martedì 29 dicembre 2009

E’ tempo di Tressette …

Trisët, Becacino (o Marafõ) e i suoi derivati in Romagna

di Agide Vandini




E’ da un po’ che volevo dedicare uno «special» a questo bel gioco con le carte romagnole ed ai suoi derivati, ripassandone regole, strategie, usanze e la tipica terminologia dialettale.

Dato il periodo di Festività e il clima invernale che favorisce le serate all’osteria, o trascorse in casa d’amici davanti a un bël bichìr d’Aibãna dólza e un piàt ad zucarẽn, sono certo che, qui e là, si rinnoveranno sfide e tornei in cui, la parte del leone, sarà riservata a questo gioco particolarmente amato dai romagnoli.

Riprendo allora, in buona parte, quanto scrissi nella rassegna dei «Giochi con le carte romagnole», in appendice al mio ultimo libro di racconti, ove ebbi a tracciare anche un po’ di storia delle nostre carte[1]. Qui ho pensato di accorpare le note al testo, di completarlo e dotarlo di qualche termine dialettale in più, il tutto trascritto nella fonetica tipica filese, grazie alla grafia romagnola da poco adottata nel blog.

Dalle nostre parti, come nell’imolese, il gioco è ancora chiamato, semplicemente, trisët. Così del resto lo definiva il celebre dizionario del Morri nel primo Ottocento: «Trisett, Tresette, gioco di carte notissimo che si fa per lo più in quattro»[2]. In quello stesso testo non si fa cenno invece ai termini Becacino e Marafõ, oggi comunemente usati nella Romagna centrale. Ad Argenta, poi, crocevia dialettale fra Romagna, ferrarese e bolognese, il gioco è curiosamente definito al Triònf, ossia «il trionfo», termine che, a quanto si dice, si rifà ad un antico gioco inglese (Triumph) che stabiliva la prevalenza di un seme sugli altri, e quindi padre di tanti giochi come la bẹs-cia (bestia), la Brẹscla (briscola) e, nondimeno, il «tressette con le briscole»[3].

Se oggi, comunque, i termini Becacino, Marafõ e Triònf relegano localmente il significato di Trisët ad una delle sue varianti (il «Tressette con l’accusa, o senza briscole»), nel filese e nella Romagna periferica, fedeli alla tradizione, questo gioco Trisët era, e Trisët è ancora. Tale rimarrà, io credo, finché il dialetto avrà vita.

Ecco comunque, in sostanza, come va condotto a casa nostra il gioco del Tressette e quello dei suoi derivati più comuni.


Trisët (cun al brèscul) detto anche Becacino o Marafõ

Il gioco, assai popolare ed appassionante, è di origine napoletana (sec. XVIII). Il termine tressette pare derivare da una originaria combinazione di tre sette che valeva tre punti.

Normalmente lo si gioca in quattro, a coppie, ma lo si può giocare anche in due o in tre. La classica «partita» all’osteria romagnola, secca o con l’ariùt (rivincita), si compone di una gara a trisët, di tre gare a Brẹscla e, infine, la bëla, se necessaria, ancora a tressette.

Il mazziere distribuisce dieci carte a testa, cinque per volta, a meno che non si giochi in tre, nel qual caso si danno tredici carte a testa scartando un quattro. Se i giocatori sono soltanto due, infine, si distribuiscono le classiche dieci carte, poi si attinge dal mazzo dopo ogni presa, mostrando sempre la carta all’avversario.

La gara si articola in una serie di manche che si susseguono finché una delle coppie raggiunge i 31 punti (41 nella «bella»). La forza delle carte, in ordine decrescente, è la seguente: tre, due, asso (Chêrt ad crẹca), re, cavallo, fante (al figùr), sette, sei, cinque, quattro (i scartẹñ). Su tutte, però, comanda il seme di briscola (e’ cartér) dichiarato dal giocatore di turno (ch’e’ mẹt al brèscul) e per la prima volta da chi possiede il quattro di denari. Il gioco prevede la risposta obbligatoria al seme giocato e la prevalenza della carta più alta.

Unica combinazione utile ai fini del punteggio è la crẹca d brẹscla (detta anche napoletana), costituita da tre, due e asso di briscola. Essa vale tre punti aggiuntivi e va mostrata all’inizio del gioco qualora sia posseduta di chi è di turno. Nel caso in cui questi non possieda, nel seme di briscola, alcuna carta nobile (quënd ch’e’ mẹt fura tọta), l’eventuale crẹca va dichiarata dagli altri alla prima giocata di briscola. I punti ordinari si contano nei rispettivi mazzi soltanto a fine manche . Ne vengono assegnati undici. Ogni punto, in sostanza, vale tre figure. Considerando che i due ed i tre valgono una figura e gli assi ne valgono tre, in palio per ogni manche vengono ad esserci 32 figure (10 punti + 2 figure). A questi punti si aggiunge l’undicesimo, assegnato a chi si aggiudica la mano finale (l’ùltma màñ).

Dal mazzo, proprio o altrui, si può sempre consultare soltanto l’ultima mano. Sono ammesse comunicazioni limitate e sincere fra compagni solo ad ogni inizio di mano (trisët l è e’ žùg di mọt ovvero, il tressette è il gioco dei muti. E’ ammesso il «busso» (a bọs, a bọs fôrt) per richiedere la miglior carta nel seme giocato allorché si ha una buona carta per andare in presa, lo «striscio» (a strẹsi, a strẹsi lòngh), per indicare il possesso di buone carte nel seme giocato (di solito l’asso) e il «volo» (a vùl), per segnalare che la carta giocata è l’ultima posseduta nel seme e che ci si predispone al «taglio», oppure allo scarico di un asso in pericolo. Fra amici si è tolleranti, ma quando si fa sul serio, parole e segni sono severamente proibiti fino a vietarsi anche le parole «busso», «striscio» e «volo». Si battono le nocche della mano destra sul tavolo nel primo caso, si striscia la carta nel secondo e si alza in aria la carta nel terzo.

Nelle strategie di gioco più comuni si tende ad assicurarsi l’ultima mano e ad impedire i «tagli» agli avversari, sicché si cerca di sottrarre loro le briscole fin dall’inizio. Avuto il comando del gioco (quënd ch’u s’è andé in preša) è fondamentale ricordare le carte già giocate, nonché i punti propri e altrui, in modo da potersi «chiamar fuori» all’occorrenza, appena raggiunto il punteggio che assegna la vittoria.

E’ importante altresì osservare la sequenza degli «scarti» del compagno. In questo linguaggio fondamentale per il prosieguo del gioco, si deve sapere, in primo luogo, che lo scarto dell’asso non costituisce mai indicazione di alcun genere. Se, poi, lo scarto è in risposta al seme di gioco e la sequenza è in crescendo (ad esempio, prima lo scartino, poi la figura) allora il compagno sta indicando il possesso di altre buone carte in quel seme. Se, invece, la sequenza è in calando (ad esempio, prima la figura, poi lo scartino) egli indica che in quel seme non ha carte di pregio. Se, infine, lo scarto avviene senza rispondere al seme di gioco, il giocatore, per dare indicazioni al compagno, scarta nel seme in cui si sente più debole.

Tornando ai comportamenti di chi ha l’iniziativa del gioco, allorché si ritrova in mano il «venticinque», ossia il tre ed il due dello stesso seme [4] e almeno altre due carte di quel cartér, egli dà sempre la caccia all’asso, anche per rinfrancare le proprie carte. Gioca perciò in successione, prima il tre, poi il due. Nella stessa situazione, ma con l’asso al posto del due, gioca invece una figura «bussando forte», intendendo invitare il compagno a ciapê e turnê. Se, infine, egli possiede soltanto il due, allora «bussa piano» indicando in tal modo al compagno che il tre è fuori, affinché si regoli e favorisca convenientemente il gioco.

Trattandosi di giocate in silenzio, va da sé che a fine ripresa non può mancare la spietata rassegna degli errori, delle valutazioni sbagliate, dei malintesi e delle circostanze sfortunate, in un gran ciarlare in cui si inseriscono solitamente gli spettatori presenti. Tutti danno fondo alla rituale e chiassosa esibizione di abilità strategica (col senno di poi …), in un fitto e talvolta spazientito botta e risposta, interrotto a fatica dal mazziere, quando questi intende ricominciare la partita e servire i giocatori per una nuova manche.


Trisët (sẹnza brèscul)

Rispetto alla versione appena descritta, le briscole qui non esistono. Si «accusano», invece, (ovvero si dichiarano) entro la prima mano, alcune combinazioni: la crẹca (napoletana) di qualunque seme, oppure il possesso di 3 assi, di 3 due, o di 3 tre, tutte situazioni che fruttano, ognuna, un valore di 3 punti. Fruttano poi un valore di 4 punti il possesso: di 4 assi, di 4 due, o di 4 tre. In questa versione del tressette, poco praticata in Romagna, si può parlare più liberamente.


Arvarsẹñ (Riversino)

Si gioca in quattro, con le regole del tressette, ma ognun per sé. Non vengono dichiarate le briscole, né si assegnano punteggi alle combinazioni di carte. L’obiettivo di ogni giocatore è far meno punti possibile. Si viene eliminati al raggiungimento dei 31 punti. E’ possibile arblês (ribellarsi) anche più volte all’eliminazione, pagando un caffè e ritornando in gara col punteggio più alto dei giocatori rimasti in gara. I punti in palio sono i soliti undici, ossia le 32 figure del tressette nonché l’ultima mano.

E’ una gara in cui si cerca di scartare appena possibile le carte da presa o da punti, ma occorre fare allo stesso tempo attenzione, poiché, se un giocatore si aggiudicasse tutte le prese e desse cappotto, si segnerebbero, solo a carico degli avversari, ben 11 punti. Si vincono i caffè pagati dai perdenti.


Trì-Ọñ (Tre contro Uno)

Pur deformato localmente in Triòñf con l’aggiunta di una «f» malandrina, il termine dialettale originario che definisce questo gioco impegnativo è proprio Trì-Ọñ, ossia Tre giocatori contro Uno.

Si gioca perciò in quattro, a titolo individuale, con le regole base del «tressette con la briscola». Si tolgono preliminarmente i quattro ed i cinque di ogni seme, in modo da giocare con otto carte a testa.

Chi è di turno può «chiamare» (fê una ciamêda), dichiarando il seme di briscola e sfidando gli altri tre al raggiungimento del punteggio maggiore di manche, ossia dei sei punti. Se, invece, valuta di avere carte non idonee, può passare la mano. La «chiamata» dà diritto ad uno scambio con altro giocatore di una carta stabilita dallo sfidante, il quale ne cede una delle proprie. Lo scambio ha luogo allorché nessun altro, consultato in ordine di gioco, è disposto ad assumersi un rischio maggiore «chiamando» carte più deboli, oppure, andando oltre la semplice ciamêda, rischia il di piò, oppure lancia la sfida più coraggiosa: il mêš.

Il giocatore che annuncia a fêg di piò (faccio di più) sfida gli altri tre con le sole carte servite. Chi invece è disposto al rischio massimo, e annuncia al tavolo a fêg mêš, oltre a giocare servito, dovrà aggiudicarsi, per vincere, tutti i sei punti prima che i tre avversari effettuino una sola presa.

Ognuno di questi tre tipi di giocata comporta un diverso premio al vincente e penalità al perdente, con punti ovviamente più alti a seconda del livello di rischio. Nella ciamêda vengono dati o tolti, a seconda dell’esito positivo o negativo, 3 punti allo sfidante ed 1 punto ai suoi tre avversari; nel di piò i punti diventano 6, mentre nel mêš addirittura 12. Se poi lo sfidante dà capöt, ossia gli avversari non realizzano neppure un punto (3 figure), i punteggi a scapito dei tre sfidati raddoppiano.

In concreto, comunque, lo sfidante di ogni mano vince o perde sempre il triplo, rispetto agli sfidati.

Considerate le mani ridotte a otto, e la quantità di figure disponibili, il giocatore esperto sa che la vittoria, sia con la ciamêda che con i di piò, si raggiunge con ragionevole sicurezza con cinque tiri buoni (inclusa l’ultima mano), sempre che si raccolga almeno un asso e si abbia in mano uno scartino per gli avversari.

Il principio base del gioco si può comunque riassumere così: le carte in mano allo sfidante s’agli è sgondi al veñz e s’agli è térzi al pérd, ossia le carte «seconde» vincono, mentre le carte «terze» perdono. L’espressione suggerisce che, nel calcolo dei potenziali tiri buoni, si deve sapere in partenza che qualora gli avversari abbiano un massimo di due carte a testa nel seme di briscola (e in quello in cui si vogliono effettuare le prese), le carte vincono. Al contrario, con una distribuzione anomala in cui, anche un solo avversario, avesse tre carte nei semi predetti, la sfida è normalmente persa.

E’ un gioco alquanto cerebrale e per esperti. Ogni punto in palio, qui ha un valore convenuto in denaro, sicché è meglio sconsigliarlo ai neofiti, i quali, non solo potrebbero ritrovarsi a fine gara con una perdita consistente, ma potrebbero trovarsi anche a mal partito per i danni che l’incompetenza e le giocate improprie sono in grado di causare involontariamente agli altri sfidati. Ecco perché i giocatori che lo praticano i fa e’ rudẹn, ossia formano dei quartetti fissi e ben collaudati che, nei momenti di gran voga del gioco, si aspettano e si affrontano ogni sera con passione. E’ un gioco di abilità che è interessante seguire anche come semplici spettatori-apprendisti, a patto naturalmente di osservare educatamente un giocatore alla volta e stare in rispettoso silenzio, evitando di importunare o innervosire i giocatori[5].


Questo è quanto io ho raccolto in materia, ma se c’è chi ha qualche contributo ulteriore da dare, o approfondimento da proporre è, come sempre, apertamente invitato ad utilizzare lo spazio commenti a sua disposizione, cliccando sul simbolo della matita ai piedi dell’articolo. Provvederò alle eventuali correzioni od integrazioni del testo qualora necessario.


Buon divertimento a tutti, allora, cun e’ Trisët. Io ringrazio per l’attenzione ricevuta in questi mesi e, a chiusura dell’annata, voglio porgere a tutti voi i miei migliori


auguri di un felice e fecondo Anno Nuovo !



[1] A.Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006, pp. 145-156.

[2] A.Morri, Vocabolario Romagnolo-Italiano, Faenza, Conti all’Apollo, 1840, p. 810

[3] *Grande Enciclopedia, Novara, De Agostini, 1973, XIX, p. 503.

[4] Le combinazioni vengono infatti definite con la somma dei punti di primiera, ossia: sette = 21; sei = 18; asso = 16; figure = 10; tutte le altre carte = 10 + il valore della carta (es.: il cinque = 10 + 5 = 15).

[5] Come già ebbi a scrivere nel mio libro già citato, devo ringraziare per le note relative al Trisët ed al Tri-Ọñ, il mio caro amico Tarapen (Gino Nanni), ottimo giocatore, a suo tempo davvero generoso di attente osservazioni e spiegazioni sulle strategie di gioco.