domenica 23 maggio 2010

Siamo europei, ma...

E’ bšogna magnê un sàc ad sêl insèm, prema d cgnòsar òñ

(Bisogna mangiare molte moggia di sale con una persona prima che la si possa conoscere)

di Agide Vandini


ai tanti amici ed ex colleghi che si ricordano di me

e che vivono e lavorano tuttora nei paesi della nostra bella Europa



Ebbene sì, ci sentiamo ormai tutti sulla strada dell’integrazione europeo - occidentale, coinvolti nel processo di unificazione del vecchio continente che vede interessata giocoforza la nostra terra.

L’Unione Europea che si sta costruendo appare in grado di far compiere, alle nazioni che la compongono, nuovi progressi in campo economico gettando le basi dell’auspicata convivenza pacifica fra i suoi abitanti, scrivendo la parola “fine” su competizioni che, in passato, furono conflitto aperto e causa di incomprensioni fra popoli vicini.

Tracce di un antagonismo quasi ancestrale sono ancora presenti nelle storie che si raccontano in Romagna, storie e detti oggi conservati in quel prezioso registratore delle nostre memorie che è il dialetto. Proviamo a riscoprire, con tanta voglia di scherzarci sopra e con un poco di sana ironia, questi interessanti reperti.


* * *


Cominciamo col ricordare che qui, nelle terre della bassa Romagna è stato sempre difficile il rapporto con le genti di lingua germanica, un rapporto animato da reciproca diffidenza che, in tanti anni di storia, ha registrato spesso lo scontro dei nostri popolani con gendarmerie e governanti di quella lontana provenienza.

Si può dire, con molta grossolanità, che, fin dai Sacri Romani Imperi, dalle medievali lotte per le investiture e via dicendo, dalle odiose pretese egemoniche degli Asburgo in età Moderna fino al detestato Cecco Beppe, per giungere fino alla fosca presenza delle armate hitleriane nell’ultima guerra, sia stato sempre molto sofferto il rapporto con questi tudès-c, in altre parti d’Italia definiti crucchi, qui chiamati, non si sa per quale oscura ragione, semplicemente: Tugnèñ o Tugnì[1].

Grazie al lodevole processo d’integrazione europea, certe reciproche diffidenze fra romagnoli e germanici sono andate fortunatamente scemando, i matrimoni misti appaiono in crescendo e negli anni più recenti si è anche imparato con pazienza ad apprezzarci e a stimarci l’un l’altro, vuoi cuocendoci al sole nelle spiagge dell’Adriatico, vuoi condividendo con ardente passione i trionfi di Schumacher, il tedesco volante della Ferrari.

Ora che, coi tudès-c, sembra si voglia rivaleggiare soltanto nei campi di pallone, nessuno se ne avrà a male nel ricordare un paio di maledizioni dialettali da tempo consegnate alla storia.

A Ravenna si conserva ancora una rima ottocentesca, tramandata fino a noi, che cominciava pressappoco così: i tudès-c par Ravèna, i-s mẹt a fèr i bùl / con i baffi di Radéschi ci vogliam stropare il cul...

A Ferrara dove, più o meno in quello stesso periodo, le armate teutoniche dominavano minacciose dalla fortezza oggi distrutta, si diceva fra la gente del popolo: se i tedeschi non sgombran la fortezza, / farem tanta zuzeza / che i brigànt i s la magnarà... (Faremo tanta salsiccia e i briganti se la dovranno mangiare...). Finita la Guerra d’Indipendenza e con essa l’occupazione austro-ungarica, si inneggiò per giorni alla partenza di questi soldati, con una rima dal contenuto piuttosto sprezzante: Quando i Todeschi partirono da Ferrara / si fecìan la bara / per farsi seppellir. / Viva Radéschi / còt in pignata, / fiòl d’una vaca / ac brod ch’al farà...[2]

Astio antico dunque, a stento dimenticato, di cui riaffiora qua e là qualche altra piccola traccia linguistica. Se qualche scapestrato, ad esempio, un po’ testardo od ostinato di carattere, viene chiamato in terra di Romagna Žarù o Zarọc (termine che ha preso il significato di un ceffone bene assestato), c’è una ragione ben precisa, eppure non tutti sapranno che questo termine zarọc, ancora comune nel filese, deriva dal comando perentorio ed intimidatorio che impartivano le gendarmerie tedesche di stanza in Italia, ossia: « Zurück! (indietro!) ».

A questo proposito voglio ricordare un significativo episodio che accadde a Milano intorno al 1848, negli anni delle ben note Cinque Giornate e delle barricate per le strade.

In piazza Sant’Ambrogio un ufficiale austriaco nell’intento di istruire i suoi soldati ebbe a lanciarli in una carica contro cittadini inermi, con tanto di attacco alla baionetta, al che, i poveri italiani, davanti a tanto impeto, si misero a correre all’indietro a più non posso per non venire trafitti.

Purtroppo, correndo all’indietro, essi si ritrovarono un alto muro alle spalle e arrestarono la corsa. A quel punto i soldati tedeschi, secondo istruzioni, continuarono ad incalzare impietosamente il popolo in fuga, fino a che davanti all’assembramento, si allinearono perfettamente ordinati fronteggiando la folla. Giunse subito alla testa dei soldati uno zelante graduato, che ordinò autoritario ai milanesi intrappolati: «Zurück! (indietro!)».

Uno fra i popolani più animosi tentò di fargli osservare: «Ma c'è il muro...».

Fu lì, con l’acume e la fermezza tutta teutonica, che il graduato, che non poteva certo farsi contraddire dal primo subalpino che gli sbarrava la strada, urlò: «Zurück, tu e muro...»

Ecco come si spiega certa capacità espressiva del dialetto romagnolo ed anche la lunga persistenza del termine ...



* * *


E’ un tipo d’astio o di incomprensione, questa, che non si riscontra nei confronti di chi nel tempo antico sventolava bandiera francese, altra soldataglia avuta spesso fra i piedi e che, in fondo, non fu tanto diversa in fatto di pretese egemoniche sulla penisola.

Sarà per lontane affinità etniche, per retaggi risalenti alla presenza in Romagna dei Lingones (celtici provenienti dalla regione transalpina di Longres), per favori alto medievali dei Franchi al papato (di cui la Romagna era così importante espressione), sarà, infine, per la parentela linguistica dovuta alla latinizzazione Dioclezianea, fatto sta che verso i cugini d’oltralpe si è sempre avuto, nelle nostre terre, un particolare occhio di riguardo.

Ai pettoruti francesi i nostri avi guardarono con una simpatia a volte irragionevole, tanto da passar sopra a torti non piccoli, ad angherie perpetrate alle nostre comunità in particolare con le invasioni e le depredazioni napoleoniche. Ogni risentimento deve essersi disperso nel vento liberale degli anni di Risorgimento che scossero l’Italia.

Non tutto è dimenticato, chiaramente. Nella memoria incancellabile costituita dalla lingua popolare, troviamo ad esempio segni inequivocabili di avversione verso l’elemento celtico, segni e modi di dire che paiono risalire alle lontane occupazioni del territorio che si ebbero fra il IV ed il III secolo a.C. Ricordiamoli: e’ piò bòñ di’ rọs e’ mazè su (il migliore degli uomini di pelo rosso uccise sua madre), oppure ad pél rös u n’è bòñ gnènch i vidẹl (di pelo rosso non son buoni neppure i vitelli) e anche èsar lóv com un gàt rös (esser golosi come un gatto rosso)[3].

Fa ancora riflettere un detto dialettale, in auge a metà Ottocento, secondo cui aviês a la franzéša definiva l’atteggiamento di chi se ne andava senza salutare, testimonianza forse della delusione cocente provata quando i portatori del nouveau regime se ne partirono con carrettate di opere d’arte e quattrini ottenuti con arbitrarie imposizioni al clero ed al ceto borghese, al quale ultimo lasciarono in cambio ottime idee liberali e, a prezzo d’occasione (ah, i soliti “pochi, maledetti e subito”...), tante terre confiscate alla chiesa[4].

Si sa che il vento della storia cambia velocemente e fu così che i nipoti di questi voraci «cugini», ovviamente in cambio di consistenti concessioni territoriali, si dimostrarono assai decisivi nel raggiungimento dell’Unità e dell’Indipendenza della nostra Nazione. Forse fu per questo, più che per altre ragioni, che i francesismi si diffusero pacificamente nel nostro dialetto[5].

D’altronde dobbiamo tener conto che, a quell’epoca, il latino aveva ormai fatto il suo tempo e che, fra i ceti intellettuali, per parlare in ir o in or ossia per sofisticare, cavillare, stare alla moda, si doveva per forza parlare francese, una moda oggi soppiantata dall’inglese o, meglio, dall’americano, lingua dei conquistatori contemporanei.

Torniamo però a quei primi contatti con l’occupatore francese di oltre due secoli or sono, esaminando le tracce piuttosto singolari tuttora presenti nel nostro dialetto, tracce che vanno spiegate ed analizzate a dovere.

Cominciamo subito da i du d’agost, termine con cui vengono talvolta qui definiti, sia pure in modo ironico, i testicoli umani.

C’è poco da scherzare, sembra davvero che questa espressione risalga al periodo dell’occupazione francese di fine Settecento. A quell’epoca, a differenza di quanto avviene oggi con le bizzarre mode correnti (si pensi ad esempio ai nostri ragazzi col cavallo dei pantaloni all’altezza delle ginocchia …), la soldatesca d’oltralpe indossava calzoni bianchi molto attillati e il loro ferreo regolamento prevedeva addirittura che, il rigonfiamento in corrispondenza dei genitali, andasse portato rigorosamente a sinistra.

Si sa che in ogni lingua, questa parte anatomica maschile, non ha mai avuto un termine lindo, educato e da Accademia della Crusca, sicché non c’è da meravigliarsi se la soldataglia transalpina definiva allusivamente i testicoli, anche conversando coi romagnoli, con la metafora: les deux a gauche (i due a sinistra).

Fu così che, quando i nostri avi tentarono di comprendere e biascicare la suggestiva espressione transalpina, essa, nella nostra fonetica, suonò così: le-de-a-gös; da quel tempo lontano, i testicoli in Romagna, sottolineo, soltanto in Romagna, sono diventati: i du d’agost ... (il due di agosto...).

Che questa lingua francese poi, nonostante le apparenze, non fosse facile da šbruchê (tradurre, decifrare) neppure con tutta la benevolenza dei romagnoli, lo si può facilmente dedurre da quanto capitò ad Imola, in piazza, al tempo in cui si faceva la prima conoscenza dei soldati napoleonici in libera uscita.

Si dice che un circospetto giovane soldato francese si sia rivolto, con qualche garbo, ad un’anziana venditrice di còcal (noci) instaurando con lei un dialogo piuttosto serrato.

Interessato alla merce esposta, lo straniero chiese con curiosità:

«Comman s’appelle?» (Come si chiama?)

L’anziana romagnola, in piedi dietro al banchetto, rispose in dialetto, ossia nell’unica lingua da lei conosciuta, con un tono un po’ burbero, quasi risentito:

«La n s péla miga, la s’amaca …» (Non si sbuccia affatto, la si ammacca …)

A questo punto il galletto transalpino, che non aveva capito proprio un accidente di quanto proferito a voce alta dalla popolana, chiese lumi:

«Comman…?»(Come…?)

E la nostra signora un po’ spazientita:

«Mocchè cun al man, al s’amaca cun e’ martêl…» (Macché con le mani, bisogna ammaccarle col martello ….)

Piuttosto scoraggiato, il soldato diede allora qualche segno di resa:

«Je n’ai pas compris…» (Non ho capito nulla …)

Stavolta finalmente la venditrice di noci gli rispose in tono tranquillizzante:

«L’è l’istès s’a n li cumprì…» (Non importa se non ne comperate …)

Ormai comunque il ghiaccio era rotto e la signora rinfrancata si rivolse allegramente ai passanti locali commentando:

« Va pu là, almènc adës cun sti franziš a s’intindèñ un pô mèj. Prema, cun chi tudès-c u n s’acapéva gnit…» (Vivaddio, adesso con questi francesi ci si intende un po’ meglio, prima con quei tedeschi non si capiva nulla …).


* * *


Qualcosa di simile capitò, un secolo e mezzo più tardi, anche al fornaio filese Iàcum d Rös (Giacomo Rossi), un vero specialista nella conduzione delle quadriglie di moda fra le due guerre, un tipo di ballo di gruppo in cui i comandi dovevano essere dati rigorosamente in francese.

Naturalmente la dizione di Iàcum era approssimativa, come quella degli altri campagnoli che assolvevano quel compito. Era quindi molto frequente udire nelle feste paesane comandi come: «A’ la place, à dancer» trasformati in ruspanti e maccheronici a-la-plas balansé....

I ballerini nostrani comunque non badavano a queste cose. Avevano ormai assimilato i termini ritenuti francofoni e sapevano bene come comportarsi, soprattutto poi se a dirigere le operazioni c’era un bravo conduttore come Iàcum che dispensava i comandi con attenzione e diligenza.

Ci fu un solo equivoco, una sera in cui i ballerini della quadriglia erano tutti novizi. Gli accorsi in sala avevano abbondato nel consumo di ceci lessati svuotando tasche come sempre ben fornite. Col trascorrere delle ore avevano sgusciato chili e chili di legumi fino a che si era formato, sul pavimento della sala danzante del Palazzone, un discreto strato di bucce giallastre.

Dopo aver dispensato le prime elementari direttive alla quadriglia, quella sera il buon Iàcum lanciò, improvviso e perentorio, un comando che i neofiti non avevano mai udito fino ad allora, ovvero: a gós (a gusci...), una istruzione che, dizione a parte, voleva significare a gauche (a sinistra). I ballerini invece, nella foga e fra la sorpresa dei presenti, si gettarono di colpo a terra e si diedero alla raccolta delle sottili bucce di ceci...

Oggi chissà se ci si inginocchierebbe ancora per terra... Le bucce di ceci lessati non giungono più fino alle sale da ballo e lì il francese non va neppure più di moda, soppiantato ingloriosamente dallo spagnolo e dall’inglese, lingua, quest’ultima che spopola ormai dappertutto.

Già, è vero, ci sarebbero anche inglesi e spagnoli fra i grandi popoli che oggi abbracciamo come fratelli, ma qui i contatti in passato non furono altrettanto sofferti e nelle antiche storie che si raccontano, così come nel nostro linguaggio popolare, le tracce appaiono meno significative[6].


* * *


Dopo la scherzosa rassegna, c’è però di che essere fiduciosi. Ormai, moggi di sale, per restare al vecchio adagio popolare, se ne sono già consumati parecchi, e tutti assieme, nella famiglia europea. A braccetto con tedeschi, francesi, spagnoli, inglesi e chi più ne ha più ne metta, i romagnoli si sentono già a loro agio.

Il senso d’appartenenza ad una comunità più grande qui non manca. Perché si vada d’amore e d’accordo coi rumagnùl basterà un po’ di riguardo, considerato che noi, con le lingue, prima o poi troviamo familiarità...

Piuttosto, e credo di interpretare un sentimento largamente condiviso: se si vuole conservare l’amicizia dei romagnoli è meglio evitare che, con questa Grande Europa, ci vengano di tanto in tanto presentati, da chiunque e con non importa quale lingua, i cónt ad Fašulẽñ...[7]



[1] Per qualche misteriosa ragione i diminutivi o gli accrescitivi di Antonio assumevano un tempo nel nostro dialetto significati quasi sempre canzonatori. Tunin ad bêla grazia era un tipo un po’ leggero di testa, che si pavoneggiava a sproposito. Tugnòñ invece, valeva per minciunàz, ossia una particolare fattispecie di sciocco o pollastro.

[2] Queste testimonianze popolari sono riportate in :* Guida ai misteri e segreti dell’Emilia-Romagna, Milano, Sugar, 1987, pp. 200 e 461.

[3] Si potrebbe forse aggiungere ancora: ad cavel rọs, da Crẹst in qua, u i n’in fò gnànc òñ di bòñ, ossia coi capelli rossi, da Cristo in poi, non ce ne fu neanche uno buono.

[4] C’è poi un antico modo di dire riportato dal Morri andèr a la marôda, ossia andare sbrancato, andare cioè da parte dei soldati alla depredazione in danno dei paesi che attraversano. Pare si tratti di una espressione arrivata in Romagna con le armate napoleoniche alla fine del ‘700 e palesemente derivata dal francese maraude, «saccheggio», da cui aller a la maraude, saccheggiare, razziare, un detto che risalirebbe al XVII secolo (Cfr, A.Morri, op. cit., p. 474 e G.Casadio, Marôda e Patanlér, «La ludla», 6, VIII, 2004, p.8)

[5] Su questi francesismi esistono ricerche e ricercatori specializzati. Sono ben noti ad esempio: paltò, avtura, cumò, canapè, cumudèñ, bidèt, chaffeur, parure, tirabuchon, gilet ma si potrebbe proseguire a lungo. Ecco appena qualche curiosità. Da molte parti il carciofo viene detto articiòc (in fr. artichaut). Lavorio, elaborazione, si definisce in dialetto travaiament (dal fr. travailler). Interessanti anche alcuni termini della nostra tradizione culinaria come il fricò, dal fr. fricot (manicaretto, ragu) per finire col latbrulè, il nostro dolce tradizionale ovvero lait brulé, latte bruciato. Contrariamente a quanto molti credono deriva invece dal latino il termine romagnolo che definisce le forbici, ossia al tušùr, da tonsus pp. di tondere, tosare, radere) e non dal fr. toujours derivante dall’unione delle parole tout-jours.

[6] Il solo riferimento all’inglese che viene in mente appare piuttosto scarno. Si tratta del vecchio termine dialettale inglišê, in disuso per fortuna, che qui in Romagna indicava un tempo il macudê, ossia l’atto di mozzare le code.

[7] Si usa definire così i conti che lasciano perplessi. Il modo di dire sembra derivare dal teatro delle marionette e, precisamente, da un episodio in cui Fašulèñ e Šganapèñ dovevano dividersi in parti uguali un gruzzolo di monete. Fagiolino iniziò a contare prendendo fuori dal sacchetto le monete una per volta: «Öna a mẹ, öna a tẹ e öna a mẹ. A vala bèñ acsè?» (Una a me, una a te e una a me. Va bene così?). Lo sprovveduto Sganapino rispose convinto: «Benésum...» (Benissimo...). Fagiolino proseguì alla grande, ripeté più volte la sua domanda continuando a mettere nei due mucchietti le monete col candido consenso del compare. Quando, alla fine della conta, il povero Šganapèñ si accorse che Fašuleñ aveva un numero di monete esattamente doppio del suo, ormai era troppo tardi per contestare il metodo …



sabato 15 maggio 2010

La simpatia innata di Sintòñ


Un personaggio filese da non dimenticare

di Agide Vandini



L’ho sempre visto sorridente Sintòñ, ovvero Sante Berti, soprattutto quando, dalla strada ghiaiata salutava mia madre di cui era lontano cugino, al passaggio in bicicletta davanti a casa nostra.

Andava di buon passo allora, diretto all’osteria dove, in compagnia di altri amanti del buon vino amava stare in compagnia e darsi qualche bel “pugno sotto il naso” come berciava spesso mio padre.

In uno dei racconti del mio ultimo libro, La valle che non c’è più, ho tracciato un bel profilo del personaggio ed ho in particolare raccontato l’esilarante storia dei due bottiglioni di vino che, al tempo della guerra, i tedeschi volevano confiscargli alla Bastia, bottiglioni di biondo tarbiàñ che difese da leone da quelle grinfie, e che finì per tracannarsi seduta stante, e per intero, pur di sottrarli al nemico[1].

Per paradosso, e contrappasso quasi dantesco, il buon Sintòñ perse la vita, qualche anno fa, ormai anziano, sprofondando in bicicletta nel familiare canalèñ, quello che costeggia il vecchio e primo argine circondario delle antiche valli. Amaro e singolare destino davvero quello di Sintòñ, così amante del vino, finito incredibilmente per annegare in poche braccia di acqua torbida.

Aveva avuto in assegnazione, qualche anno prima, un poderino in quei paraggi; si trattava di quattro palmi di terra di bonifica avuti con la riforma degli anni ’50 e da lì faceva ogni tanto le sue rapide incursioni in paese dove era da tutti benvoluto per la bonomia, il candore e la simpatia innata. Quando aprì il Ristorante-Osteria-Bottega in località Sant’Anna, egli ne diventò subito uno dei frequentatori più assidui. La foto l’ho avuto proprio da Armando Cervellati fondatore e creatore de “Il cavallino bianco”, ancora oggi in attività con l’intraprendente figlia Nadia, e che di tanto in tanto organizza una serata speciale con tanto di proiezione di vecchie diapositive per clienti ed amici, nel suo ristorante oggi ammodernato e ben avviato.

Sintòñ, qui in technicolor, lo vediamo in maglietta bianca, con la mano che si accarezza lo stomaco (oltre a quanto probabilmente ci ha appena messo dentro), ovviamente sorridente, mentre scambia due chiacchiere nel cortiletto che sta davanti al «cavallino bianco» con l’amico Bunëga.

Sono tanti gli aneddoti che lo riguardano e che ancora si raccontano a Filo, ma qui vorrei rammentarne uno solo, inedito, che testimonia dell’arguzia del simpatico contadino e pure di quel tanto di diffidenza ed ostilità verso l’Autorità che qui caratterizzava un tempo le classi più umili. Erano Autorità che, anche dopo la liberazione dai tedeschi, Sintòñ come tanti altri, sopportavano a fatica.

Ripresa la vita normale dopo la guerra, i Carabinieri presero a rivolgere metodici e asfissianti controlli alle biciclette della povera gente. A loro dire, mancavano sempre di questo o di quello, pareva alla nostra gente che i tutori dell’ordine, con linguaggio ed accenti forestieri e già anche solo per questo, arduo da comprendere, ostentassero persino un certo piacere nel multare e nel mostrare ai filesi le carenze regolamentari di un mezzo peraltro così necessario per spostarsi da un posto all’altro.

Si sentiva dire e lamentare dai paesani di multe inaudite, una volta perché mancava il campanello, un’altra volta il fanalino posteriore e così via. Lui, Sintòñ, memore ancora dell’esperienza dei famosi bottiglioni, non temeva tanto la multa, quanto l’apparire dell’ironico sorriso di compiacimento che avrebbe visto sulla faccia dei militi. Dopo le battute minacciose subite dalla SS e da cui si difese gloriosamente alla Bastia al tempo di guerra, non avrebbe mai più voluto vedere quel sarcasmo in faccia a nessuno, figuriamoci poi per quisquilie come una pandôra o una strésia žala int i pedél…[2]

Fu così che, colto da buona ispirazione e per togliersi una volta per tutte ogni pensiero, lui in genere assai trascurato e semmai affezionato a ben altre cose di questa vita, andò ligio ligio dal meccanico, e gli raccomandò di mettere in ordine la bici di tutto punto.

Da quel giorno, non ebbe più preoccupazioni, anzi: ogni volta che veniva fermato dai gendarmi, e capitava spesso, dava, con una punta di compiacimento, questo tipo di piccata risposta: «A putì fê d mènc ad farmêm cun la bicicleta, parchè mẹ, par freghêv, a žir in régola...» (Potete fare a meno di controllarmi la bicicletta, perché io, per beffarvi, giro in regola …).



[1] Si veda, nel testo citato, il brano Spugne di varia categoria.

[2] La pandôra è il fanalino posteriore che ricorda la forma e il colore dell’ortaggio e le strisce gialle sui pedali i prescritti catarifrangenti.