mercoledì 27 ottobre 2010

Un nuovo battesimo per Giancarlo Spagnolini...

Il neo romanziere è una cara e vecchia conoscenza degli argentani

di Agide Vandini



La copertina del romanzo

Il gruppo dirigente della ex EVC di Argenta negli anni ’90. Da sinistra: Dell’Antone, Giovannella, Mazzoni, Spagnolini, Teasdale (di EVC Int’l), Cipollini, Vandini, Bassi.


E’ stato il mio capo per una decina d’anni a partire dal ’92, Giancarlo Spagnolini, alla testa di EVC Compounds Argenta, quando, divenuta la ditta ormai di proprietà della multinazionale EVC, ebbe il non facile compito di sostituire Gaetano Trombini, leader storico dell’industria della plastica argentana, quasi un padre per tutti noi.

Sagace ed intelligente come pochi l’«Ingegnere», come da tutti fu chiamato, se la cavò benissimo, potendo contare su capacità professionali certamente non comuni. Seppe fare da trait d’union ideale fra l’Headquarter di Bruxelles ed il gruppo dirigente locale di cui ebbe sempre grande stima. Verso di esso fu, giorno dopo giorno e in un ambito di grande rispetto reciproco, più un amico che non un “superiore”. Aiutò ognuno di noi a raggiungere obiettivi non sempre facili e alla nostra portata, assecondando l’indole di ciascuno per ottenerne il meglio.

Questo è il bel ricordo che ho del Giancarlo Spagnolini Presidente ed Amministratore Delegato.

Ho sempre saputo naturalmente della sua passione per le lettere e della sua facilità nello scrivere, della grande proprietà che esibiva nel linguaggio e che coniugava ad una vena ironica assai gustosa, sempre garbata. Quando seppe delle mie ricerche nelle mie ore libere dedicate alla storia ed al folclore locale, mi incoraggiò alla loro pubblicazione e mi fornì sempre saggi consigli e spunti interessanti. Devo anche a lui la riuscita dei miei primi lavori. Non avrei mai immaginato, semmai, che raggiunta la meritata pensione, avesse avuto, a sua volta, la passione, la voglia di rimettersi in gioco e ricominciare in sostanza da zero sia pure in un campo ove, forse da sempre, ne aveva i mezzi e il talento, avuti direttamente da madre natura.

Ho avuto il privilegio di essere fra i primi lettori del suo romanzo, cui ha dato certamente un titolo “portafortuna”. Devo dire che ne sono stato francamente impressionato, attratto dalla storia in sé, affascinato dallo stile davvero pregevole. Credo che piacerà ai suoi lettori «L’Ingegnere», anzi, ne sono sicuro.

Uomo di vasti orizzonti culturali, Giancarlo Spagnolini, piemontese trapiantato nell’industriosa Milano, ha sempre apprezzato gli argentani e i basso-romagnoli cogliendone il meglio delle caratteristiche e delle tipicità regionali: la franchezza a volte spinosa, la lealtà, la capacità e la costanza di seguire un’idea e di battersi per essa. Mi piace pensare che questi slanci e tipicità abbiano lasciato qualcosa dentro di lui, che un po’ d’essenza emiliano-romagnola, insomma, se la sia portato a casa volentieri, alla maniera, quasi, di chi raccoglie il sacchetto di sabbia nelle spiagge della Sardegna…

Tutto questo per dire che forse un po’ di vita argentana, quella che ha arricchito l’esperienza di vita di Giancarlo Spagnolini, sia certamente presente sia pure forma non esplicita anche nel suo romanzo, un thriller di ottimo ritmo che invito tutti a leggere con interesse e curiosità.

Già la piccola sintesi che si può leggere qui sotto, tratta dalla sua prima locandina di presentazione, promette colpi di scena...

In bocca al lupo, di cuore, all’«Ingegnere» (a.v.).



MERCOLEDì 1 DICEMBRE 2010 ALLE ORE 18

nella Libreria eQuilibri di Milano (via Farneti 11)


Ottavio Rossani e Francesco Napoli

presentano il romanzo


di


GIANCARLO SPAGNOLINI

L’ingegnere

(Noubs edizioni, 2010)


Sarà presente l‘autore


Giancarlo Spagnolini è ingegnere, ma la scelta del titolo non ha valore autobiografico, anche se il protagonista narrante in prima persona è proprio un ingegnere, alto dirigente di una grande azienda. Spagnolini è stato anche lui manager e amministratore delegato di multinazionali. Insomma, si tratta di una semplice coincidenza, provocata quasi certamente dalla pigrizia dell’autore nello scegliere l’identità e le caratteristiche del suo piccolo “eroe” curioso ma ancora ingenuo. E infatti il racconto nasce dal coinvolgimento dell’ “ingegnere” in una semplice pratica di assunzione di un suo vecchio amico e si sviluppa in un’imprevedibile storia criminale di droga, spionaggio, terrorismo, mafia, servizi segreti deviati, sensualità ed altre complicate situazioni. Continui colpi di scena, sullo sfondo della fine degli Anni Settanta, tratteggiano non solo un thriller, con inevitabili azioni rocambolesche (e una leggera sottesa ironia), ma anche una radiografia dell’Italia negli “anni di piombo”. E il supermanager Spagnolini, anni 73, andato in pensione, avendo un po’ di tempo libero per riflettere, non poteva fare meglio di così per il suo “dinamico” esordio nella letteratura italiana.

Ottavio Rossani


lunedì 4 ottobre 2010

Sonetti e dialetto sotto le stelle …

Alcune mie poesie lette ai filesi

di Agide Vandini

E’ giunto il momento di trascrivere qui anche le poesie dialettali lette durante la memorabile serata del 12 agosto, quella conclusiva del ciclo dedicato ai «Talenti filesi». Tre di queste mie composizioni ispirate ai nostri luoghi e alla nostra gente (Mêrz int la vàl, Vašio e T’è da savé) sono già presenti in questo blog[1].

Gli altri titoli li riporto qui appresso: Trittico paesano, Ivo e’ canzulèr, E’ prem dè d’abrìl e Trittico de’ prugrès. Si tratta di alcuni sonetti dialettali in endecasillabi a suo tempo raccolti in Bëli Armunëi (Faenza, Edit, 2001), revisionati e trascritti per l’occasione nel dialetto tipico filese secondo le regole di ortografia romagnola adottate di recente. Li ho corredati di qualche nota supplementare per renderli maggiormente comprensibili a chi non può avere conoscenza dei luoghi, dei tempi e dei protagonisti.

A proposito delle nuove regole ortografiche di Vitali e della loro utilità, dopo un anno di soddisfacente utilizzo delle stesse, mi preme segnalare con un inciso una testimonianza importante. E’ quanto contenuto in un approfondito saggio pubblicato in questi giorni e dedicato al dialetto riminese dallo stesso Daniele Vitali e da Davide Pioggia[2]. Trascrivo qualche brano della “Premessa” alla loro trattazione ove, si riprende il principio base delle soluzioni proposte, principio che dà un senso preciso all’adesione di chi, come noi, ne coglie di conseguenza tutta la versatilità nella rappresentazione di suoni «tipici», altrimenti non facili da evidenziare.

Sappiamo bene infatti come nella zona di Filo le parlate siano sostanzialmente due, una «centro-romagnola» e l’altra cosiddetta «tipica filese», forma che, rispetto alla prima, presenta qualche diversificazione fonetica, proprio come in altre parti della Romagna periferica mano a mano che si manifesta il contatto con altre realtà linguistiche.

Ricordato il principio fondamentale:

«[…] un’ortografia valida per tutti i dialetti romagnoli dovrebbe assegnare un grafema […] ad ogni fonema, cercando di coprire l’inventario fonemico di tutti i dialetti. Resta poi inteso che per ciascun dialetto si utilizzerebbero solo i grafemi corrispondenti ai fonemi di cui quel dialetto dispone»

Gli autori, riferiscono:

«Nel frattempo, le proposte ortografiche di quel lavoro sono state accolte dall’autore filese Agide Vandini, il quale usa segni come e ñ, pensati per il sarsinate, ma utili anche per mostrare certe differenze fra il dialetto di Filo e la restante pianura in cui si parlano dialetti di tipo ravennate-forlivese: si veda il blog dell’autore, http://filese.blogspot.com, alla sezione “Una nuova ortografia per i dialetti romagnoli”».

Poi proseguono:

«La possibilità di scrivere, in modo integrato ma rispettoso delle differenze, anche i dialetti della periferia del sistema ravennate-forlivese (RF), o addirittura [come nel caso del riminese] appartenenti ad altri sistemi romagnoli, ci pare uno dei principali vantaggi di una grafia unificata del tipo descritto».

E’ una attestazione, questa dei due autori, che, oltre a fare onore a chi scrive, testimonia attenzione e interesse linguistico per questo lembo di Romagna ferrarese spesso trascurato, poco conosciuto o relegato fuori posto da tanti romagnoli che spesso preferiscono non occuparsene.

Daniele Vitali e Davide Pioggia, come altri eminenti glottologi romagnoli, inquadrano quindi correttamente anche la parlata tipica filese fra quelle di tipo ravennate-forlivese.

Scherzandoci su, verrebbe da dire, alla maniera del pirandelliano Mattia Pascal: « E ti par poco?»[3]

Apprendo peraltro che lo stesso Davide Pioggia cura un interessantissimo sito consultabile in

http://www.dialettiromagnoli.it/

ove si possono reperire importanti informazioni intorno alla documentazione scritta e orale dedicata ai diversi dialetti romagnoli. Lì possiamo leggervi queste notizie intorno al nostro dialetto:

Argenta (Arżéñta / Arżẽta). Nonostante ad Argenta si parli un dialetto di tipo emiliano, in alcune frazioni vicine al confine con la provincia di Ravenna si parlano dei dialetti romagnoli. Uno di questi è il dialetto di Filo (Fìl), che si può leggere e studiare nel sito L’Irôla de’ «Filés», curato da Agide Vandini.

Grazie comunque, a nome mio e anche, ne sono certo, a nome dei filesi che da sempre si riconoscono in questa palese carta d’identità dialettale.

Eccovi comunque queste mie poesie recitate all’aperto, davanti ai filesi schierati, sotto le stelle di agosto:

Trittico paesano

I.

Zenza e' dialèt cum a s putrèbal fê

a mẹtr int un supiòñ e’ paišàg’ filéš

ch' in Pò vëc’ e’ žarmacia al su burghê

spargujêdi e šmënghi ‘torn e’ paéš?

Dop a la Bastia u j è e’ Bórg dal Rèng,

e pu Cà Salvédig, un pòst ch’u t piéš,

e s t'an vé pr e' Valòñ, quènd ch’ t’é pasê

e' Bórg Galina e la S-ciapèta, t capẹs

che t ci a Fil! élóra, sta mọ atent:

par l'ôca o i Dọs vôlta vérs a Bànd,

par la Möta, Ròšul e Prêtònd tẹnt in méñt

‘d vultê prẹma de’ Mulèñ. èi pòc luntàñ?

U j è nènc la Garušla, la Ciavga d Lègn,

u n srà e' Paradiš ... Mọ u ngn è piò 'n s-ciàñ[4]!


II.

Fórsi u n t dirà gnìt mọ chi ch l'avdẹs

che lêg rušê stra la strê élta e i Dọs[5],

quènd che in abrìl i pìsg alè i fiurẹs,

u s šmingarẹb tọt al maravẹj ch'ui fọs.

Int un söpi u t spalèñca ọc’ e nêš

e u t fa nènc 'vnì la vója d fêj un tọf.

Srènd i ọc’, t sọgn, e un fiór e' dvénta un béš...

T scùlt e' murmurê de’ véñt e una vóš,

un subiôl luntàñ, i chènta sól par tẹ,

t vìd 'na vulandra par aria ch'la s'invóla

e la t scaröza int e' piò bël sọgn che t'é...

«Valà baluša quësta l'è 'na fôla!»

I dirà: «... Pr un pô d campagna... Ooh, Szarvlê!

T'a n e' vìd che da quẹ i s dà tọt la möla?»

III.

I filiš ch’i è partì i è tọt preciš

e' pê lo chi stêga bèñ indó ch'j è andé

mo quènd ch'i tórna i véd e' Paradiš,

sól ch' i n vô ch t'al sépa, t'an l'é da vdé.

U s'i turménta e' côr depù ch'i à dezìš,

cun al famèj, d lasê e' paéš par zarchê

furtuna, carsènd i fiùl cun di burghiš.

Mo a là indó ch'i è, apèna 'rivé,

s'is véd stra d ló, is fa un pô d maravẹj

e pu i scòr d Fìl acsè, tèñt pr infurmês

dla žent ch'i cgnọs e s'i pensa d'arturnêi.

Mo piàñ piàñ i n s véd piò gnì int e' filéš.

E’ tèmp e' pasa, i fiùl i n pò ‘cumpagnêi,

mo ló, almenc, i pògia ‘glj ös ae' su paéš[6].

Ivo e’ canzulêr

E’ mi nòñ, tọt incóra i s l'arcôrda.

Ivo e’ canzulêr: un òman zninòt,

bòñ lavuradór, la batuda prónta,

u i piašéva d bé, mo i j vléva bèñ tọt.

U s'aviéva da ca quéši d córsa,

du sélt e pu l’éra ža pët a Carlòt[7] ,

la gabën’ ae' vént, e’ capël pr a l’élta,

vérs ae’ Cafè par bés un bichiròt.

Un dè, in biciclëta, e' pasè l'incróš[8]

zenz'avdé 'rivê 'na Sizènt da Lungastrèñ,

che, gnichènd, la s farmè pët ae' su nêš:

«Par furtuna ch'andéva piàñ!» Stlù e' rugè.

Lò, ‘pëna 'rciàp, u j dgè švélt int e' vultês:

«S'andivi mọ fôrt, ch'a pasivi prẹma d mẹ! »

E’ prèm dè d'Abrìl

(tọti agli ôc al và in žìr…) [9]

S'a j avì fàt chêš i schìrz d'Abrìl ormai

i n s dìš piò «Ciapê l'ôca». A v'arculdìv?

«ôca, ôca d'Abrìl!» In tọti al cà.

E a la vžéglia quènd ch t'a t’indurmintìv

i t géva: «Guêrda da n ciapê l'Ôca dmàñ!»

Adës: «Pesce d'Aprile!»... Un pës d'Abril?

Mọ… Ach pës? A Fìl u s diš «Ccia-ppê l'Ô-cca!»

Mocchè dialèt…: l'Ôca, i l'à fata sparì!

Fra un pës e 'n ôca u j è 'n mêr stramèž

e pu, «ôca» u m pê che seia nènc piò bël!

L'è «ôca» quël ch'u s tô in ẓir, miga un pës!

A quẹ s'an šdistèñ i s'cambia tọt gnaquël,

i s fa sparì nenca nòñ, cun ste šmanèž.

A m sìntat? «ôca, ucaròñ ... I t stà cambiènd la pël!»


Trittico d'e' prugrës

I.

Dal vôlt a pìns cus ch la dirẹb zérta žéñt

quëla ch la s n'è ža andêda da un pëz,

prẹma che e' Prugrès u s'anibiẹs la méñt,

s l'avdẹs e' mònd coma ch' l'è fàt adës.

A pìns che e' dè ch' l'avnẹs e' mi muméñt

e dlà, int e' žirandlê, a scapuzẽs

int la Baztina e la Cantëla[10]: «... Stà 'tèñt!»

Al dirẽb. E pu: «Cum vàla mo, Fìléš?»,

A mẽ u m'avnirẹb da dìj sòbit dòp:

«Öoh, i lavùr d fadiga... I s'è finì!

E pu… U s'stà infen'atèñt a n'magnê tròp!»

«Mọ ‘s a dìt? Pröpi? Mo ‘s’ èl zuzèzt, babì!

Mọ... Indò avìv pu trôv tot sti bajọc?»

Ohi... A n sareb c’s arspöndi, sóra du pì...

II.

Ló aglj u m guardarẹb un pô d travérs

par capì s'a ‘scọra pröpi par da d bòñ

e pu al dirẹb, puntènd’s e' dìd in vérs:

«A t'e' géva mẹ, ch’u s stà bèñ int e' mòñd!»

Alóra a n putrẹb piò fê l'öc’ da šguérz,

u m tucarẹb ad spieghêj tọt, infen in fòñd,

com ch'u s'è arvultê int j èn tọt l'univérs

cambiènd fra sgnùr e purèt la distinziòñ.

Prẹma ad fêl capì a la Baztina,

quëla piò scantêda dal dò, tèñt èn fa,

la Cantëla la m šlungarẽb 'na manina:

«T'an cunta miga dal fôl e’ mi cumpàgn ...

Che ‘quẹ, un dè, l'à dẹt e' fiôl d'la Pina

ch'i j à rubê 'fena la sëla dnìnz a cà!»

III.

«A l sö che a scurì tọt in italiàñ

ch'a parì téñt avuchét dal mi bisàc

mọ ch'a n cardiva miga d tùs in žìr ...

E' bòñ capì, a quẹ, u s'è pu armàst!»

A sintì ‘csè u j srẹb pùc, pùc quël da dì,

fórsi, pu, la Baztina la m darẹb ‘n atàc:

«Cum a fašìv a sintìv di Sgnùr ciumpì

che un s-ciàñ u n'e' tô sọ gnènch un tabàc?

A ciacarì mènc che nòñ, mọ sìv sicùr

ch'a v capì fra d'vó quènd ch'avì bišògn?

Cal maravèj ch'a v fašì coma di Sgnùr

Al pê piò falsitê ch n'è educaziòñ!»

(!?!)... ét capì? E mẹ, a sintìn ad sti culùr?

A j dirẹb sòbit: «... Avì pröpi rašon!»

Trittico paesano

I.

Senza dialetto come si potrebbe fare

a spiegare in un soffio tutto il paesaggio filese

che in Po Vecchio costella le sue borgate

sparse e dimenticate attorno al paese?

Dopo la Bastia c’è il Borgo delle Arringhe

e poi Case Selvatiche un posto che ti piace,

e se non vai verso il Vallone, una volta passato

il Borgo Gallina e la Sciapèta capisci

che sei giunto a Filo! Oh, ascoltami, stai attento:

per l'Oca o i Dossi si gira verso Bando,

ma per la Möta, Rosolo e Pratondo ricordati

di svoltare prima del Molino. Sono luoghi poco esotici?

Allora c’è anche la Garusola, la Chiavica di Legno,

non sarà il paradiso... Ma non c'è più traccia umana !

II.

Forse non ti dirà nulla, ma chi lo vedesse,

quel lago rosa fra la strada alta ed i Dossi,

quando in aprile i peschi fioriscono,

dimenticherebbe ogni meraviglia del mondo.

In un soffio ti spalanca gli occhi ed il naso

e ti fa anche venir voglia di farci un tuffo.

Chiudendo gli occhi, sogni, e un fiore è un bacio …

Se ascolti il mormorio del vento, una voce,

uno zufolo lontano cantano soltanto per te,

poi vedi un aquilone in cielo che s'invola

e ti culla nel più bel sogno che hai…

«Ma dai, sciocco, questa è una favola!»

Dirà qualcuno «Per un po’ di campagna? Ehi scervellato!

Non lo vedi che da qui se ne vanno tutti?»




III.

I filesi che se ne sono andati son tutti uguali

sembra che stiano bene dove son finiti

ma quando tornano vedono il paradiso,

però non vogliono che si sappia, che si veda.

Si tormentano il cuore da quando decisero,

con la famiglia, di lasciare il paese per cercare

fortuna e per crescere i figli coi borghesi.

Ma ove arrivano, anche appena giunti,

se s'incontrano fra loro, si fanno subito festa

e poi parlano di Filo così, tanto per informarsi

su chi conoscono e se pensano di tornare.

Ma pian piano non arrivano più nel filese.

Il tempo passa, i figli non li portano più,

ma almeno riescono a portar le ossa al loro paese.









Ivo, il calzolaio


Mio nonno ancora tutti se lo ricordano.

Ivo il calzolaio, era un uomo piccoletto,

buon lavoratore, la battuta pronta,

amava bere ma gli volevano bene tutti.

Se ne andava di casa quasi di corsa,

due salti ed era già nei pressi di Cà Carlotti,

giacca al vento e cappello sulla nuca

verso l'osteria dove si faceva un bicchierotto.

Un giorno, in bicicletta, passando l'incrocio non vide una ‘600 provenire da Longastrino che, stridendo, si fermò di fronte al suo naso:

«Per fortuna che andavo piano!» Urlò costui.

Il tempo di riaversi e il nonno lo fulminò:

«Era meglio se andavate più forte e passavate prima di me!»



Il primo giorno d’aprile

(tutte le oche vanno in giro…)

Se ci avete fatto caso gli scherzi d'aprile ormai

non si definiscono più «prender l'oca». Vi ricordate?

«Oca, oca d'aprile!» In tutte le case.

E alla vigilia quando ti addormentavi

ti dicevano: «Guarda di non prender l'oca domani!»

Adesso: «Pesce d'aprile» ... Un pesce d'aprile?

Ma… Quale pesce? A Filo si chiama «Pren-der l'O-ca!»

Macché dialetto : l'Oca l'hanno fatta sparire!

Fra un pesce ed un'oca c'è un mare di mezzo

e poi, «Oca» mi sembra che sia anche più bello!

E' «Oca» quel che si prende in giro, mica un pesce!

Qui se non ci svegliamo ci cambiano ogni cosa,

fanno sparire anche noi, con queste smanie.

Mi ascolti? «Oca, ocarone ... Ti stan cambiando pelle!»

Trittico del Progresso


I.


A volte penso a cosa direbbe certa gente,

quella che se n'è già andata da un pezzo,

prima che il Progresso ci annebbiasse la mente,

se vedesse il mondo com'è fatto adesso.

Penso che il giorno in cui venisse il mio momento

e nell'al di là, gironzolando, m'imbattessi

nella Baztina e la Cantëla: «... Sta attento!»

Direbbero. E poi : «Come va, caro Fìlese?»

A me verrebbe da dir loro immediatamente:

«Ooh, lavori da fatica... Non ce ne sono più!

E poi … Si sta anche attenti a non mangiar troppo!»

«Ma che dici? Davvero? Ma cos'è successo, bimbo!

E, dicci, e dove avete poi trovato tutti questi soldi?»

Non saprei proprio cosa rispondere, così su due piedi...





II.

Loro di certo mi guarderebbero di sbieco

per capire se stia scherzando oppure no

e poi, puntandosi reciprocamente il dito:

«Te lo dicevo io, che si sta bene nel mondo!»

Allora non potrei più far l'occhio da strabico,

dovrei spiegar loro tutto fino in fondo,

come s'è rivoltato negli anni l'universo intero,

cambiando la differenza fra ricchi e poveri.

Prima di farlo capire alla Baztina,

la più sveglia fra le due, tanti anni fa,

la Cantëla allungherebbe la sua manina:

«Mica raccontare tante favole caro amico ...

Qui un giorno ci ha detto il figlio della Pina

che gli han rubato la sella davanti a casa!»




III.

« Lo so che parlate tutti in italiano

fino a sembrare tutti avvocati dei miei stivali

ma non crediate mica di prenderci in giro...

il buon senso, qui, ancora ci è rimasto!»

A sentir questo ci sarebbe poco da ribattere

e forse allora la Baztina mi attaccherebbe:

«Come fate a sentirvi dei veri Signori

se un disgraziato non lo soccorre neppure un bambino?

Parlate, sì, meno di noi, ma siete poi sicuri

di comprendervi quando ne avete bisogno?

Quei salamelecchi che vi fate per sembrare ricchi

sanno più di falsità che non di educazione!»

(!?!)... Hai capito? E io, nel sentire queste cose?

Direi subito loro: «… Avete proprio ragione!»


[1] Per Mêrz int la vàl si veda l’articolo qui pubblicato il 15.3.2008 (Per un ambiente naturale che non c’è più) in http://filese.blogspot.com/2008_03_01_archive.html, per Vašio si veda il 21.09.2009» (Ciao Vasio) in http://filese.blogspot.com/2009_09_01_archive.html e per T’è da savé 2.7.2010 (Perché Filo è diviso in due) in http://filese.blogspot.com/2010_07_01_archive.html .

[2] Si tratta di un saggio introduttivo a Giovanna Grossi Pulzoni, Dọ int una völta, Commedia in tre atti nel dialetto marinaresco di Rimini, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2010, pubblicato a cura dell’Istituto per la valorizzazione del dialetto romagnolo «Friedrich Schürr».

[3] Morto anagraficamente, e a seguito di vicende romanzesche, ben due volte, egli risponde infatti così a chi non capisce il suo legittimo orgoglio nel poter affermare «Io mi chiamo Mattia Pascal…»

[4] Le denominazioni mantenute in corsivo nel testo in lingua italiana rappresentano altrettante borgate del territorio filese.

[5] Pescheto immenso e sconfinato, fra Case Selvatiche e I Dossi, purtroppo abbattuto nel 1998.

[6] E’ prassi comune infatti, che i filesi, al termine di una vita vissuta in gran parte lontano dal paese, vogliano essere sepolti nella terra dove sono nati.

[7] La bella ed elegante Cà d Carlòt nel Borgo Ravegnano di Filo, con le sue due antiche botteghe e dipinta di rosso cupo, la si vede ritratta in tutte le cartoline d’epoca e fu sempre un punto cardinale per i paesani. Soprattutto era sempre davanti agli occhi di chi sopravveniva in piedi o in bici dalla direzione di Bando, poiché visibile in lontananza lungo il rettilineo dell’Oca-Pisana, il percorso che seguiva mio nonno.

[8] L’incrocio, al centro del paese fra la Provinciale e la Via dei Martiri, che imbocca l’Oca-Pisana a metà di una pronunciata discesa, è sempre stato, anche con la scarsa motorizzazione dell’epoca di Ivo e’ Canzulèr, di pericoloso attraversamento per pedoni e ciclisti.

[9] Poesia che si è classificata al 3° posto al Premio Spada (S.Martino d’Oro) a Conselice, nell’anno 2001.

[10] Simpaticissime vecchiette di nascita Ottocentesca che vivevano nella mia casa, o meglio, delle Case Operaie. Con loro colloquiavo spesso ai tempi della mia prima infanzia. Lasciarono questo mondo a metà degli anni ’50.