domenica 9 maggio 2010

Gioventù filese nella golena del Po

Come ci si divertiva oltre mezzo secolo fa

di Agide Vandini


Filo è un paese nato e cresciuto sulle rive del Po. La strada provinciale che lo attraversa da ovest ad est per parecchi chilometri altro non è che l’argine sinistro del vecchio Po (di Primaro) che, al suo fianco, ha portato al mare le acque del nord Italia per almeno un millennio. Il fiume fu spostato dal suo letto verso sud di un paio di chilometri, nel tratto Bastia – Longastrino, a fine Settecento e il nuovo corso, nel quale era stato fatto confluire il Reno, prese allora il nome di Po Nuovo per distinguerlo dal Po Vecchio, ridotto a poco più di un rigagnolo e che sopravvisse per pochi decenni come canale di alimentazione del Mulino di Filo. Soltanto alle soglie del Novecento il fiume nuovo, ormai dotato di argini altissimi e possenti, si cominciò a chiamarlo Reno. Ovviamente la nuova denominazione riguardò sempre e soltanto le carte geografiche, perché per la nostra gente, il fiume era ed è rimasto tuttora «il Po», o meglio senza articolo alcuno, tanto esso è sempre stato familiare e parte essenziale della vita paesana.

Così, qui si è sempre detto a vëgh a Pö (vado al Po), a m bọt in Pö (mi butto in Po), l’êržan d Pö (l’argine del Po). In certe profonde e significative espressioni dialettali il grande fiume ha sempre avuto una parte importantissima. Si diceva, ad esempio, che e’ pòpul e’ tira avënti, parchè l’aqua d Pö la vẹñ žö l’istès (il popolo tira sempre avanti in qualche modo, poiché l’acqua del Po vien sempre giù lo stesso). Ci si faceva, insomma, coraggio nei tempi grami, rincuorandosi con la risorsa vitale che alimentava il vecchio Molino di Filo, il più importante della zona. Una fonte energetica ed alimentare, , di enorme significato da sempre, per la gente rivierasca, sia in termini filosofici che pratici.

Si diceva poi che l’aqua grösa in Pö e la pöta di’ sachéri la n pö durê (la fiumana nel Po e l’altezzosità dei prepotenti non può durare per molto), un detto che racchiude in sé sete di giustizia e insofferenza per le angherie dei potenti, e che fu sempre caro al buon Méto Tirapani, un filese d’altri tempi da me ricordato in diverse occasioni, con particolare piacere, nei racconti dedicati alla gente caratteristica del mio paese.

Il fiume dunque per i filesi fu ancora per molti anni un cardine, un punto di riferimento, anche dopo il suo allontanamento, fino a che, qualche decennio or sono, col boom economico e tecnologico, si è cominciato a vivere in una dimensione più ampia, in un mondo che è apparso ormai senza confini, in una «globalizzazione» e in un paese dei balocchi, che sembra non saper più che farsene, o quasi, delle antiche acque che scorrono ancora a pochi passi dall’abitato.

A dire il vero gli argini, la golena, il fiume, sono tuttora meta di brevi passeggiate, a piedi e in bici, soprattutto da parte di anziani in tuta e in ansia da colesterolo che, con la scusa di fare un po’ di movimento fisico, ogni tanto fanno una capatina al vecchio fiume. Giovani però non se ne vedono più, a differenza di quanto avveniva fino a mezzo secolo fa, quando il fiume era frequentato più o meno da tutti.

In età infantile ci si andava a piedi, in passeggiata, accompagnati dai maestri nei mesi di primavera e ci si ritornava a fianco delle madri e della carriola con tanto di scanno e bucato da risciacquare, evitando in tal modo di doversi procurare mastelli e mastelli d’acqua al pozzo o alla fontana. Ci si andava in gruppo da ragazzini in bici per raccogliervi e’ lègn dölz, ossia i bastoncini di liquirizia che abbondano lungo le rive, mentre, per i giovanotti il fiume era meta agognata di incontri d’amore e nei mesi estivi, la domenica, e nel dopolavoro, vi si godeva il refrigerio di acque fresche e corroboranti. Per gli anziani, poi, la golena era luogo familiare ed abituale (senza tuta …) di caccia, di pesca, di raccolta di tartufi, di giunchi come la gažìa usata per sostenere i pomodori, di legna e arbusti d’ogni genere con cui ricavare manici di scopa, attrezzi agricoli e quant’altro.

Pericoli ovviamente ce n’erano, le mamme si appellavano alla prudenza, soprattutto si raccomandavano di evitare nel modo più assoluto il terribile bùš Chécul, un angolo di fiume in cui l’acqua faceva minacciosamente e’ pidariôl (il gorgo) e dove non si sapeva quante disgrazie fossero avvenute in tempi passati.

La voglia di divertirsi però era tanta, la riviera Adriatica e i luoghi di villeggiatura assai lontani, i mezzi di locomozione privilegio di pochi, sicché, in quel mondo piccino a portata di bicicletta, la gulena d Pö offriva ai nostri giovani tutta la sua natura selvaggia e incontaminata. Le rive e golene ricchissime di sabbia della Chiavica di Legno, alla confluenza del Santerno, si riempivano nei giorni di festa di gente di tutte le sponde e nel grande fiume i giovani filesi imparavano poco alla volta a nuotare, a fare la “traversata”, a tuffarsi, a sfidare (ci mancherebbe) persino le profondità misteriose del bùš Chécul, considerate ben quàtar ọman drẹt (quattro uomini in piedi). Lì nell’anfratto del fiume dirimpetto al paese e alla casa contadina di Dolfo d Chècul, il re indiscusso pare fosse un tuffatore come e’ Garzòñ, ovvero il compianto Alceste Fuschini.

Le foto che qui ho la possibilità di pubblicare le devo a Falco (Bruno Folletti). Le ho provvidenzialmente recuperate col Photoshop e corredate di didascalia su sue precise indicazioni. Risalgono al dopoguerra, ai primi anni Cinquanta. Alcuni dei protagonisti ci hanno ormai dolorosamente lasciato, chi da poco: Medardo Tirapani (Jorky), Ermanno Leoni (Gali), chi da tanto: Emanuele Barbieri (Žabòv).

Le immagini in bianco e nero, scattate con macchinette economiche dell’epoca, raccontano di una generazione di giovani attratti ed affascinati in particolare dal mondo di Hollywood, da romanzesche avventure che apparivano loro quattro sere la settimana al glorioso Cinema Tebaldi. Era tutta la «modernità» di cui si poteva disporre a quel tempo e la fantasia veniva colpita soprattutto dai westerns alla John Wayne e dalle avventure di Tarzan. Proprio a quest’ultimo pare ispirato il giovane Jorky dotato di un notevole phisic du rôle, in foto che poi conservò tutta la vita e nelle quali si propone come giocoso epigono filese.

Se la qualità delle immagini lascia piuttosto a desiderare, le pose invece, assai variate e fantasiose, compongono un quadretto simpatico di giovani di campagna che, senza piscine, palestre, videogames, telefonini, camper, curve nord e sud, si divertono da morire a due passi dal loro paese. Guardandole oggi e specchiandoci nell’ansiosa e pensierosa vita di questo inizio millennio, non può che coglierci grande e struggente nostalgia di quei tempi, di quello spiccato e diffuso senso dell’epos e soprattutto di un’età di speranze e sogni giovanili, che, ahimè, nelle generazioni che si succedono paiono definitivamente dissolti e perduti, quasi che il grande fiume se li sia volutamente ingoiati, trascinandoli, impermalito da tanta improvvisa disattenzione, nelle profondità buie e gorgoglianti del famigerato bùš Chécul.


Cliccare sulle immagini per vederle nel formato originale


Jorky (Medardo Tirapani) sulla «liana» che permetteva di lanciarsi fin quasi a metà del fiume.


Jorky sorregge Cianì (Luciano Salvatori)


Scontro di guerrieri armati di lancia. Jorky è di spalle.


(foto sopra) Jorky trafigge Žaböv (Emanuele Barbieri). Gli altri, da sinistra, sono: Luciano Montanari (Ciàñ o Bogart), tre ragazzini non identificati, Gali (Ermanno leoni), Gardòñ (Edgardo Coatti). Accosciato un ragazzo non identificato.


(foto a sinistra) Dall’argine che sovrasta il Bùš Chécul il gruppo di nuotatori sta lanciando Pippo de’ Göb (Giuseppe Ghiselli). Al centro lo sorregge Jorky. Brandisce il pugnale la Föca (Luciano Belletti). Alla sua sinistra, a braccia aperte, Gali.

Tuffatori


Una scazzottata stile western simulata per il fotografo con l’abile tuffatore che si lancia in acqua di schiena.



Nessun commento: