giovedì 4 maggio 2017

Baldi giovanotti filesi, anno 1928

Ricordi di famiglia, dietro una foto inedita ed un lontano giorno di festa
di Agide Vandini



Me l’ha mostrata qualche mese fa mia cugina Rita Toschi, nel corso della ricerca dedicata alla ‘Medea, questa bella foto di cui non avevo conoscenza; è un’istantanea che, come riporta l’annotazione sul dorso, risale al 1928.
Mia zia Lilia, classe 1913, allora quindicenne e prima a sinistra nella foto, la conservò gelosamente per tutta la sua vita fra i bei ricordi di gioventù, con buona e giustificata ragione. Il terzo da sinistra infatti è zio Pipĕñ, alias Giuseppe Toschi (1911), allora diciottenne, fratello di mia madre Elvira (1913) che Lilia sposò sei anni dopo.
Rita non aveva idea di chi fossero gli altri della foto, ma uno di questi io non potevo fare a meno di riconoscerlo. L’ultimo a destra, con tanto di doppio petto e strichèt ae’ cöl, alla stregua di Pipĕñ, è infatti mio padre Guerriero, classe 1912, all’epoca appena sedicenne.

Quanto alle altre due ragazze, se non ho ancora idea di chi sia l’elegante bellezza, gomito prominente e mano sul fianco, che sta fra i miei zii, ho invece subito colto l’identità della giovane vestita di chiaro a fianco di mio padre: Elsa Minghetti, classe 1912, futura moglie di Bruno Natali che, nelle sembianze e nella postura, ricorda la figlia Lelia. Di questo ho avuto chiara conferma proprio ieri, mostrando la preziosa foto ai suoi figli.
Dalla qualità della posa, dall’abbigliamento dei ragazzi e dagli addobbi alle finestre, si evince che la foto fu scattata da un vero fotografo nella primavera del 1928 ed in un giorno di festa, davanti ad una lussuosa cabriolet dell’epoca, di certo fuori dalla portata delle tasche delle famiglie dei nostri baldi giovanotti.
Appoggiata al parafango dell’auto sta una bici, molto probabilmente di Pipĕñ (poi spiegherò bene perché…). Il luogo in cui si trova il gruppetto di giovani filesi si direbbe indubbiamente l’amato paesello, anche se l’edificio alle spalle non è più identificabile: forse un palazzotto distrutto una quindicina d’anni dopo dai bombardamenti alleati, come gran parte del centro abitato di Filo.
L’anno 1928 e la composizione del gruppo di amici ci raccontano, però, molte altre cose, storie di cui si è spesso parlato nel mio ambito familiare e che qui, nell’occasione, mi sembra giusto ricordare.
La famiglia dei miei nonni materni, un ramo dei Toschi del conselicese chiamati i Capitèni, venne a vivere in zona sul finire del 1916, alla Campagnona sotto san Biagio, una casa colonica ora sede del laboratorio alimentare Le Romagnole fra Case Selvatiche e la Bastia. A quel tempo mia mamma Elvira, ultima di una bella nidiata di figli, aveva appena tre anni e Pipĕñ, il penultimo, ne aveva due in più.
Da quel luogo, una decina d’anni dopo, i Capitèni si trasferirono in territorio di Filo, sotto la Lodigiana, alla Risarola (la Cašèta). Lì non rimasero molto, appena un paio d’anni, anni che tuttavia furono molto importanti e cruciali per gli adolescenti Elvira e Pipĕñ.
Mia madre qui conobbe e s’innamorò di mio padre Guerriero detto Ghéo. Il giovinetto, che lavorava come frabẽñ (ovvero apprendista fabbro) ae’ Stalòñ, centro operativo poco distante, si recava di tanto in tanto alla Cašèta per piccole riparazioni ed interventi. Fu così che s’accese la scintilla.
Pipĕñ, a sua volta, conobbe e s’invaghì della filese Lilia, figlia maggiore della ‘Medéa, la cui intrigante e complessa storia ho qui raccontato proprio di recente.
Purtroppo in quel sito mio nonno rimase davvero poco. Agli inizi del ’28 la famiglia contadina, ridottasi nel numero dei componenti, si spostò nel voltanese, alla Marmana nei pressi di Passogatto, quando l’età ancora troppo verde delle fanciulle, per le usanze dell’epoca, non permetteva di frequentarsi in casa (par c’mandê d’andê in cà…), ovvero di essere veri e propri morosi e porre le usuali premesse per il matrimonio.
Fu così che per un paio d’anni, dagli inizi del ’28 fino al maggio del ’30 (quando nonno Pasquale e nonna Angiùla tornarono nel filese alla Rossetta, sotto Lavezzola) Ghéo e Pipĕñ s’incrociarono spesso a cavallo delle loro bici quasi a metà strada, al gattolo posto sul Santerno, ovvero alla passerella che consentiva l’attraversamento del fiume nella località che, per l’appunto, aveva preso il nome di Pàs de’ Gàt: l’uno per cercare di vedersi con l’Elvira alla Marmana, l’altro per incontrare la Lilia in quel di Filo.
Ecco spiegato perché in quella foto e in quel gruppetto non poteva esserci mia madre, quindicenne da poco trasferitasi a Voltana, ed ecco anche perché il luogo ritratto è da considerarsi con buona certezza Filo, poiché difficilmente a quel tempo un terzetto di ragazze quindicenni avrebbe avuto il permesso di recarsi altrove; infine, s’intuisce a sufficienza perché la bici è quasi certamente di Pipẽñ, l’unico che a Filo era costretto a venirci con quel mezzo per corteggiare la sua Lilia. Una bici che egli ha appoggiato temporaneamente al parafango della cabriolet, giusto il tempo per uno scatto del fotografo, sia pure con l’avvertenza di tenere la filarìna a distanza, affinché la foto possa essere mostrata a chiunque, anche ai familiari, anche ad Elvira. Quest’ultima, pur lontana quel giorno, non poteva certo ingelosirsi di Elsa che sapeva coetanea di mio padre e ben corteggiata dal suo amico e compagno Bruno.
Ragazzi e ragazze belli, baldi e spensierati nella loro prima giovinezza. Una spensieratezza che durò poco.
Tutto cambiò nel giro di un paio d’anni, allorché il destino sembrò beffarsi dei sogni più belli ed il mondo cadere addosso ad Elsa, Lilia ed Elvira, quest’ultima ormai tornata, coi genitori e con Pipĕñ, a vivere alla Rossetta, a due passi da Guerriero.
Giuseppe detto Pipẽñ, Guerriero detto Ghéo, e il suo amico Bruno dla China, furono infatti bruscamente arrestati sul finire del 1930, neppure maggiorenni, assieme ad altri 19 filesi,  perché attivi antifascisti e, in quanto tali, incarcerati, processati al Tribunale Speciale di Roma nell’aprile del ’31. Furono pronunciate nei loro confronti sentenze mitigate (inferiori a quanto chiesto dal PM), eppure durissime. Il primo, mio zio, fu assolto dopo alcuni mesi di detenzione, gli altri due invece, per «diffusione di volantini» e «propaganda», furono condannati a ben 18 mesi di galera (tutti scontati) e tre anni di vigilanza speciale (in parte condonata).
Fatto sta che la mia mamma, all’epoca ancora diciassettenne, si ritrovò con l’adorato fratello ed il moroso entrambi in prigione, e questo quando ancora non conosceva come tale la futura suocera, ossia la mia nonna Agida Cavalli, caduta tragicamente 14 anni dopo per mano fascista, salvando, di fatto, suo figlio e mio padre divenuto partigiano. Ad Agida comunque mia mamma si aggregò per andare da Guerriero, ad Arezzo, dove lui scontava il resto della pena dopo la sentenza. Dovette fingere di esserne la sorella, come testimoniano la foto e l’annotazione sul retro, che qui pubblico per la prima volta, e che lei dovette presentare in quella forma per essere ammessa al colloquio, un cimelio che ancora mi emoziona e che conservo con grande orgoglio.

Queste le  due foto, che mio padre conservava nel suo portafogli e che, come si nota dai timbri e da quanto scritto sul dorso,  furono utilizzate per i colloqui nel carcere di Arezzo nel maggio del 1931. Mia madre vi giunse in treno,  accompagnata da Agida, futura suocera, ma fu ammessa al colloquio soltanto due giorni dopo di lei, e fingendosene la sorella.
A destra, mia nonna Agida Cavalli, e nel dorso della foto: «Tua madre Agida» (8 maggio 1931).
Sotto, mia madre Elvira Toschi; nel dorso della foto ci sono scritte nei due sensi. Nell’immagine capovolta si legge:  «Tua sorella ti bacia tanto» (10 maggio 1931).









1930- Le foto del carcere di Bruno e Guerriero
(E.Checcoli, Filo della memoria, Prato, Ed. Consumatori, 2002, p.87)
Anche la vigilanza speciale a domicilio fu dura da scontare, poiché mio padre doveva rincasare per le otto di sera (col carabiniere che soleva controllare fin sotto le coperte) e non poteva uscire dal comune di residenza, ergo: non gli era possibile recarsi alla casa di mia madre, posta in comune di Conselice, per gli strani confini che abbiamo e che alla Rusèta appaiono più strampalati che altrove.
Ghéo, fabbro ormai maggiorenne, perso il lavoro alla Lodigiana, aprì bottega a Bando dove si recava di buon’ora ogni mattina. Cessata la vigilanza speciale fu ben presto chiamato alla ferma militare in Libia.
Prima però sposò mia madre il 27 settembre del ’34 nella chiesa di Lavezzola, con mia sorella già in viaggio (nacque il 7 novembre di quell’anno).
Mamma Elvira, in stato di avanzata gravidanza, rimase coi genitori e Carla vide allora la luce alla Rusèta, nella casa di nunì Capitèni. Coi nostri nonni materni continuò a vivere anche dopo il trasferimento nella loro nuova casa alla Campeggia di Filo, fino al ritorno definitivo di babbo Ghéo, cosa che avvenne nell’autunno del ’36, al suo rientro dalla Guerra d’Abissinia.


Anche le due coppie di amici di Guerriero ed Elvira, quelle espressamente richiamate dalla foto del 1928, si erano sposate in quello stesso anno 1934.
 Bruno Natali ed Elsa Minghetti si erano infatti uniti in matrimonio alla Chiesa Parrocchiale di Filo il 14 Aprile, sposati da Don S-ciòp, quel Don Giovanni Bezzi che mi avrebbe battezzato undici anni dopo.
Nella stessa chiesa e con lo stesso parroco il 10 giugno del 1934 avevano poi celebrato le loro nozze Lilia e Pipèñ. Testimoni: Ghéo ed Elvira.

Mia madre Elvira e mio padre Guerriero intorno al 1934 qualche mese prima del loro matrimonio.

Da sinistra: Bruno ‘d Turaza (Fiorentini), Bruno dla China (Natali), Ghéo Vandini e Pipĕñ Toschi alla festa dell’Unità del 1978. E’, questa fra gli amici di sempre, una delle ultime foto scattate a mio padre che ci lasciò l’anno dopo.


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