sabato 20 maggio 2017

La storia di Buarôl, da «eroe» a «brigante»

Apollinare Cassani, il barcaiolo filese che fiancheggiò l’«Umèt».
di Beniamino Carlotti e Agide Vandini


E’ passato quasi un secolo e mezzo dal giorno della fine tragica e controversa dell’Umèt, al secolo Luigi Camerini, ultimo fra i maggiori briganti della Romagna ottocentesca.
Chi fu questo bandito, dove operò, quante e quali furono le sue spettacolari imprese, e infine come morì, lo racconta il mio testo «I briganti della palude», la cui pubblicazione risale ormai ad oltre vent’anni fa.
Le note che seguono, condivise con Beniamino Carlotti, sono invece dedicate al barcaiolo filese del bandito ed alla mesta fine di un uomo che pur si era distinto, qualche anno prima, fra gli eroi della Patria, nella Terza Guerra d’Indipendenza del 1866.
Cassani Apollinare detto «Buarôl», nasce a Filo l’11 marzo 1838 e qui vive fino al giorno dell’arresto. I registri della Parrocchia costituiscono una buona fonte di notizie per seguirne le vicende ed intravederne la personalità.
Nel 1853, il ragazzo, quindicenne, orfano di entrambi i genitori, celibe e bracciante, abita con le sorelle Serafina e Maria, a Molino di Filo, in Via Fossetta, 232. Tredici anni dopo, nel 1866, 28enne, al tempo in cui partecipa come volontario alla III Guerra d’Indipendenza, fa parte del nucleo familiare del cognato Negrini Federico abitante in proprietà Capucci, lungo la Via Comunale (oggi Via 8 settembre 1944). A fianco del nome di Apollinare, detto «Buvarolo», «bracciante», il prete annota: «vagabondo».
1873 – L’ultimo nascondiglio e il barcaiolo filese dell’Umèt

Lavezzola 9 - Ci scrivono: Alle ore 12 pom. dell'8 corrente in S. Bernardino (Lugo) veniva ucciso il famigerato Camerini Luigi dal possidente Caranti Giovanni detto Gig, e nello stesso tempo ferito un collega del Camerini, chiamato Taglioni Angelo, birocciaio di Conselice, da un figlio del Caranti stesso.
Pochi giorni prima il sempre vigile brigadiere Porcu-Oppo, comandante la stazione dei Reali Carabinieri di Lavezzola, venuto a cognizione che il Camerini si trovava a Bando nell'Argentano, vi si recò di notte coi suoi ed altri Carabinieri, e vi praticò un'estesa perquisizione in molte case, perfino nelle stesse valli di Comacchio per cui poté arrestare certo Cassani Apollinare detto Buarolo, che spesso conduceva in barca il Camerini da un posto all'altro nelle valli. In seguito a queste ricerche, e per la mancanza del barcaiolo, il Camerini dovette abbandonare quei luoghi, in cui sarebbe stato sicuro e recarsi ove poi fu ucciso […].
(da «Il Ravennate», sabato 11 gennaio 1873, n.5)
(A.Vandini, I briganti della palude, Ravenna, Longo, 1996, pp. 231-232)




Battesimo a Filo di Cassani Apollinare detto Buarôl. Trascrizione: Apollinaris Dominicus Cassani. Die 12 Martii 1838. Apollinaris Dominicus natus heri hora 6 Pomerid. ex Joanne Antonio fil.q.m Dominici Cassani, et ex Dominica Maria fil.q.m Dominici Mariae Pozzetti L.C. [Legitimis Coniugibus]. Huius Parociae a me infrascripto baptizatus fuit hodie ut sup.a hora 4 pomerid. cui impositum fuit nomen ut. sup.a Apollinare Dominico. Patrini fuerunt Paolus Geminiani, et Apollonia Cortesi omnes ex hac cura. Ita est. Emidius Parochus Cobianchi. Traduzione:  Apollinare Domenico Cassani. Il giorno 12 Marzo 1838. Apollinare Domenico nato ieri all’ora 6a pomeridiana da Giovanni Antonio del fu Domenico Cassani, e da Domenica Maria del fu Domenico Maria Pozzetti Legittimi Coniugi. Fu battezzato da me sottoscritto nella parrocchia oggi come sopra all’ora 4a pomerid. e gli fu imposto come sopra il nome di Apollinare Dominico. Padrini furono Paolo Geminiani, e Apollonia Cortesi tutti di questa parrocchia. Così sia. Emidio Parroco Cobianchi.
L’anno successivo, nel giugno del ‘67 egli sposa Girolama Bacchini, nativa di Longastrino. Celebrante d’eccezione il sacerdote filese Don Adriano Farabulini.  Dalla coppia nasce anche una figlia, Provvidenza, che tuttavia muore infante, all’età di tre mesi, nel settembre del ’69. Apollinare in quell’anno è tornato a vivere con la moglie al Molino. Poco dopo perde anche Girolama.
Nel 1870, 32enne vedovo e casante, egli è solo; abita in Via Comunale 73, a poca distanza dal «Vallone», alla Paiazza in proprietà Mainardi. Nella nostra Parrocchia il «Boarolo» viene ancora censito, per l’ultima volta nel 1873, anno dell’arresto. Il prete, alla colonna della professione, scrive: «girovago».
Ma chi era veramente e, come e dove finì i suoi giorni Apollinare Cassani? A questo, ed a molti aspetti umani del personaggio, cerca di rispondere il bel profilo introspettivo tracciato da Beniamino, note che ho cercato di curare ed illustrare al meglio, corredandole, in appendice, con la preziosa documentazione che, in tempi e modi diversi, siamo riusciti a  raccogliere (a.v.).


° ° °

Siamo a Filo, ai primi dell’Ottocento, un paesaggio sospeso tra terra ed acqua, centralmente attraversato dall’alveo abbandonato di un grande fiume, un nuovo fiume, che da poco scorre a qualche chilometro di distanza dal precedente, con tanta terra in mezzo da rendere fertile per mezzo di un’opera di bonifica idraulica, con l’escavo di canalizzazioni e drenaggi  per il deflusso delle acque correnti.
A nord del paese, permane  incontrastata  la valle, regno della canna e di erbe palustri, punteggiata qua e là da dossi creati nel corso dei secoli da depositi fluviali, in un fitto ed intricato labirinto di canali, che solamente  pochi ed esperti  barcaioli  (i Valarùl) conoscono.  

Angela Corelli, Valle con germano reale e giunco, (A.Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006)
La Valle, a quell’epoca, è anche luogo sicuro per tanti briganti e malandrini che infestano  la Bassa Romagna; lì essi  si rifugiano dopo ogni  loro scellerata impresa, nell’attesa che la pressione di Gendarmi o Carabinieri si attenui.
Contemporaneamente in tutta l’Italia, divisa ed in parte colonizzata dallo straniero, cominciano a diffondersi gli ideali mazziniani, con forti richiami ad una maggior giustizia sociale da realizzarsi attraverso una forma istituzionale repubblicana vagamente anticlericale, il tutto nel quadro di quel grande fervore ideale che è il nostro Risorgimento, di cui Garibaldi incarna e rappresenta il simbolo e l’azione. 
In questo contesto storico-paesaggistico l’11 Marzo 1838, nasce a Filo Apollinare Cassani, figlio di Giovanni detto Buarôl e di Domenica Pozzetti, modesta famiglia di boari in una delle tante proprietà di un ricco possidente delle  Alfonsine. Vita grama, piena di stenti e di miseria è quella che si conduce alla boaria, vita a cui anche il giovane Apollinare sembra inevitabilmente predestinato e che deve condividere con quel sottoproletariato rurale che, da secoli, ha ben scarse e remote possibilità di riscatto sociale.
Ma Apollinare,  spirito libero ed indipendente, cresce insofferente ad ogni forma di disciplina e di rapporto gerarchico, alla boaria (benché erediti dal padre il soprannome Buarôl) preferisce uno stile di vita errabonda e solitaria, negli immensi spazi liberi della valle, divenendo esso stesso un Valarôl, ovvero un cacciatore, pescatore, nonché raccoglitore di canne ed erbe palustri. Il Rettore della Parrocchia di Sant’Agata in Filo, nel suo Stato delle Anime, lo definirà un giorno «Vagabondo», un attributo che per quanto io ne possa capire, nell’interpretazione del pensiero del sant’uomo non ha valenza dispregiativa, ma vuole intenderne la scarsa capacità di socializzazione con gli altri umani, l’abitudine a non rimanere a lungo nello stesso luogo, ed anche, perché no, la scarsa partecipazione alla funzione  domenicale.
A metà Ottocento, il nostro Risorgimento nazionale, la prima e seconda Guerra d’Indipendenza e il  grande impeto patriottico, infiammano la migliore gioventù  alla causa unitaria; numerosi  sono gli italiani  di ogni ceto e censo che, volontariamente, accorrono ad arruolarsi nelle file piemontesi e garibaldine, fino alla storica spedizione dei «Mille» che segna l’apoteosi dell’entusiasmo nazionale.
Argenta e l’argentano tutto, rispondono con impeto alla patria chiamata, spronati dall’atavico rancore verso l’occupante austro-ungarico. Numerosi sono i volontari argentani[1] che accorrono ad impugnare le armi per liberare l’Italia dal giogo straniero: fra questi c’è pure il nostro Apollinare Cassani.  La notte fra il 24 al 25 Maggio 1866 egli parte da Argenta, unitamente ad altri 34 volontari, per arruolarsi nelle file garibaldine, dando sublime prova di fervente amore patrio; parteciperanno tutti all’epica battaglia di Custoza[2] che segnerà il ritorno alla madre patria di Venezia e del Veneto tutto.
Il ritorno a Filo, dalla gloria delle armi, è purtroppo, ancora una volta fatto di  privazioni e miseria. Egli si sposa, gli nasce una figlioletta, ma nel giro di pochi mesi perde figlia e moglie. Rimane di nuovo solo.
Le continue guerre hanno dissanguato le casse del nuovo stato unitario, l’imposizione fiscale ha raggiunto limiti non più tollerabili e tocca il culmine con la famigerata ed iniqua «Tassa sul macinato». Il malcontento che ne deriva, aggiunto all’indifferenza ed all’opportunismo dei ricchi proprietari terrieri, aggrava ulteriormente le misere condizioni delle classi sociali più umili, ed il brigantaggio, quale fenomeno criminale, ma anche come forma di rivolta sociale, continua ad essere alimentato in tutta la Bassa Romagna.
Il capo banda romagnolo più noto del periodo post unitario è certamente Luigi Camerini detto l’Umét (San Bernardino 1845 - San Bernardino 1873), ultimo brigante di grande rilievo, piccolo di statura (come lascia presagire il soprannome), ma furbo e scaltro al limite della temerarietà.
Come tanti suoi predecessori e contemporanei, anche l’Umèt coi suoi uomini, dopo ogni azione banditesca, si rifugia in attesa di tempi migliori nell’intrigo e nelle macchie inaccessibili delle nostre Valli di Comacchio.  Il porto d’accesso alle valli è a Filo, in località Porto Vallone, da cui per il Cavo Paolino si accede alla vasta distesa palustre che porta a Bando, ossia alle anguste, ma tranquille, Valli Brancole.
Miseria e privazioni portano il nostro Apollinare ad accettare le lusinghe ed i facili guadagni che ottiene accompagnando l’Umèt e la sua banda nei nascondigli reconditi della valle, in attesa che i Reali Carabinieri allentino la morsa; diventa però, di fatto, un fiancheggiatore, un manutengolo di quei briganti e si pone, irrimediabilmente, al di fuori della legge.


Le antiche valli filesi 
Particolare della Carta Napoleonica 1812-1814

Intanto lo stato unitario va consolidandosi e la lotta al brigantaggio, sia nel nord che nel sud Italia, assume  toni estremamente cruenti. Si promulgano leggi speciali e la repressione viene condotta con  pugno di ferro da militari quali i generali Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora e Raffaele Cadorna, dando origine a scontri che portano a migliaia di morti.   
Si giunge così all’anno 1873, quando i Reali Carabinieri della stazione di Lavezzola, comandati dal valente Brigadiere  Porcu-Oppo, per fare in tutti i modi terra bruciata intorno all’Umèt, reo di furti, rapine ed omicidi, arrestano i sospettati di esserne fiancheggiatori e, fra questi, anche Apollinare. Viene processato e condannato a 18 anni  di prigione; tutto sommato, nel contesto dell’aspra lotta al brigantaggio, la pena comminata appare mite, forse motivata dai trascorsi patriottici e dall’assenza di atti cruenti a suo carico.
Muore di  infezione tetanica[3], Apollinare, il  9 Novembre 1887, a 49 anni, nell’«Ospedale delle Mantellate di Roma»[4]. Lì nessuno ne sa il nome della madre e neppure ne conosce lo stato di vedovanza. Muore solo, come sempre aveva vissuto, lontano dalle sorelle rimaste a Filo.
Nella sua terra se ne perde ogni memoria; ma poi si sa, i cassetti della storia prima o poi si riaprono, e tante piccole vicende, quelle cioè non degne di essere raccontate dalla storiografia ufficiale, riappaiono quasi per incanto; spuntano nuovi documenti ed inedite testimonianze cartacee che trattano di tale Apollinare Cassani  detto «il Buarolo» da Filo.
Apollinare improvvisamente si materializza in tutta la sua umana natura, in tutta la forza rappresentativa di un’epoca e di un ambiente, dopo oltre un secolo di oblio totale. In noi ricercatori sollecita curiosità e stupore, ravviva l’intimo desiderio di calarci in ogni più piccolo particolare, in quegli intensi momenti di vita passata. La mente corre all’avventuroso vissuto di uomini così duri ed alle loro esperienze uniche ed irripetibili: uomini rudi, come lo è del resto questa terra strappata alla palude, uomini a volte giusti, a volte sbagliati, giovani vite cresciute nei grandi spazi fra il fiume e la valle, fra coraggio ed incoscienza, talvolta guidati da ideali grandiosi, altre volte soltanto dall’istinto, dalla mera necessità di sopravvivenza.
Oggi, fuori dal loro contesto storico ed ambientale, queste vite possiamo rileggerle con maggiore distacco e dare ad esse nuovi significati; possiamo ripensare alla ruvida figura di Apollinare, vallarolo, personaggio controverso della nostra bassa che non fu, solo Eroe, e neppure solo Brigante, ma fu, soprattutto, un uomo solo, un uomo che amava la libertà a modo suo, una libertà intesa forse nei suoi aspetti primordiali, un po’ selvaggia come la natura incontaminata delle valli in cui amava inoltrarsi, libertà che poi gli sfumò dalle mani finendo in galera, per connivenze, sodalizi sbagliati e leggerezze che gli risultarono fatali.
Apollinare, prima volontario per la Patria, poi fiancheggiatore dell’Umèt, in cuor suo desiderava forse soltanto vivere da uomo libero, fra tamerici, canneti ed acquitrini della sua terra, quell’uomo che, ad un certo punto, le tante circostanze e le condizioni personali e sociali avverse, non gli permisero di essere (b.c.).

APPENDICE DOCUMENTARIA
(a.v.)

Parrocchia di Sant’Agata in Filo, Stato delle Anime Filo di Ferrara, anno 1853

Parrocchia di Sant’Agata in Filo, Stato delle Anime Filo di Ferrara, anno 1866

Trascrizione: Hodie 5 Junii 1867. Cassani Apollinnaris q.m Joannis Ant.i, et Bacchini Jeronyma q.m Petri ambo ex hac Parocia peractis publicationis tribus diebus festivis, et nullo habito canonico impedimento contraverunt matrimonium in faciem Ecclesia coram […] Reverendo Domino Adriano Farabulini delegato et testibus Herculi Magnani et Blasio Tirapani ex hac cura omnibus. Ita est. Hiacyntus Parochus Tazzari. Traduzione: Oggi 5 giugno 1867. Cassani Apollinare del fu Giovanni Antonio e Bacchini Girolama del fu Pietro, entrambi della Parrocchia, effettuate le tre pubblicazioni nei giorni festivi e non essendoci alcun canonico impedimento, contrassero matrimonio davanti alla Chiesa, celebrante per delega Don Adriano Farabulini e testimoni Ercole Magnani e Biagio Tirapani entrambi della Parrocchia. Così sia. Giacinto Tazzari, Parroco.

  
Parrocchia di Sant’Agata in Filo 9 Settembre 1869
Morte della piccola Provvidenza Cassani


Matrimonio Cassani-Bacchini. 5 giugno 1867



Parrocchia di Sant’Agata in Filo, Stato delle Anime Filo di Ferrara Anno 1969

Parrocchia di Sant’Agata in Filo, Stato delle Anime Filo di Ferrara, anno 1870

Parrocchia di Sant’Agata in Filo, Stato delle Anime Filo di Ferrara, anno 1873

Comune di Argenta, Stato Civile, Atti di Morte. Trascrizione del sola parte relativa al documento originario: Comune di Roma, Direzione di Statistica e Stato Civile, Estratto dal Registro Atti di morte dell’Anno 1887 n. 455, serie D, Parte II II. L’anno milleottocentottantasette, al dì 9 alle ore pomeridiane  otto e minuti [omissis], in Roma nel Palazzo Comunale, io Avvocato Francesco Maria Apolloni, Consigliere Comunale, Delegato dal Sindaco il 27 Ottobre 1884 ad Ufficiale di Stato Civile del Comune di Roma, con atto debitamente approvato, avendo ricevuto dal signor Direttore dell’Ospedale delle Mantellate un avviso in data del dì dodici ottobre passato mese relativo alla morte di cui in appresso, e che munito del mio visto inserisco nel volume degli allegati a questo registro col numero trecentottantanove, Serie D, Parte 2°, Volume 2°, dò atto che in questo Ospedale, ad ore pomeridiane undici e minuti [omissis] del dì dodici scorso ottobre, è morto Cassani Apollinare, contadino, di anni quarantanove, residente in Filo d’Argenta, nato in Filo d’Argenta (Ferrara) dal fu Giovanni, domiciliato in [omissis], e da (si ignora la maternità), domiciliata in [omissis], celibe. L’Ufficiale di Stato Civile, firmato F.M. Apolloni. La presente copia è conforme all’originale e si trasmette al Sindaco d’Argenta, a termini dell’articolo 397 del Codice Civile. Roma, 21 novembre 1887[5].



Registro della Popolazione del Comune di Argenta. Annotazioni riguardanti la famiglia di Negrini Federico, cognato del Buarolo, e delle sorelle Serafina e Maria. A fianco del nominativo di Cassani Apollinare, la data e il luogo del decesso: «Roma, Colonia Penale Agricola»[6].




° ° °
(Cliccare sulle immagini per ingrandirle)




[1] Luigi Magrini, Memorie Storico-Cronol., Bologna, Grafis, 1988, p. 76. Per volontari argentani sono da intendersi, volontari di Argenta e delle frazioni del comune, inclusi i territori accorpati con l’Unità d’Italia (ex comuni di Filo e San Nicolò).
[2] Caduti argentani nelle Guerre d’Indipendenza: Benati Pietro, Milite Vol. Argenta 1841 - Civitella del Tronto 1860, Spanazzi Gaetano, Milite  Vol. S.M. Codifiume 1841 - Custoza 1866, Stignani Oreste, Milite Vol. Argenta 1849 - Mentana  1867, Vianelli Chiarissimo, Luogoten. S. Nicolò FE 1840 - Custoza 1866, Vianelli Pietro, Milite Vol. S. Nicolò FE 1828 - Roma 1849) (Ibidem).
[3] Questa notizia, così come la pena comminata al barcaiolo, proviene dalla lettura del fascicolo giudiziario presso il Tribunale di Ferrara.
[4] Circa i luoghi del decesso, nonché quelli di detenzione e pena si vedano le note in Appendice.
[5] Circa il luogo in cui avvenne il decesso, ossia «all’Ospedale delle Mantellate», così come viene verbalizzato dall’Ufficiale di Stato Civile, esso va certamente inteso quale Ospedale delle carceri romane. In quell’anno 1887, infatti, è già in essere il Carcere femminile popolarmente noto col nome delle «Mantellate». L’ex convento di suore di Santa Maria della Visitazione che portavano quel nome (per il lungo mantello indossato) era stato espropriato nel 1873 dal Governo Italiano, così come il plesso contiguo del Regina Coeli di Via della Lungara, quest’ultimo convertito tra il 1881 e il 1885. Gli edifici che danno sull’omonima Via delle Mantellate vengono definitivamente abbandonati dalle suore il 7 maggio del 1884 e trasformati nel noto carcere femminile,  che rimane in funzione fino alla costruzione di quello di Rebibbia. Si desume che nel 1887 in quei locali si accudissero i malati del carcere adiacente, nonché quelli provenienti - come nel caso di Apollinare Cassani - dalle Colonie Penali vicine.
[6] Si ignora in quale carcere il Buarolo sia stato destinato dopo la condanna, ed in quale specifica Colonia Agricola Penale abbia contratto l’infezione che lo portò alla morte, già in prossimità della fine pena. Considerato il luogo ove fu ricoverato in gravi condizioni, si può supporre che egli fosse assegnato ad una colonia del Lazio. Circa i criteri di assegnazione a queste colonie, si consideri che, prima dell’unificazione penale del 1889 (Codice Zanardelli), una apposita circolare del Ministero dell'Interno li elencava nel modo seguente: «1) I condannati da prescegliersi, abbiano diggià scontata metà della pena. 2) La loro condotta sia stata lodevole, ed abbiano fornite non dubbie prove di ravvedimento, e non siano incorsi in punizioni durante gli ultimi sei mesi. 3) Siano di robusta costituzione e vengano riconosciuti idonei e validi ai lavori agricoli. 4) Non siano stati condannati per delitti di sangue» (http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/law-ways/gambarde/cap2.htm).
L’assegnazione era quindi più premiante che punitiva, destinata alla classe di detenuti meno pericolosa. Apollinare, evidentemente, poté accedervi, almeno per parte della pena.

giovedì 4 maggio 2017

Baldi giovanotti filesi, anno 1928

Ricordi di famiglia, dietro una foto inedita ed un lontano giorno di festa
di Agide Vandini



Me l’ha mostrata qualche mese fa mia cugina Rita Toschi, nel corso della ricerca dedicata alla ‘Medea, questa bella foto di cui non avevo conoscenza; è un’istantanea che, come riporta l’annotazione sul dorso, risale al 1928.
Mia zia Lilia, classe 1913, allora quindicenne e prima a sinistra nella foto, la conservò gelosamente per tutta la sua vita fra i bei ricordi di gioventù, con buona e giustificata ragione. Il terzo da sinistra infatti è zio Pipĕñ, alias Giuseppe Toschi (1911), allora diciottenne, fratello di mia madre Elvira (1913) che Lilia sposò sei anni dopo.
Rita non aveva idea di chi fossero gli altri della foto, ma uno di questi io non potevo fare a meno di riconoscerlo. L’ultimo a destra, con tanto di doppio petto e strichèt ae’ cöl, alla stregua di Pipĕñ, è infatti mio padre Guerriero, classe 1912, all’epoca appena sedicenne.

Quanto alle altre due ragazze, se non ho ancora idea di chi sia l’elegante bellezza, gomito prominente e mano sul fianco, che sta fra i miei zii, ho invece subito colto l’identità della giovane vestita di chiaro a fianco di mio padre: Elsa Minghetti, classe 1912, futura moglie di Bruno Natali che, nelle sembianze e nella postura, ricorda la figlia Lelia. Di questo ho avuto chiara conferma proprio ieri, mostrando la preziosa foto ai suoi figli.
Dalla qualità della posa, dall’abbigliamento dei ragazzi e dagli addobbi alle finestre, si evince che la foto fu scattata da un vero fotografo nella primavera del 1928 ed in un giorno di festa, davanti ad una lussuosa cabriolet dell’epoca, di certo fuori dalla portata delle tasche delle famiglie dei nostri baldi giovanotti.
Appoggiata al parafango dell’auto sta una bici, molto probabilmente di Pipĕñ (poi spiegherò bene perché…). Il luogo in cui si trova il gruppetto di giovani filesi si direbbe indubbiamente l’amato paesello, anche se l’edificio alle spalle non è più identificabile: forse un palazzotto distrutto una quindicina d’anni dopo dai bombardamenti alleati, come gran parte del centro abitato di Filo.
L’anno 1928 e la composizione del gruppo di amici ci raccontano, però, molte altre cose, storie di cui si è spesso parlato nel mio ambito familiare e che qui, nell’occasione, mi sembra giusto ricordare.
La famiglia dei miei nonni materni, un ramo dei Toschi del conselicese chiamati i Capitèni, venne a vivere in zona sul finire del 1916, alla Campagnona sotto san Biagio, una casa colonica ora sede del laboratorio alimentare Le Romagnole fra Case Selvatiche e la Bastia. A quel tempo mia mamma Elvira, ultima di una bella nidiata di figli, aveva appena tre anni e Pipĕñ, il penultimo, ne aveva due in più.
Da quel luogo, una decina d’anni dopo, i Capitèni si trasferirono in territorio di Filo, sotto la Lodigiana, alla Risarola (la Cašèta). Lì non rimasero molto, appena un paio d’anni, anni che tuttavia furono molto importanti e cruciali per gli adolescenti Elvira e Pipĕñ.
Mia madre qui conobbe e s’innamorò di mio padre Guerriero detto Ghéo. Il giovinetto, che lavorava come frabẽñ (ovvero apprendista fabbro) ae’ Stalòñ, centro operativo poco distante, si recava di tanto in tanto alla Cašèta per piccole riparazioni ed interventi. Fu così che s’accese la scintilla.
Pipĕñ, a sua volta, conobbe e s’invaghì della filese Lilia, figlia maggiore della ‘Medéa, la cui intrigante e complessa storia ho qui raccontato proprio di recente.
Purtroppo in quel sito mio nonno rimase davvero poco. Agli inizi del ’28 la famiglia contadina, ridottasi nel numero dei componenti, si spostò nel voltanese, alla Marmana nei pressi di Passogatto, quando l’età ancora troppo verde delle fanciulle, per le usanze dell’epoca, non permetteva di frequentarsi in casa (par c’mandê d’andê in cà…), ovvero di essere veri e propri morosi e porre le usuali premesse per il matrimonio.
Fu così che per un paio d’anni, dagli inizi del ’28 fino al maggio del ’30 (quando nonno Pasquale e nonna Angiùla tornarono nel filese alla Rossetta, sotto Lavezzola) Ghéo e Pipĕñ s’incrociarono spesso a cavallo delle loro bici quasi a metà strada, al gattolo posto sul Santerno, ovvero alla passerella che consentiva l’attraversamento del fiume nella località che, per l’appunto, aveva preso il nome di Pàs de’ Gàt: l’uno per cercare di vedersi con l’Elvira alla Marmana, l’altro per incontrare la Lilia in quel di Filo.
Ecco spiegato perché in quella foto e in quel gruppetto non poteva esserci mia madre, quindicenne da poco trasferitasi a Voltana, ed ecco anche perché il luogo ritratto è da considerarsi con buona certezza Filo, poiché difficilmente a quel tempo un terzetto di ragazze quindicenni avrebbe avuto il permesso di recarsi altrove; infine, s’intuisce a sufficienza perché la bici è quasi certamente di Pipẽñ, l’unico che a Filo era costretto a venirci con quel mezzo per corteggiare la sua Lilia. Una bici che egli ha appoggiato temporaneamente al parafango della cabriolet, giusto il tempo per uno scatto del fotografo, sia pure con l’avvertenza di tenere la filarìna a distanza, affinché la foto possa essere mostrata a chiunque, anche ai familiari, anche ad Elvira. Quest’ultima, pur lontana quel giorno, non poteva certo ingelosirsi di Elsa che sapeva coetanea di mio padre e ben corteggiata dal suo amico e compagno Bruno.
Ragazzi e ragazze belli, baldi e spensierati nella loro prima giovinezza. Una spensieratezza che durò poco.
Tutto cambiò nel giro di un paio d’anni, allorché il destino sembrò beffarsi dei sogni più belli ed il mondo cadere addosso ad Elsa, Lilia ed Elvira, quest’ultima ormai tornata, coi genitori e con Pipĕñ, a vivere alla Rossetta, a due passi da Guerriero.
Giuseppe detto Pipẽñ, Guerriero detto Ghéo, e il suo amico Bruno dla China, furono infatti bruscamente arrestati sul finire del 1930, neppure maggiorenni, assieme ad altri 19 filesi,  perché attivi antifascisti e, in quanto tali, incarcerati, processati al Tribunale Speciale di Roma nell’aprile del ’31. Furono pronunciate nei loro confronti sentenze mitigate (inferiori a quanto chiesto dal PM), eppure durissime. Il primo, mio zio, fu assolto dopo alcuni mesi di detenzione, gli altri due invece, per «diffusione di volantini» e «propaganda», furono condannati a ben 18 mesi di galera (tutti scontati) e tre anni di vigilanza speciale (in parte condonata).
Fatto sta che la mia mamma, all’epoca ancora diciassettenne, si ritrovò con l’adorato fratello ed il moroso entrambi in prigione, e questo quando ancora non conosceva come tale la futura suocera, ossia la mia nonna Agida Cavalli, caduta tragicamente 14 anni dopo per mano fascista, salvando, di fatto, suo figlio e mio padre divenuto partigiano. Ad Agida comunque mia mamma si aggregò per andare da Guerriero, ad Arezzo, dove lui scontava il resto della pena dopo la sentenza. Dovette fingere di esserne la sorella, come testimoniano la foto e l’annotazione sul retro, che qui pubblico per la prima volta, e che lei dovette presentare in quella forma per essere ammessa al colloquio, un cimelio che ancora mi emoziona e che conservo con grande orgoglio.

Queste le  due foto, che mio padre conservava nel suo portafogli e che, come si nota dai timbri e da quanto scritto sul dorso,  furono utilizzate per i colloqui nel carcere di Arezzo nel maggio del 1931. Mia madre vi giunse in treno,  accompagnata da Agida, futura suocera, ma fu ammessa al colloquio soltanto due giorni dopo di lei, e fingendosene la sorella.
A destra, mia nonna Agida Cavalli, e nel dorso della foto: «Tua madre Agida» (8 maggio 1931).
Sotto, mia madre Elvira Toschi; nel dorso della foto ci sono scritte nei due sensi. Nell’immagine capovolta si legge:  «Tua sorella ti bacia tanto» (10 maggio 1931).









1930- Le foto del carcere di Bruno e Guerriero
(E.Checcoli, Filo della memoria, Prato, Ed. Consumatori, 2002, p.87)
Anche la vigilanza speciale a domicilio fu dura da scontare, poiché mio padre doveva rincasare per le otto di sera (col carabiniere che soleva controllare fin sotto le coperte) e non poteva uscire dal comune di residenza, ergo: non gli era possibile recarsi alla casa di mia madre, posta in comune di Conselice, per gli strani confini che abbiamo e che alla Rusèta appaiono più strampalati che altrove.
Ghéo, fabbro ormai maggiorenne, perso il lavoro alla Lodigiana, aprì bottega a Bando dove si recava di buon’ora ogni mattina. Cessata la vigilanza speciale fu ben presto chiamato alla ferma militare in Libia.
Prima però sposò mia madre il 27 settembre del ’34 nella chiesa di Lavezzola, con mia sorella già in viaggio (nacque il 7 novembre di quell’anno).
Mamma Elvira, in stato di avanzata gravidanza, rimase coi genitori e Carla vide allora la luce alla Rusèta, nella casa di nunì Capitèni. Coi nostri nonni materni continuò a vivere anche dopo il trasferimento nella loro nuova casa alla Campeggia di Filo, fino al ritorno definitivo di babbo Ghéo, cosa che avvenne nell’autunno del ’36, al suo rientro dalla Guerra d’Abissinia.


Anche le due coppie di amici di Guerriero ed Elvira, quelle espressamente richiamate dalla foto del 1928, si erano sposate in quello stesso anno 1934.
 Bruno Natali ed Elsa Minghetti si erano infatti uniti in matrimonio alla Chiesa Parrocchiale di Filo il 14 Aprile, sposati da Don S-ciòp, quel Don Giovanni Bezzi che mi avrebbe battezzato undici anni dopo.
Nella stessa chiesa e con lo stesso parroco il 10 giugno del 1934 avevano poi celebrato le loro nozze Lilia e Pipèñ. Testimoni: Ghéo ed Elvira.

Mia madre Elvira e mio padre Guerriero intorno al 1934 qualche mese prima del loro matrimonio.

Da sinistra: Bruno ‘d Turaza (Fiorentini), Bruno dla China (Natali), Ghéo Vandini e Pipĕñ Toschi alla festa dell’Unità del 1978. E’, questa fra gli amici di sempre, una delle ultime foto scattate a mio padre che ci lasciò l’anno dopo.