La tentata incredibile impresa del nostro Giovannino Tarozzi
diAgide Vandini
Nulla può più stupire intorno alle imprese di Giovanni Tarozzi, per noi filesi e’ Maröc. Tanto meno chi, come ogni suo compaesano, è abituato da sempre alle sue spericolatezze.
Ricordava proprio in questi giorni all’osteria l’amico Chëli, alias Marino Checcoli, da anni residente (solo anagraficamente) ad Argenta come del resto lo stesso Maröc, la volta in cui, molti anni fa, a bordo del suo Miura Lamborghini, sfiorò a velocità stratosferica il posteriore della vettura di Tugnazina d Ravòñ e s’involò letteralmente nei cieli di Case Selvatiche. Planò a parecchi metri di distanza, oltre lo strapiombo di 4 o 5 metri che divide in quel punto la strê élta (la strada alta) dal sottostante piano di campagna.
«Linda, Linda, Linda… - gridò in quel momento alla moglie un vicino di Chëli, ossia Giàni d Rös - cọr fura, cọr fura, ch’l’è chès-c un rioplã … (corri fuori, corri fuori, che è caduto un aeroplano…) ».
Del suo ricorrente bagno di Capodanno in Adriatico, poi, ho già riferito in altro articolo di questo blog [si veda nel gennaio dell’anno «Un filese d’acciaio» ], riportando anche le imprese a cui si accingeva, cose davvero challenging (come direbbero gli inglesi) anche per uno come lui, ormai settantatreenne … Fra queste grandi imprese, una lunga camminata, la Filo - San Marino (di 100 circa Km) compiuta esattamente il 25 aprile di quest’anno, quando all’arrivo mi chiamò sul telefonino con una voce beata e soddisfatta, più arzilla che mai.
Stavolta l’ha pensata ancora più grossa, ha puntato decisamente in alto, nientemeno che ad una Firenze-Filo, una roba da 150 Km almeno, con partenza intorno alle 23 di sabato 19 settembre ed un arrivo previsto la sera del successivo 20 settembre 2009, al Bar Centrale di Filo. Oltre venti ore di camminata ininterrotta di notte e di giorno. Una performance da atleta forte, preparato e coraggioso che purtroppo, stavolta, per circostanze piuttosto sfortunate riferitemi da Benny Carlotti, non è riuscito a portare a termine.
Partito da Firenze come previsto, in prossimità del Passo dei Giovi è iniziata una pioggia incessante. Coipiedi bagnati Giovannino ha cominciato a sentir freddo e questo lo ha portato a correre anzichè camminare. Il dispendio di energie fuori programma gli è stato fatale. Alle dieci del mattino di domenica 20, Benny, Falco e Masêri lo hanno incrociato ad Imola all’altezza del Mulino Rosso lungo la via Selice, lì giunto in buon anticipo sulla tabella di marcia, ma effettivamente un pò provato. In quella posizione lo hanno lasciato, dandogli appuntamento all’arrivo a Filo in serata.
Ripresa di passo la sua gara lungo la Selice, pochi chilometri dopo egli ha purtroppo seguito un cartello indicante «Sasso Morelli Km.3», una via che ha creduto più breve e meno trafficata verso Argenta, ma il cartello l’ha maledettamente portato fuori itinerario di parecchi Km.
Dopo tanto faticoso ed estenuante girovagare, giunto a Spazzate Sassatelli, ha sentito consumata ogni stilla di energia e a quel punto s’è deciso a chiamare la moglie che colà, a una quindicina di Km da Argenta, è andata a prelevarlo. Nessuno sconforto, comunque: e’Maröc si è subito ripromesso di tentare di nuovo l’impresa in un prossimo futuro.
Come ho già scritto qualche mese fa, passano gli anni, e sono già tanti sul groppone, eppure Giovannino sente ancora molto forte il bisogno di mettersi alla prova, di dimostrare, a se stesso prima di ogni altro, d’essere il solito guascone, inguaribile ed indistruttibile. E’ ciò che ama essere e che lo porta a buttarsi nelle più sconcertanti imprese, con quella voglia matta di stupire che non lo abbandonerà mai.
Forza allora Maröc, benvenuto temporaneamente fra gli umani, e complimenti vivissimi per ciò che comunque sei riuscito a fare. Ti giunga, mentre mediti la tua rivincita, un grande abbraccio ed una stretta di mano dai tuoi amici filesi.
Siamo sicuri che prima o poi ci riproverai e che ci stupirai ancora.
Giovannino (e’ Maröc) alla partenza da Firenze,
alle 23 circa di sabato 19 settembre 2009
Giovannino (e’ Maröc) nel corso della sua «lunga marcia»,domenica mattina 20 settembre 2009, nei pressi di Imola.
Ci ha lasciato pochi giorni fa Evasio Brusa, per noi filesi, semplicemente, Vašio.
Aveva 86 anni e da tempo si era ritirato, precario di salute, in casa di riposo, ad Alfonsine.
I filesi lo conoscevano tutti, sapevano di qualche sua rotellina non sempre a posto, ma forse proprio per questo lo hanno sempre amato e rispettato, spesso sorridendo allegramente con lui delle sue mattane e di una passione, la sua, quasi travolgente per il vino, nonché di certi «botta e risposta» destinati, forse, a restare nella lunga storia del nostro piccolo paese.
Del resto Vašio al centro dell’attenzione finiva per esserci spesso, vuoi come inserviente al Cinema Tebaldi, vuoi come bracciante del Collettivo Agricolo, vuoi infine come frequentatore abituale dell’osteria. Giocare e scambiar battute con Vašio veniva spontaneo, fino ad abusare un po’ della sua semplicità ed ingenuità, seppure il suo «stare al gioco» indicasse quanto egli in fondo gradisse stare fra i suoi paesanied averne le attenzioni, fino a fingere, forse, d’essere più credulone di quanto in effetti non fosse.
Dargli la battuta era quasi un rito, una piacevole abitudine e lui non se la prendeva mai. Se brontolava ad alta voce era, in fondo, perché ciò era quanto gli altri si aspettavano da lui. Era, insomma, anche questo, un modo di assecondare il suo prossimo, un modo di essere che ci diceva quanto egli fosse intimamente buono.
Intorno a Vašio, personaggio filese fra i più simpatici, ho scritto e raccontato aneddoti sparsi nelle mie modeste opere letterarie. D’altronde alla sua figura come factotum del Cinema Tebaldi di gloriosa memoria, sono legati tanti bei ricordi di gioventù, serate indimenticabili trascorse in allegra compagnia con gli amici della mia generazione. Ho ricordato ad esempio come
“ “ […] Nella lunga attesa prima dell’inizio delle proiezioni si faceva amicizia con Vašio, il simpatico e bizzarro inserviente addetto al riscaldamento ed all’aerazione che poi, per celia, veniva invocato sempre a sproposito.
Se si scoppiava dal caldo, tutti ad urlare: «Dai sọ Vašio a che riscaldameñt…[ Vasio, è ora di aumentare la temperatura …]». Se invece si pativa il freddo: «Vašio, e’ srà pu óra t’aglj arvẹsa cal finèstar…[ Vasio, è ora che tu apra le finestre per dare aria …]». Insomma il povero Vašio era chiamato in causa in continuazione e faceva parte dello spettacolo.[…][1]. ” ”
In proposito l’amico Bruno Foletti (Falco) mi raccontava l’altro giorno come la cosa fosse poi diventata quasi leggenda anche a causa di uno scherzo di quel buontempone di Macafër, al secolo Aldo Geminiani.
Andò più o meno così. La direzione aveva raccomandato al buon Vašio di controllare il termometro d’ambiente e di far sì che non superasse mai una certa temperatura. Per star tranquilli e togliere ogni incombenza di lettura, aveva poi provveduto a contrassegnare la giusta altezza del mercurio con un elastico stretto intorno alla colonnina. Macafër, noto burlone, glielo alzò di nascosto di un paio di centimetri buoni e fu così che il cinema Tebaldi per qualche tempo si trasformò in una specie di girone infernale, con gli spettatori che invocavano ad alta voce l’apertura dei finestroni …
Di Vašio, comunque, non si può non ricordare la sua smisurata passione per il vino, e quando dico passione mi riferisco a tutto quanto concerne la sua preparazione, custodia e, perbacco, anche la sua degustazione... Ecco quanto ho raccontato a questo riguardo:
“ “ […] La terza, ultima e raffinata categoria di bevitori, quella degli amanti del vino, era viceversa composta da chi, verso il dono di Bacco, avevauna squisita adorazione. Si trattava di consumatori abituali, di discreta capacità di assorbimento alcolico, bevitori che davano particolare sfogo alla propria passione nelle feste comandate e in altre grandi occasioni.
Il vino lo amavano con trasporto e le osterie erano per loro luoghi di passione, ove recarsi per consumare qualche goccia di felicità in una specie di rito sacrale. La stessa cosa del resto avveniva in casa, in campagna o altrove. Senza mai esagerare essi si concedevano il piacere di un buon bicchiere, eccedendo appena nelle grandi bisbocce che la tradizione ogni tanto proponeva. In quelle occasioni davano letteralmente fuoco a tutta la polveriera.
C’era fra loro chi la passione l’aveva coltivata fin da piccolo. Il nostro buon Vašio ad esempio, fin da bambino era già tanto affascinato dalla liturgia del vino, fatta di vendemmie, pigiature dei grappoli, profumate spillature dai tini, che lo zio Vrélio, falegname, gli preparò un regalo da farlo ammattire, ammesso che la cosa fosse ancora realisticamente possibile.
Lui se ne entusiasmò talmente che volle comunicare a tutti la sua gioia irrefrenabile. Corse quindi ad urlarla in primo luogo nelle orecchie della Mariad Capitëni alla quale praticamente cantò ad altissimo volume come in un’opera verdiana: «Vrélio, u m’à regalê un barẹl... [Mio zio, mi ha regalato un barilotto...]»
E’ facile allora comprendere come da questo dono egli sia rimasto praticamente folgorato e che il più grande insulto che gli si potesse fare in età adulta, fosse quello di insinuare che le sue botti fossero di pioppo e non di rovere...
Quando, sul finire degli anni Cinquanta, stava per giungere in paese nientemeno che l’acquedotto, e le pericolose tubazioni sarebbero passate, secondo i progetti del comune, nei pressi della sua cantina, per noi giovinastri fu sempre un gioco da ragazzi spaventare e terrorizzare Vašio, ormai anziano, all’idea che tutta quell’acqua potesse annaffiargli e rovinargli il prezioso vino. […][2]. ” ”
Queste serate al cinema, trascorse coi ragazzi della mia generazione le ricordai anche in un bel sonetto, una poesia dialettale che riprendeva, pur nella severità della metrica, le vicende appena narrate:
e lui ci rincorreva fino allo spegnersi delle luci.
Difficile ricordare tutte le battute e gli scherzi propinati a Vašio connessi al suo lavoro di bracciante. Famosa la foga con cui rispose a Luzio d Sifrënch che un sabato sera si inventò: « I à dẹt che Gnaro u t’à mẹs int la lẹsta par dmatẹna a insachê dla nëbia in Ghidinia… [Hanno detto che Gnaro (il collocatore del Collettivo) ti ha messo in lista per domattina ad insaccare nebbia in Ghedinia…]» E lui scuotendo il dito indice: « Eh nooo, dmatena pu l’è la dmënga, a n’i vëg miga… [Eh, nooo, domattina poi è domenica, non ci vado mica…]».
Un’altra volta Pirẹñ lo raggiunse in bicicletta mentre, come gli capitava spesso, brontolava minacciosamente: «S’a truv quël che scọr mêl ad mẹ… [Se trovo quello che parla male di me …]» E poi ancora: « S’a dëgh a pët a quël che diš acsè dal röb… [Se becco quello che dice cose simili...]»
Al che Pirẹn si sentì autorizzato a chiedere: « Mò cus a t’ài dët Vašio? [Ma cosa ti hanno detto Vasio?]»
E lui rispose: « Ah cus ch’i m’à dẹt? [Ah cosahanno detto?] I à dẹt ch’a sö inzinta lo..., i à dẹt…, mò s’a ciëp clu ch’u l’à dẹt… [Hanno detto che sono incinta... ma se becco quello che l’ha detto...]»
Mio zio Pipẹñ d Capitëni, anche lui burlone di prima categoria, mi raccontò una volta come i compagni di lavoro si erano fatti gioco di Vašio e della sua passione per il bere. Gli bevvero tutta la bottiglia di buon vino rosso e gliela riempirono poi di aceto, cosa che, ovviamente, lo fece andare, lì per lì, su tutte le furie. Ma erano scherzi, come si può ben capire, bonari e contenuti, oserei dire innocenti, e che avevano, Vašio lo sapeva bene, il solo scopo di cavarci sopra due risate in compagnia.
Al momento giusto nessuno, io credo, ha mai voluto ferire Vašio facendolo sentire diverso dagli altri.
Valga in proposito quanto mi raccontò sempre mio zio Pipẹñ. Stava lavorando con lui in campagna, ma mio zio ed un paio di amici avevano già deciso di interrompere un po’ prima il lavoro essendo loro, i bei giovanotti, invitati a San Bas-cian, la sagra di Lavezzola. Dovevano assolutamente andarci senza di lui, senza Vašio, ma come dirglielo senza ferirlo?
Si inventarono così, di punto in bianco, un lavoro improvviso ed improrogabile. Fu proprio lui, Pipẹñ, a dire: «Chi a j stal a ‘ndê a carghê dal bàl d paja? [Chi ci sta ad andare a caricare delle balle di paglia?]».
Vašio a quel punto si fece da parte ben volentieri e così i bei giovanotti poterono andare a Lavezzola con la coscienza a posto e senza impermalire il nostro Vašio in alcun modo.
Ciao buon Vašio, caro amico di tutti noi, e grazie per tutti i bei ricordi che ci hai lasciato.
La foto risale forse agli anni ’70 e ritrae il Vašio che tutti ricordiamo. Calza l’immancabile cappello, ai suoi lati due avventori. Quello a sinistra è Veduti Antonio (Furmaiéñ), papà di Veduti Paola, quello a destra nella foto è invece Zanghirati vëc, papà di Luciano ed Edgardo.I tre sono in zona controllo-biglietti, sbarrata da una fila di sedie, verosimilmente in una serata in cui il Cinema Tebaldi si trasforma in sala da ballo. Il cartello intima: « E’ severamente vietato uscire senza avere strappato il biglietto d’ingresso… è permesso il rilascio di contromarche»
[1]Agide Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006, pp. 103-108
[2]Agide Vandini, La valle che non c’è più, op.cit., pp. 29-34.
[3]Agide Vandini, Bëli armunëi, Faenza, Edit, 2001, p. 28.