissà poi perché, nome femminile. Io, che porto quel nome da un pezzo, quanto ad equivoci, ne potrei raccontare delle belle. Da qui provengono le distorsioni anche se io, francamente, non ho mai conosciuto al mondo una donna di nome «Agide»…
[11] Si tratta della filese Rosina Natali, la cui famiglia era dirimpettaia dei Vandini, vedova di Mario Babini di cui si ricorderà il sacrificio nel prossimo articolo dedicato al martire.
[12] Nel racconto si omette, per brevità, una parte della discussione fra Agida e il capo degli squadristi che avviene sul portone di casa. La nonna tenta forse di dire in un primo momento che il figlio è assente, poi, di fronte alla insistenza del Felloni che si mostra certo della presenza in casa di Guerriero, cerca di mandare, come si è narrato, il marito dal figlio e davanti all’incespicare dell’uomo che non riesce più ad aprire la porta, decide di accorrere direttamente.
[13] Ovviamente si tratta della moglie, qui sempre indicata come «Madre».
[14] Si tratta del Dott. Alfredo Geminiani, persona forse poco incline a mettersi contro le brigate nere, inclusa peraltro in un elenco di «squadristi filesi» pubblicato sul Corriere Padano cinque anni prima (4-3-1939, Atti della Federazione dei Fasci - Anno 1939). Ricordo bene mio nonno Ivo narrare ancora con rabbia, nel dopoguerra, i momenti di disperazione in cui egli non riusciva, nonostante gli urli, a convincere il medico affacciatosi alla finestra ad accorrere. Raccontava che ad un certo punto gli gridò che, se non fosse sceso subito, a forza di urla avrebbe fatto tremare tutti i vetri della sua casa.