domenica 30 marzo 2008

E’ mi Signór…

Poesia di Angelo Minguzzi


Angelo d’Zizaron d’Masira, dopo la bella poesia dedicata al Natale qui pubblicata, in occasione della Pasqua ci manda questa bella composizione e tiene a precisare: «non sono un gran cisarolo, ma a Natale e a Pasqua vado a Messa, da buon romagnolo, che fa anche rima…».

E’ molto bella, semplice ed allo stesso tempo ha toni lievi e delicati. Riflette, in particolare in quel passaggio dal Voi al Tu, una ricerca di conforto, una religiosità profonda che si intuisce ancor più dal «sentire» la preghiera nel dialetto amato, nel linguaggio, quindi, più squisitamente intimo (Agide Vandini).

DOMINE NON SUM DIGNUS

E’ mi Signór al sö che me a-n sö degn

d’magnê a la Vostra têvla mo s’avlì

l’è abasta che a fašiva sól un segn

che la mì ânma la putrà gvarì.

Che me a-n sö degn al sö, parò s’u-V pê

Vo la mi ânma...Te t’la pu salvê.

DOMINE NON SUM DIGNUS

Signore lo so che non sono degno

di mangiare alla Vostra tavola ma se volete

basta che facciate solo un segno

e la mia anima sarà guarita.

Che io non sono degno lo so però se Vi pare

Voi la mia anima...Tu la puoi salvare.

Una foto, una storia (2)

La vecchia marmora delle valli

di Agide Vandini

Nelle vecchie mappe delle nostre valli del Mezzano c’era un punto che segnava un confine, o forse sarebbe meglio dire una frontiera, al di là della quale iniziava la competenza delle guardie comacchiesi, una presenza oppressiva che vietava ogni tipo di raccolta, dal sale alle anguille. Era il «Termine detto la Marmora» ed era contrassegnato all’interno del bacino vallivo da un enorme pietra marmorea conficcata sul fondo della valle, parte della quale svettava al di fuori delle acque.

Vi si leggeva R.C.A, ovvero Reverenda Camera Apostolica ed una data: 1769, l’anno in cui l’istituzione pontificia aveva posto quella pietra invalicabile, alla fine di una lunga controversia coi proprietari del Molino di Filo (o Filvecchio), controversia che infiammò tribunali, estensori di carte bollate e non solo, se è vero che ad inizio ‘700 i comacchiesi giunsero persino a mandare gli austriaci ad incendiare il Molino del Bentivoglio ed a portar loro in trionfo le macine tanto osteggiate. Fu una lite, quella degli eredi Bentivoglio coi comacchiesi e con la Santa sede che durò secoli, intorno al diritto di scarico in valle delle acque dolci e dei diritti di pesca nel canale del Molino[1].

Dopo il prosciugamento della valle del Mezzano a metà degli anni ’60 la «marmora» finì sotto il pagliaio di un contadino e da lì andò a prelevarla, con tutta la sua buona volontà e l’amore per le cose di un tempo, il nostro Vanni Geminiani che ora la tiene amorevolmente davanti ad una delle porte di casa.

Adesso è davanti agli occhi di tutto il paese, la vecchia «marmora», anche se pochi ne conoscono il significato e la funzione tanto importante che rivestì per secoli. Molti la scambiano per una strana panchina piazzata lì per chi voglia godersi l’ombra del pomeriggio in estate, oppure per far da comodo appoggio per le bici.

Quando, una ventina d’anni fa, la gru scaricò con difficoltà questa pietra di sei quintali e mezzo ai piedi della discesa di Via G.Mezzoli, Vanni ebbe però la sorpresa di udire un urlo ed un’invocazione inaspettata. «La mia marmora, è la mia marmora…»

Era la vecchia Nurata, che allora abitava nell’adiacente Cà Longa, che non aveva saputo trattenersi; lei che da bambina aveva vissuto ai margini della valle. Si era emozionata alla vista, dopo tanti anni, della pietra verso la quale si era diretta tante volte in barca col padre, o con altri ragazzi come lei, anche soltanto per raggiungerla quasi per gioco, per toccarla come si fa con le grandi conquiste e tornare a riva.


[1] Chi volesse documentarsi o approfondire tutta la storia della controversia e comprendere meglio i motivi di contrasto fra gli abitanti dell’antica riviera di Filo e gli interessi comacchiesi può consultare A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza Edit, 2004 ed in particolare i capitoli 6 (I contrasti con la vallicoltura comacchiese) e 17 (I molini di Filvecchio, dal Cinquecento ai giorni nostri)

lunedì 24 marzo 2008

Romagna turbolenta - La signoria dei Da Polenta

di Paolo Canè

Per il territorio dell’antica «Riperia Fili» la storia dei ravennati Da Polenta riveste un particolare interesse storico. I Polentani, che furono fra il Duecento ed il Quattrocento i Signori di Ravenna, ebbero grandi possedimenti in questa parte della Romagna, accumulando alcune migliaia di tornature di Valli pescherecce nei pressi di Filo e di Longastrino. Le loro proprietà ebbero particolare incremento con Guido Novello, Ostasio II e Bernardino, fra il 1316 ed il 1359. Essi poi, di fronte alle pressioni Estensi cedettero con Ostasio III, in permuta ai signori di Ferrara, il 24 ottobre 1394 il loro dominio sulla «…Riperiam Fili situatam et positam in Provincia Romandiolae in territorio seu districtu Ravennae…» in cambio di Bagnacavallo, Cotignola e 6000 scudi. L’atto fu successivamente annullato (26 agosto 1398) nel contesto di una lunga controversia che richiese la mediazione di Francesco da Carrara signore di Padova. Con la decadenza e la crisi della Signoria dei Da Polenta, giunti a cedere anche Ravenna, la Riviera di Filo con la sua Bastia del fossato Zaniolo, passò agli Estensi nel 1433. La stessa sorte toccò in quegli anni a Lugo e a tutta la cosiddetta Romagna Estense [1].

Con questo studio sui Da Polenta, la nostra irôla virtuale ospita per la prima volta un bolognese autentico, dai molteplici interessi culturali, che ringraziamo per il contributo ed a cui diamo il più cordiale benvenuto (Agide Vandini).

Paolo Ca, bolognese, grande appassionato di storia e di letteratura dialettale, è nato nella città delle due torri nel 1939. Diplomatosi in studi tecnico commerciali, dedicata una vita professionale all’azienda di famiglia, poi ad una lunga attività nel settore dei giocattoli, una volta in pensione, ha finalmente potuto dedicarsi alle sue passioni in campo umanistico e musicale, in altri termini: a suonare ed a scrivere. Ha compiuto interessanti studi e ricerche soprattutto in campo dialettale, spaziando dalla storia medievale alla letteratura di interesse regionale. Di recente ha pubblicato in coppia con Tiziano Costa e per la «Collana di storie bolognesi» della Costa Editore: Vgnì mò qué bulgnìs (2006 ristampato nel 2007) e Brisa par critichèr (2008).

Nella città di Ravenna, dopo un primo periodo in cui la Signoria fu tenuta dai Traversari, ebbe il sopravvento, nella seconda metà del Duecento, la potente famiglia guelfa dei Da Polenta che la governò per 166 anni, dal 1275 al 1441.

Capostipite di questa famiglia risulta certo Guido (senza alcun cognome) vissuto nel XII secolo. Egli ebbe i figli Lamberto I ed Alberico I[2] e visse nel castello di Polenta, nei pressi di Bertinoro, di qui il cognome della famiglia.

I Da Polenta si divisero subito in due rami: il primo di Guido maggiore o Guido Riccio (?- 1293), figlio di Alberico I, il secondo facente capo a Guido minore (?-1310), figlio di Lamberto I.

I figli del primo, Geremia ed Alberico II, allora seguaci dei Traversari, occuparono posizioni di rilievo nell’amministrazione cittadina e per questo furono inviati in Puglia dall’arcivescovo Filippo di Pistoia. Ritornati a Ravenna (1248), furono poi nominati Podestà in altre città, compresa Milano.

I Da Polenta furono poi scelti quali arbitri della controversia tra le famiglie riminesi dei Malatesta e degli Omodei ed acquisirono notevole influenza nella vita della città a fianco dello stesso arcivescovo Filippo. Alla morte di questi però (1270) cominciarono i contrasti con i Traversari. La lotta durò poco, poiché dopo 5 anni, costoro furono cacciati dalla città e i Da Polenta rimasero padroni e Signori di Ravenna.

I cugini Guido Riccio e Guido Minore in una prima fase furono in lotta per il potere, poi si accordarono: il primo si concentrò sulla signoria di Comacchio, il secondo su quella di Ravenna. I contrasti però non finirono, anche perché Guido Riccio passò dalla parte dei Traversari, presto cacciati. Alla sua morte (1293) Guido Minore (detto anche Il vecchio), già stabilmente Signore a Ravenna dal 1275, fu signore anche di Comacchio.

Guido Minore partecipò ai maggiori eventi politici di Romagna, fu sempre a stretto contatto col nuovo vicario Bonifacio Fieschi da Parma da cui ebbe il titolo di «Visconte». Al suo tempo la Romagna era scossa dallo scontro fra la fazione Guelfa e quella Ghibellina. Nel 1282 Guido da Montefeltro, capo dei ghibellini di Romagna, avvalendosi dei tanti fuorusciti da Bologna perché schierati coi ghibellini Lambertazzi, posò gli occhi su Forlì e, soprattutto, su Cervia, l’antica Ficocle, oggetto del desiderio di varie città, da Venezia a Bologna, da Ravenna ad Urbino, per non parlare dell’antica Roma, per le sue preziose saline: il petrolio di quei tempi.

Guido Minore, con l’aiuto della cavalleria malatestiana, combatté e vinse Guido da Montefeltro e nel quadro di questa alleanza diede in sposa la figlia Francesca (1255 ca- 1283/85) allo storpio Gianciotto Malatesta dopo aver aggiunto Cervia al suo dominio.

Francesca Da Polenta, più conosciuta come Francesca da Rimini, ebbe due figli da quel matrimonio: Concordia e Francesco (morto bambino). Del suo aspetto e del suo carattere non si sa nulla, poiché diverse leggende si contraddicono e non si sa nemmeno quando sia iniziata la sua relazione adultera col cognato Paolo, peraltro già sposato con Orabile Beatrice di Giaggiolo. Di certo c’è che il fatto di sa

ngue non fece scalpore all’epoca. I Da Polenta e i Malatesta rimasero alleati ed amici fino al termine delle loro Signorie, e che, se non ne avesse magistralmente raccontato Dante (Inf. V canto - v.73 e segg.) con versi che fanno venire ancora oggi la pelle d’oca, noi non ne avremmo mai saputo nulla. Dante, che fu ospite di Guido Novello, nipote di Francesca, si basò probabilmente sulla tradizione orale della famiglia e su di un certo alone leggendario attorno alla vicenda, ma fu poi seguito da moltissimi scrittori e poeti romantici del XIX e XX secolo che s’ispirarono alla stessa tragedia, simbolo dell’amore passionale: Pellico (1815), Boker (1855), Phillips (1900), D’Annunzio (1902), Crawford (1902) e pittori come: Ingres, Cabanel, Rossetti ed anche musicisti: Mercadante (1828), Rachmaninov (1906), Mancinelli (1907) e Zandonai (1914), a dimostrazione di quanto, più della storia, possa talvolta la leggenda e la letteratura.

Guido Minore, oltre a Francesca, ebbe i figli maschi: Lamberto II (?-1316), Ostasio I[3] e Bernardino I (?-1313).Questi ebbe una vita alquanto movimentata: fu Podestà di Cervia e, in seguito, anche di Cesena, di Ferrara (anche se per soli 8 giorni) nonché di Firenze. Combatté contro tutti: contro Cesena (1305) per la questione del porto di Cesenatico (lo stesso che fu ridisegnato da Leonardo 200 anni dopo), a Campaldino

con Dante, contro Firenze, contro Azzo VIII d’Este di Ferrara (1308) e perfino contro l’Imperatore Enrico VII in Toscana. Morì il 22 aprile 1313, quando era ancora Podestà di Firenze.

Dopo la morte di Guido Minore, Lamberto II rimase unico signore di Ravenna, anche se per soli tre anni. Morendo, lasciò il potere al nipote Guido Novello o Guido il Giovane (?-1330) che lo esercitò fino al 1322 (un anno dopo la morte di Dante). In quell’anno, eletto Capitano del Popolo di Bologna, cedette il governo di Ravenna al fratello Rinaldo (o Rainaldo) (?-1322) in predicato di divenirne arcivescovo.

Guido Novello fu uomo di larghe vedute, mecenate e poeta. Sposò Caterina Malvicini di Bagnacavallo ed accolse i migliori artisti e letterati dell’epoca (Giotto). Mise mano ad importanti opere di bonifica, fortificò la città e la trasformò in sede signorile fino a divenire l’ambìto centro di cultura che attrasse Dante Alighieri.

Rinaldo non governò a lungo. Lo stesso anno fu ucciso dagli sgherri del cugino Ostasio II (?- 1346), figlio di Bernardino I che, con un’azione tanto scoperta, entrò prepotentemente in scena.

Guido Novello, impegnato a Bologna, cercò invano di opporsi. Ostasio II, uomo ambizioso e violento, oltre al potere su Ravenna, ottenne, con gli stessi sistemi, anche quello su Cervia ove fece uccidere (1325) lo zio Bannino con cui aveva fino ad allora governato.

Ostasio II, definito in un documento pontificio del 1327 «capitaneus et defensor civitatis», fece di tutto per accumulare ricchezze e potere, schierandosi ora a favore, ora contro il governo pontificio. Promulgò leggi per consolidare la Signoria.

Nel 1346 ad Ostasio II succedette il figlio Bernardino II (?-1359) dopo che questi, degno figlio di tanto padre, aveva fatto arrestare e morire di fame in carcere i fratelli Lamberto III (?-1347) e Pandolfo (?-1347).

Il figlio di Bernardino II, Guido Lucio (?- 1389) che gli succedette, fu, al contrario, uomo mite e pacifico. Ebbe almeno 11 figli, 6 femmine e 5 maschi. Governò dal 1359 al 1389, un lungo periodo durante il quale privilegiò la politica matrimoniale della sua stirpe; una politica largamente praticata tra i Signori italiani dell’epoca con cui si stabilivano vantaggiose alleanze militari e politiche[4].

Le importanti amicizie politiche non risparmiarono a Guido Lucio la triste sorte degli zii Lamberto II e Pandolfo. I figli Obizzo, Ostasio III e Pietro, forse stanchi di attendere la successione, o forse sanguinari quanto il nonno e il bisnonno, lo imprigionarono e lo lasciarono morire di fame[5].

Eliminato il padre, i quattro figli di Guido Lucio regnarono di comune accordo: Ostasio III (?-1396), Pietro (?-1404), Aldobrandino (?-?) e Obizzo (?-1431), fino a che, passati un dopo l’altro a miglior vita, e non senza sospetto di morte violenta, restò il quarto a governare da solo.

Obizzo, dati i rapporti che i Da Polenta avevano da tempo con Venezia, nel 1404 cedette addirittura Ravenna alla Serenissima, impegnandosi con essa a lottare contro gli Estensi (peraltro suoi zii…). Prestò servizio in armi in favore di Venezia contro i carraresi, e tutto questo in cambio della presenza di un Podestà veneziano in Ravenna e della protezione per sé e per i suoi discendenti. Accettò l’accordo secondo cui, in assenza di eredi maschi,tutto sarebbe andato alla Serenissima.

Dalla prima moglie, Lisa Manfredi, ebbe il figlio Ostasio IV (?-1447) che gli succedette nel 1431, ma fu signore solo di nome, poiché Venezia inviò un provveditore a vigilarne le azioni. Nel 1438 Nicolò Piccinino, che già aveva conquistato Bologna al soldo dei Visconti di Milano, invase il territorio ravennate e costrinse Ostasio IV ad abbandonare i veneziani. Costoro, per tutta risposta, inviarono una forza navale che si impadronì di Ravenna esiliando Ostasio IV ed il figlio Girolamo (ultimo dei Da Polenta) nell’isola di Candia, ove morì.

Da quel febbraio del 1441 i veneziani ebbero in sostanza il dominio diretto della città e del territorio e questo segnò la fine della signoria Polentana. Fu un dominio, quello della Serenissima, che proseguì per altri 70 anni, al termine dei quali tornò a pieno titolo, in Ravenna, il potere temporale pontificio.


[1] Cfr.A. Vandini, Filo la nostra terra,Faenza, Edit, 2004, pp. 55-56 e fonti ivi citate.

[2] Alcune fonti indicano fra i figli di «Guido il capostipite» anche Geremia, che fu invece, col fratello Alberico II, figlio di Guido Riccio di Alberico I, nipote quindi di «Guido il capostipite».

[3] Alcune fonti ignorano Ostasio ed attribuiscono la sua discendenza a Lamberto II. Qui si propone la ricostruzione più comune e ritenuta più attendibile.

[4] Vale la pena ricordare brevemente i matrimoni dello stesso Guido Lucio Da Polenta e dei suoi figli. Egli sposò Elisa, figlia di Obizzo III d’Este, signore di Ferrara. Questi invece i matrimoni dei figli: Samaritana con Antonio della Scala, signore di Verona; Lisa con Astorgio I Manfredi, signore di Faenza; Alda con Nicolò Casali, signore di Cortona; Beatrice con Alberico da Barbiano, grande condottiero romagnolo, conte di Cunio; Eletta, con Francesco Gonzaga, signore di Mantova; Licinia, con Venanzio Varano, signore di Camerino; Bernardino con Lucia di Cansignorio della Scala; Ostasio III con Caterina del Carretto; Obizzo con Lisa Manfredi, poi con Lisa Malatesta; Aldobrandino con un’altra Manfredi; Pietro, infine, non si sa con chi, a meno che non sia rimasto scapolo…

[5] Uno stile diffuso tra i Da Polenta, e non solo, stando almeno a quanto ci racconta Dante (inf. XXXIII) su Ugolino della Gherardesca.

sabato 15 marzo 2008

Per un ambiente naturale che non c’è più

Una poesia in dialetto

di Agide Vandini


E’ una poesia in dialetto che ho scritto un paio d’anni fa, in questo periodo di primavera incipiente. L’ho dedicata ai filesi Cian e Baréra, personaggi di cui ho raccontato, proprio di recente, gesta talvolta scriteriate, ma che ancora rivivono nella memoria dei contemporanei[1].

Nessuno credo abbia tanto amato e vissuto la «valle», la palude, i canali di bonifica, come loro, si può dire l’abbiano amata fin quasi alla simbiosi con un ambiente naturale crudo, selvatico, pieno di insidie e di pericoli, eppure sempre generoso di cibo e di risorse d’ogni genere.

E’ una breve poesia che, in senso lato, vuol essere un sincero omaggio a tutti i vecchi pescatori, cacciatori e «vallaroli» che ho conosciuto da bambino, gente costretta a pescare o raccogliere quasi sempre di frodo, figure ormai leggendarie, svanite nel nulla come la valle prosciugata.

Personaggi come Piz, e’ Göb, Ciaren, e chissà quanti altri venuti prima di loro, che oggi possono già definirsi «antichi», uomini che quella valle amavano visceralmente, e che da essa pareva venissero a loro volta generosamente riamati. Figure ingoiate dal tempo e da sconvolgimenti ambientali forse inimmaginabili per la mente umana di allora, che hanno saputo trarre dalla palude, in momenti difficili e di vita grama per tutti,  ogni possibile forma di sostentamento per sé e per la famiglia.

Essi però, della nostra «Valle» hanno sempre rispettato i ritmi e la linfa vitale, vivendone il contatto con profondo rispetto e quasi con senso di comunità, verso una natura che sentivano amica e di cui, forse, si sono sempre sentiti, con buone ragioni, orgogliosamente parte.



Nelle foto Cian e Baréra già piuttosto anziani. Il primo (Luciano Montanari) ha il bicchiere in mano, il secondo (Sante Toschi) in maglietta celeste, brillante e seducente come la sua «valle».



Mêrz int la val



Oh pscadór da la bêrba griša

E da la frónt scarvajêda

U n’è piò e’ temp dla Scöpa int e’ Cafè,

L’è óra d’gvardê in so che incu

E’ vent e’ pê ch’e’ sŏpia int al nùval,

Di’ nuvlëz ch’i cŏr e ch’i vóla veja

Cun  e’ sól ch’u j pasa da stramëž.

Tŏta quanta la val la s’impeja e la s’amôrta

Coma un gran Prešëpi,

Coma una lŏzla de’ méš d’žogn:

La-t strĕca d’öc, par fêt un segn.

 

I fŏs e i canél i diš ch’e’ ven Premavira

E ch’l’è óra d’tirê fura

La spôrta, la fiasca e la balenza

Pr andê a sinti l’udór dla cana

e de’ zambuch

Pr andê a scultê e’ cant dla val,

I tŏf di ranŏc, e’ vérs de’ canajôl,

e’ s-cèful de’ fringuël

Insem a e’ suspir d’amór ch’e’pasa a pél d’aqua

Da quand che, fórsi pröpi a que, tent ën fa,

L’aqua la s’è maridêda cun la tëra.

Marzo nella valle

 


Oh pescatore dalla barba grigia

E dalla fronte solcata dalle rughe

Non è più il tempo della partita a Scopa nel Caffè,

E’ ora di guardare in su che oggi

Il vento sembra soffiare sulle nuvole,

Nuvole gonfie che corrono e volano via

Col sole che le trapassa da ogni parte.

Tutta la valle s’accende e si spegne

Come un grande Presepe

Come una lucciola nel mese di giugno:

Ti strizza l’occhio per farti un segnale.

 

I fossi ed i canali dicono che giunge Primavera

E che è ora di tirar fuori

La sporta, la fiasca e la bilancia

Per andare a sentire l’odore della canna

 e del sambuco

Per andare ad ascoltare il canto della valle,

I tuffi delle rane, il verso della cannaiola,

il fischio del fringuello,

Assieme al sospiro d’amore che passa a pelo d’acqua

Da quando, forse proprio qui, tanti anni fa

L’acqua si sposò con la terra.

Cannaiola verdognola (Acrocephalus palustris) uccello capace di ottime imitazioni di altri uccelli e distinguibile da un caratteristico e rauco zi-cì zi-cì.

La Cannaiola nidifica nella folta vegetazione erbacea al margine di fiumi e paludi.

Fringuello (Fringilla coelebs)


[1] A.Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006, pp. 135-144.

venerdì 7 marzo 2008

Le «mondine di Filo» e i loro canti

Le lotte, le canzoni, il coro che portò il nome di Maria Margotti
di Agide Vandini


Non ho mai trascorso un «Otto marzo» senza tornare con la mente a figure epiche come le mondine del mio paese, o più in generale, come le generose don de’ Culetiv, figure ed immagini che per me sono sempre state un tutt’uno con l’orgoglio femminile ed un indomabile, fiero, spirito di lotta.
Oggi la battaglia per l’emancipazione della donna, fra le mura di casa come nei luoghi di lavoro, si può dire in gran parte vinta, ma nell’immediato dopoguerra, vedere le donne in prima fila, negli scioperi come nelle durissime lotte per le conquiste sociali, faceva ancora un certo effetto, in un mondo peraltro quasi arcaico che, fino ad allora, aveva colpevolmente preteso di confinarle nell’oscuro e marginale ruolo di “angelo del focolare”.Mi pare perciò elementare ricordare queste figure nel primo «Otto marzo», dell’“irôla” virtuale filese, in un giorno cioè in cui, il solo profumo delle mimose, evoca in chi scrive immagini ben scolpite e nitide, incarnate in una grande storia di sacrifici e di condizioni di lavoro durissimo, un’epopea oggi conservata forse e soltanto nei loro canti di lotta. Con quei canti le nostre donne seppero per anni farsi «intendere», fecero conoscere cioè a chi di dovere, senza tanti pirlindon e senza timore alcuno, i loro sentimenti e le loro ragioni.
Passata l’epoca, e già intorno ormai alla metà degli anni ’70, quei canti di lotta per l’emancipazione furono opportunamente ripresi da un «coro delle Mondine di Filo» che si esibì un po’ ovunque, in Italia ed all’estero, portando un nome glorioso e simbolico, quello della loro compagna di lavoro Maria Margotti, caduta sotto il piombo della polizia in uno sciopero del 1949, ai tempi di Scelba ministro degli Interni.
Quei canti delle nostre risaie vennero così portati in giro per il mondo, canti popolari, canti antichi e pieni di storia, fatti conoscere ad un pubblico quasi sempre stupito dallo slancio ideale che stava alla base delle battaglie più sofferte.
Grazie al coro delle «Mondine di Filo» si poté scoprire, fuori dal contesto locale, un canto popolaresco dal timbro forte e dal ritmo a volte languido a volte serrato, che nei campi e nelle risaie aveva dato voce alle grandi rivendicazioni delle donne, ad istanze di uguaglianza, a sentimenti e propositi per tanto tempo osteggiati o negati, a strofe talvolta persino provocanti, oppure apertamente gaie, divertenti, piacevolmente maliziose.
Per chi riascoltava questi canti a distanza di anni era, invece, un riandare con la mente alla propria gioventù, ad emozioni mai dimenticate, ad una sensualità, quella delle mondine a gamba scoperta, un tempo quasi sfuggente, ad una femminilità appena intuita nelle occhiate imbarazzate, a volte soltanto immaginate all’ombra dell’enorme «capan» ricoperto da un candido fazzoletto, un impalcatura che nascondeva il viso e con esso ogni gentile sembianza delle nostre braccianti. Emozioni, suoni ed immagini che in molte occasioni, scrittori, pittori, compositori, registi hanno saputo riprendere con perspicacia, cogliendo, quasi sempre e fino in fondo, l’animo gentile, e allo stesso tempo pugnace, delle mondine e delle braccianti romagnole.
Ecco allora un primo canto del loro ricco repertorio. Il testo proviene da una bellissima poesia dialettale dell’alfonsinese Edda Forlivesi (si veda: Giurdana, Ravenna, Edizioni Girasole, pp.32-33). Lo trascrivo con la grafia usuale di questo sito, che vuol essere fedele alla fonetica locale e quindi delle nostre mondine:
Al don de’ Culetiv
Apena e’ spunta l’êlba ló al s'aveja
e quand che e’ sol e’ môr al tórna indrì
al don de’ culetiv agli è par la veja
al chenta : «Mureta ach bël durmì…»

Un grimbialon scurtê un pô smalvì
u-t lasa avdé dal pëz acsè a la bóna
un fazulet int j ŏc a l'imbrunì
du ŏc ch’i bréla nench cun la stracóna

Al calzët grösi sempr a cagarëla
int un pér ‘d schêrp asredi cun un pton
e stra la rôda d’drì u j è l'umbrëla
d'arvì s'e' ciöca e' sól, par magnê un töch.

S'al pasa ló e' pasa la campagna
u-s sent l'udór dla têra e quel de’ fen
e söta a che moc ’d blëch masé póch ben
e' bàt un côr zintil, l'è e' côr d’Rumagna!
Le donne del Collettivo
Appena spuntata l'alba se ne vanno
e tornano quando il sole muore
le donne del collettivo sono per strada
e cantano «…Moretta che bel dormire…»

Un grembiule accorciato un po’ stinto
Ti lascia intravedere pezze alla buona
un fazzoletto sugli occhi all'imbrunire
due occhi che brillano anche se stanchi.

Le calze grosse sempre abbassate
in un paio di scarpe abbottonate
e fra la ruota posteriore c'è l'ombrello
da aprire col sole cocente per mangiare.

Quando passano loro passa la campagna
si sente l'odore della terra e del fieno
e sotto quel mucchio di stracci malmessi
batte un cuor gentile: il cuore della Romagna!
E’ un testo felicissimo e davvero ispirato questo della Forlivesi. Di meglio non si sarebbe potuto fare per rendere vive e palpitanti le immagini evocate dal canto, sequenze che corrispondono in pieno al mio ricordo di bambino, di quando cioè le braccianti mi passavano davanti quasi ogni sera in gruppo, avvolte in una nube polverosa, a pochi palmi da casa mia. Ci si dava persino la voce fra bambini: E’ pasa al don de’ culetiiiv…
Era come una festa, quasi che passasse il Giro d’Italia. Tante volte eravamo proprio noi bambini, in tempo di trebbiatura e quando il loro lavoro era poco distante, a portar loro direttamente da casa, sul mezzogiorno, un pasto caldo col pignaten infilato nel manubrio della bicicletta. C’era rispetto, riverenza per la loro fatica, sicché, vedendole passare davanti a noi, si interrompeva ogni sorta di gioco; si cercava di osservarle mentre tornavano al paese e si tentava in quei pochi attimi di riconoscerne o di chiamarne qualcuna.
Ne ascoltavamo ammirati il bel canto in coro, ne intuivamo la stanchezza dalla faticosa pedalata, ma lo sforzo era ancora ben nascosto dal sorriso e da un’allegria naturale nella voce, propria di chi sta per riprendere le incombenze più amate: la cura dei figli, la vita di famiglia alla fine di una dura e proficua giornata di lavoro.
Della loro gaiezza, della loro ironica aria di sfida, sono testimoni queste due curiose strofe:
Purtis da bé
Purtis da bé, purtis da bé
ch'aven gran sé, ch'aven gran sé
aven magnê dla zöla,
aven magnê d'la zöla

Purtis da bé, purtis da bé
ch'aven gran sé, ch'aven gran sé,
avèn magné d'la zöla,
cundida cun l'asè, purtis da bé…
Portateci da bere
Portateci da bere, portateci da bere,
abbiamo una gran sete, abbiamo una gran sete,
abbiam mangiato molta cipolla
abbiam mangiato molta cipolla

Portateci da bere, portateci da bere,
abbiamo una gran sete, abbiamo una gran sete,
abbiam mangiato molta cipolla
condita con l'aceto, portateci da bere...
Il più faticoso fra i lavori in campagna era poi quello della mondina, un tipo di bracciantato che toccava, quasi per predestinazione, alle donne. Per raggiungere in bicicletta le risaie, un tempo estese per quasi tutta la bonifica del Mantello, piuttosto distante dai nostri centri abitati, la mondina, e mia madre era una di queste, si alzava quando ancora era buio e per otto o più ore stava con l’acqua melmosa a mezza gamba. Mondava il riso dalle erbe cattive, prima fra tutte l’infestante giavon, oppure lo mieteva, sempre a corpo chino, impugnando con una mano la pianta da tagliare e con l’altra la falce arcuata da risaia.
Erano lunghe ore sotto il sole cocente, interrotte appena par fê cazion, ossia per mettere qualcosa sotto i denti al riparo di un vecchio ombrello, un umile parasole che forniva un minimo di frescura al momento del riposo. Ore di lavoro durissimo, sotto l’occhio del caporale a cui si doveva chiedere ogni tipo di permesso, anche per il più elementare bisogno corporale. Ai margini della risaia facevano da cornice soltanto le sporte e le biciclette, queste ultime affiancate e rovesciate affinché non si sgonfiassero sotto il sole a picco.
Nel lavoro, alla mondina si chiedeva una ferrea disciplina ed un’attenzione estrema. Guai a trascurare qualche ciuffetto, o a non seguire il passo delle altre lavoratrici sotto l’occhio vigile e severo del padrone, oppure del caporale, spesso ancor più «carogna» del principale. Farsi riprendere poteva costare il posto, la mancata inclusione nella «lista» del giorno dopo, e, di quelle ore al tempo del raccolto, di quel salario prezioso, la famiglia della mondina aveva estremo, irrinunciabile bisogno.
Unico sollievo da un lavoro tanto duro era il canto corale talvolta melodioso, altre volte pungente, che accompagnava quasi tutta la giornata. Erano canzoni vecchissime, imparate sui campi fin da adolescenti, tramandate da generazioni, in una terra di risaie impiantate fin da epoche remote, si può dire dalla metà del Cinquecento. Erano canti, in origine, quasi sempre d’amore, talvolta provocanti, sfrontati e divertenti come queste strofe ove il dialetto, per esigenze di rima, lascia ogni tanto spazio al più «classico» e composto italiano:
La strêda dla Muróna

Drì dla fösa dla Muróna
u j è una strêda polverosa
par chi zùvan ch’i va 'mbrósa
e non stan fermi con le man

Non stan fermi con le mani
e nemmeno coi ginocchi
mamma mia apri gli occhi
che tu fiôla la va a dan.

E mi mama mata mata
mata me ch’a sö su fiôla
la m’à fata parpaiôla
a voj dêla a chi voj me…

A vòj déla a preti e frati,
alle guardie di finanza
e quel poco che m'avanza,
a ch'é bèch ad mì maré…
La strada della Murona
[località nei pressi di Bando]
Dietro la fossa della Murona
c'è una strada polverosa
per i giovani che cercano morosa
e non stan fermi con le mani

Non stan fermi con le mani
e nemmeno coi ginocchi
mamma mia apri gli occhi
che tua figlia si sta perdendo

E mia mamma mattacchiona
come me che son sua figlia
lei mi ha fatto farfallina
e io voglio darla a chi mi pare

Voglio darla a preti e frati
alle guardie di finanza
e quel poco che rimane
a quel cornuto di mio marito…
A questo genere di testi si aggiunsero ben presto combattive canzoni di lotta come La lega (Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo ecc.), altre in cui, nel secondo dopoguerra, riecheggiarono gli ideali e le battaglie della Resistenza, altre ancora inneggianti la sospirata emancipazione sociale. Negli ultimi due testi qui proposti, si desumono alcuni temi di quel periodo e da essi si può percepire tutto il pathos e la passione che le nostre mondine, col loro canto, ci hanno saputo trasmettere:

La mondina
Son la mondina, son la sfruttata
son la proletaria che giammai tremò
mi hanno preso e incatenata
carcere e violenza, nulla mi fermò.

Coi nostri corpi sulle rotaie
noi abbiam fermato il nostro sfruttator
c'è tanto fango nelle risaie
ma non porta macchia il simbol del lavor

Questa bandiera gloriosa e bella
noi l'abbiam raccolta e la portiam più su
dal vercellese a Molinella
alla testa della nostra gioventù

E se qualcuno vuol far la guerra
tutti uniti insieme noi lo fermerem
vogliam la pace sulla terra
e più forti dei cannoni noi sarem.

Noi lotteremo per il lavoro
per la pace, il pane e per la libertà
e costruiremo un mondo nuovo
di giustizia e vera civiltà.
Maria Margotti, la morte di una mondina
Se non ci conoscete, guardateci negli occhi,
Noi siamo le compagne, della Maria Margotti

Maria Margotti partì da Filo un giorno
Coi scioperanti andava a Molinella
perché la lotta in quella dura terra
non dava pace a dei lavorator.

Venne colpita dal piombo traditore
Che difendeva il crumiro ed il padrone
Con la tristezza di un simile orrore
Con gran dolore in cuore, s’udì cantar così

Maria Margotti era una grande mammina
Ella è caduta per la Pace e il Lavor
Lei sarà sempre, la più grande eroina
dei nostri cuor, Maria Margotti.

Da Molinella fecero ritorno
sulle bandiere c’era un vessillo nero
tra i scioperanti che fecero ritorno
Maria non c’era, ahimè non verrà più.

Ognuno rimpianse la madre trucidata,
Maria riposa laggiù vicino al ponte,
e le sue figlie aspettavano il ritorno
in fondo al loro cuore, udir cantar così…
Parole semplici, come si può ben vedere, parole modulate solo dalla voce, senza alcuno sfondo musicale che non fosse il silenzio dei campi e delle risaie, intercalato semmai dal pigro gracidare dei ranocchi. Di questi canti, ci restano un paio di musicassette, qualche fotografia e poco più. Canzoni, immagini che ai più giovani certo non possono ricordare nulla, ma che ancora oggi sono nel cuore della mia generazione e che, in fondo, rappresentano elementi importantissimi del nostro patrimonio culturale e della più gloriosa storia italiana del Novecento.


Le «mondine di Filo» e i loro canti - Galleria fotografica

Anni ’40. Giovani mondine filesi. Da sinistra a destra: Angela Toschi (Lina), Alice Battaglia, Emma Saiani, Wilma Quattrini, Mariolina Bolognesi, Elvira Tirapani (Dalla mostra fotografica Unità Filo 1996, pannello n. 20, curata da A.Vandini).

Gruppo di mondine filesi, intorno al 1950, in posa sull’arginello di una risaia. Da sinistra, in piedi: Maria Saiani (d’Gianêl), Frida, Edma, Checcoli Giovanna (Gagia), Ricci Lucchi Mentana, Minguzzi Bradamante (‘Mante), Toschi Serena, Maria Pollini (d’Raflon). In ginocchio e più rialzate: Carolina (Carlina), Teresina de’ Göb. Sedute o sdraiate: Veduti Giovanna (Giana), Cavalieri Eda, mia madre Toschi Elvira, Bolognesi Berta d’ Bajuchen, Wilma Pollini, Aldina Bolognesi (d’Scanelli), Maria Ravaglia (d’Tachini), Cesara de’ Tratór. (Collezione Vandini-Toschi)
Risaie filesi anni ’50. Le prime da sinistra sono Alma Cillani e Liliana Fiorentini (Liliana d’Turaza). A destra in primo piano Desdemona Penazzi. (Dalla mostra fotografica F.Unità Filo 1996, pannello n. 20, curata da A.Vandini)
Mondine filesi, a cavallo degli anni ’50. Dietro e più in alto: Saiani Maria (d’Gianêl), Aldina Bolognesi (d’Scanelli), Benassi Lina, mia madre Elvira Toschi, Clelia Toschi, Teresina (Mariunzëla d’Pulon), un uomo col cappello, Gregori Sintina, Guerrina Bolognesi, Vandini Filomena (Mina de’ Göb), Checcoli Giovanna (Gagia), Contoli Maria (d’Solè), Serena Toschi. Davanti e chinate: Una mondina messa in ombra dal suo fazzoletto, Bolognesi Elide, Emma Saiani, Ravaglia Maria (d’Tachini), Bolognesi Berta (d’Bajiuchen), una mondina col viso abbassato, Bolognesi Noemia. Col berretto sulla destra: Romagnoli Enrico (e’ Mas-cì). (Collezione Vandini-Toschi).
Risaie filesi. Colazione sull’arginello, vicino alle biciclette. Si notino le gomme all’aria o l’ombrello aperto per evitare le sgonfiature sotto il sole cocente. (Dalla mostra fotografica F.Unità Filo 1996, pannello n. 21, curata da A.Vandini)
Anni ’70. Le mondine filesi del coro “Maria Margotti”, ormai in età piuttosto matura, tornano in risaia per una foto da copertina.