lunedì 22 giugno 2009

Omaggio a Francesco Cavicchi

A 54 anni dalla sua grande impresa

di Agide Vandini

Da tempo avevo in animo di dedicare uno «special» a Francesco Cavicchi, eroe pugilistico bolognese dei tempi andati, che alla sua epoca fece scattare in tutti gli italiani un moto d’orgoglio e di grande passione sportiva. Dopo aver constatato che il grande pugile non ha ancora una specifica presenza su Wikipedia, mi sono dato ancor più da fare, preparando questo revival proprio per l’anniversario della sua conquista del titolo europeo dei pesi massimi.

Ero un bambino di neppure 10 anni quel 26 giugno 1955, e mi trovavo nella colonia marina Nullo Baldini di Pinarella di Cervia. Ricordo ancora l’emozione e l’entusiasmo che suscitarono i genitori in visita quando ci dissero che Cavicchi, nostro corregionale e peso massimo fortissimo, aveva conquistato soprendentemente la corona europea battendo, allo stadio Comunale di Bologna stracolmo, il detentore, il tedesco Neuhauss.

Ricordo poi i racconti mirabolanti ascoltati all’osteria, da parte dei filesi che erano andati a vederlo e tutta la passione con cui fu seguito anche negli incontri successivi, fino al precoce e inatteso declino. Si diceva che se avesse avuto un po’ di cattiveria e di malizia, e forse anche un po’ di coraggio in più, con la forza e la potenza che si ritrovava, non ci sarebbero stati rivali al mondo; ma in fondo, poi, anche così com’era, con la sua forza, la sua umanità ed i tanti scrupoli, molti sportivi filesi di allora, fra i quali mio padre, lo amarono quasi alla follia lungo tutti gli anni della sua carriera.

Di quei discorsi d’osteria ho anche raccontato in una mia recente pubblicazione. Il brano riguardante il celebre incontro di Cavicchi, le curiose vicende e i personaggi filesi che vi assistettero, lo si può trovare nell’ultima parte di questo articolo. Qualche preziosa immagine del pugile e del resoconto dell’incontro pubblicato all’epoca su Sport Illustrato, sono invece riportate, a corredo della ricerca, qui a fianco[1].

Ha scritto Franco Gabici che in quel 1955 l’Italia con Duilio Loi e Francesco Cavicchi «prendeva a pugni l’Europa». Cosa intendesse dire con quell’espressione lo spiegava, poi, così: «dentro a quei guantoni si annidava tutta l’Italia desiderosa di combattere e di sconfiggere la miseria»[2].

Quanto questa espressione corrisponda al vero, lo si percepisce ad esempio, da quanto raccontato di recente da un tifoso bolognese a Giorgio Comaschi[3].

Pare, stando a questo racconto, che durante la guerra, la casa colonica di Francesco Cavicchi fosse stata razziata da una pattuglia di militari tedeschi, e che costoro vi avessero rubato l'unico maiale. Davanti al duro colpo l'arzdòura di casa (reggitrice, massaia) si disperò non poco, sapendo che quel maiale doveva sfamare la famiglia per tutto l’anno.

Il caso volle che, a guerra finita, il figliolo, il giovane Checco Cavicchi, un gran sturnèl (grande e grosso), messosi a fare il pugile con ottimi risultati, dovesse sfidare proprio un tedesco, il robusto Neuhaus, per il raggiungere il titolo europeo dei pesi massimi in un match, come sappiamo, che si disputò in uno Stadio Comunale gremito di bolognesi.

A un certo punto sembrò ai trepidanti presenti che il tedesco avesse la meglio. Fu allora che dalle gradinate si levò, forse da parte di un suo paesano, il grido possente: «Dai, Chécco, ch'l'è al tudàssc dal ninén!» (Dai, Francesco, che è il tedesco che ti rubò il maiale!).

Non si saprà mai se effettivamente Cavicchi sentì l'urlo, ma i testimoni raccontano che dal quel momento si mise a picchiare come una furia, vincendo alla grande l'incontro che lo laureò campione d'Europa e lo fece dispensando pugni portentosi, o meglio, secondo la bella espressione dialettale del tifoso, ch’i éren nusón da sbrislèr al carburro (erano colpi da sbriciolare il carburo, che è un materiale durissimo).

Gualtiero Becchetti, direttore della rivista Boxe ring, organo ufficiale della Federazione pugilistica italiana, racconta così l’Emilian Bull, ricordato a Bologna come una leggenda. «E’ stato l’idolo di Bologna negli anni ‘50. Il pubblico accorreva in massa ai suoi incontri. Molti perché lo amavano, altri perché speravano di vederlo perdere. Era un personaggio che suscitava comunque sentimenti forti»[4].

Come dicevo, comunque, Chécco Cavicchi, che ha combattuto 89 incontri vincendone 71 e 45 volte ha messo k.o. l’avversario, non ha, per ora, una voce specifica su Wikipedia, la celebre enciclopedia del web. Intorno a lui ho trovato comunque in rete queste interessanti note biografiche[5] :

Quando Fleischer"classificò" Cavicchi. Il gigante che fece innamorare Bologna entrò tra i migliori dieci massimi nel 1955. Nella stampa specializzata europea i ranking mondiali, ovvero le classifiche di merito, a metà degli anni 50 non erano molto riprodotte e pubblicizzate da parte della stampa specializzata.

In Francia “Boxe” le citava saltuariamente, in Italia “La Boxe nel mondo” diretta da Nando Pensa, invece, ne faceva uno dei punti di riferimento per quanto riguardava lo “specchio” pugilistico internazionale della rivista.

Pochi ricordano che l’esplosione di Franco Cavicchi (nato a Pieve di Cento il 12 Maggio del 1928) già campione italiano dilettanti dei pesi massimi a Trieste nel 1952 (5 matches in azzurro) interessò molto colui che è stato definito il più importante giornalista del secolo scorso, fondatore di “The Ring” e della “Boxing Enciclopedia and Record Book” e cioè Nat Fleischer.

Cavicchi esordì al professionismo nel 1952 a Bologna e dopo aver battuto Uber Bacilieri nel 1954, in un match valido per il titolo italiano, iniziò ad imporsi all’attenzione continentale. Dotato di una eccezionale compressione fisica, idolatrato dalla folla bolognese, Cavicchi già all’inizio del 1955 era atteso dall’ambiente del pugilato italiano ad un esame “europeo”. Il suo mentore Renato Torri seppe guidarlo abilmente alle soglie del titolo opponendolo ad avversari “giusti”, per una carriera che, nella primavera del 1955, vedeva solo due sconfitte (all’inizio carriera) in una quarantina di incontri ed il contratto con il campione d’Europa Heinz Neuhaus in tasca.

Il campione tedesco, modesto qualitativamente, era in carica da tre anni e non aveva la capacità di affacciarsi fuori dall’Europa. Sul ring di Bologna il 26 Giugno del 1955 Cavicchi gli strappò il titolo. Un match non bello, ma caratterizzato dalla potenza del bolognese che vinse largamente ai punti.

La notizia che l’italiano era divenuto campione d’Europa arrivò a Nat Fleischer che scrisse di Cavicchi.- «Il nuovo campione d’Europa Francesco Cavicchi è un pugile dotato di un fisico imponente e di una potenza notevole. Lo attendiamo però a prove più difficili suggerirei, ad esempio il canadese Earl Walls……»

Comunque sia i ring americani seguirono l’evolversi della carriera di Cavicchi che in piena estate vinse un altro paio di incontri facili (A Rimini contro Whiese, ed a Napoli contro Fanzlau entrambi prima del limite) ed è a questo punto che nelle classifiche mondiali viene inserito Cavicchi: prima al decimo posto poi al nono (vedi roster sotto) un traguardo tagliato solo nel mondo dei pesi massimi da Erminio Spalla nel 1924, e Primo Carnera nel 1933.

La citazione di Fleischer risulta importante perché focalizzata in un momento in cui il campione del mondo era unico e contornato da uno stuolo di “contender” di un certo prestigio.

Poi Cavicchi perse nella rivincita senza titolo con Neuhaus a Dortmund, e fu scalzato dal titolo europeo dal futuro campione del mondo Ingemar Johansson nel 1956, sparendo dalle classifiche ma quel traguardo “Statistico” era stato raggiunto ed è piacevole ricordarlo.

Di seguito altri italiani nel mondo dei giganti si affacciarono nelle varie “top Ten” di sigla (Righetti, Zanon, il campione WBO Damiani che fu comunque tra i primi 15 in tutte e quattro le sigle nel 1990) ma nel 1955 esservi citati era sicuramente una menzione di notevole valore .

LUGLIO 1955

La classifica di Nat Fleischer

Campione Rocky Marciano

1) Archie Moore - usa

2) Bob Baker -usa

3) Tommy Jackson- usa

4) Nino Valdes -cuba

5) Don Cockel -gb

6) Ezzard Charles usa

7) Earl Walls -canada

8) John Holman - usa

9) Franco Cavicchi - Italia

10) Rex Laine - usa

Sempre navigando con pazienza sul web mi sono anche imbattuto nella tabella con tutti i suoi incontri [6]ed anche in una simpatica e corposa intervista che il campione ha rilasciato poco più di un anno fa, in occasione del suo ottantesimo compleanno. Lì Chécco Cavicchi racconta e si racconta da par suo[7].

Ciò che non è possibile perdersi nel modo più assoluto è comunque il filmato presente in rete con la sintesi del famoso incontro di 64 anni fa. Il commento d’epoca che accompagna le immagini, poi, è una vera chicca, anche se l’audio, deteriorato e disturbato dal sottofondo musicale e d’ambiente, risulta, purtroppo, molto scadente, a tratti addirittura incomprensibile. Per questo ho provveduto ad una paziente e faticosa trascrizione che qui riporto e che potrà essere d’aiuto a chi ama rievocare le emozioni di allora. Il vibrante commento è fedele, essenziale e scorre assieme alle immagini, senza un aggettivo di troppo e senza inutili fronzoli, quasi fosse destinato alla carta stampata. Tutt’altra cosa rispetto agli starnazzanti commenti sportivi gridati oltre misura che si sentono oggi, a una, come a due voci…

27 giugno 1955 - Franco Cavicchi batte Heinz Neuhaus - titolo europeo pesi massimi

(Trascrizione del commento d’epoca. Fra parentesi quadre le parole verosimili che danno senso compiuto alla frase)

Il filmato si trova in: http://www.youtube.com/watch?v=50J58VCYPPk

L’atteso incontro del Campionato Europeo dei pesi massimi ha richiamato allo stadio di Bologna una folla immensa, calcolabile in circa 60.000 persone, uno spettacolo formidabile che si è in precedenza registrato solo per il match Carnera-Paolino. Il primo suono di gong sembra placare, come per incanto, la morbosa attesa del pubblico. I due atleti sono tesi sul quadrato e si insidiano cautamente abbozzando qualche manovra col sinistro.

Il primo [ad andare] a segno è il tedesco, ma Cavicchi è pronto a replicare con due ganci e poi l’arbitro deve intervenire per separare i contendenti che si sono allacciati in uno stretto corpo a corpo.

Poi, all’improvviso, dopo una serie di finte, scatta il destro di Cavicchi che raggiunge Nehauss al cuore. Il tedesco ha toccato terra per un secondo e non ha trovato di meglio che rifugiarsi in clinch. E’ stato un attimo solo, Neuhaus sembra non risentire dell’infortunio, ma il particolare è importante, perché Cavicchi si è liberato dell’emozione che lo attanagliava, e ora sa che può battersi, da pari a pari, col campione europeo. Questi d’altro canto ha capito che l’incontro può essere pieno di incognite e perciò adotta una tattica più prudente di quella che probabilmente aveva concordato col suo manager.

Tuttavia Heinz non desiste dall’attaccare, ma la caduta di Cavicchi non è provocata da un suo colpo, bensì da una scivolata. Nessuna paura per i sessantamila spettatori che fanno un tifo d’inferno per il loro beniamino.

Alla vigilia del combattimento si è sottolineato come l’inesperienza del colosso di Pieve di Cento potesse mettere l’allievo di Venturi in condizione di inferiorità nei confronti del rivale, ma all’atto pratico si può constatare che ciò non accade, anzi, è Cavicchi a far valere la sua splendente condizione fisica e ad imporre il proprio gioco al campione d’Europa. Soprattutto si mostra particolarmente efficace il massacrante lavoro al corpo che l’italiano attua con felice intuito e con notevole potenza.

E’ così che l’incontro assume una fisionomia ben delineata: Cavicchi più veloce, più bandanzoso, più sicuro delle sue possibilità, non consente al tedesco di assumere l’iniziativa e lo tiene costantemente sotto l’incubo delle sue tremende [mazzate]. Neuhaus, la cui struttura fisica è ben diversa da quella scultorea dell’italiano, si difende bene da pugile di classe internazionale qual è, però ad ogni ripresa che passa, il suo trono si fa sempre più vacillante.

La folla non si stanca di incoraggiare l’emiliano, ormai ha capito che il grande sogno di questo sta per realizzarsi e lo incita a voce spiegata, nella speranza che saprà concludere il combattimento con un KO clamoroso. Neuhaus, però, è un atleta che si può battere, ma che non si può umiliare, se non si è campioni di classe eccelsa, e Cavicchi, pur meravigliando i tecnici per la sua formidabile prova, non può ancora essere giudicato un autentico fuoriclasse. Riuscirà a giungere al successo, ma non potrà annientare l’avversario, sempre temibile per le sue improvvise reazioni.

Si arriva così alla conclusione dell’avvincente combattimento. Al gong dell’ultima ripresa, Cavicchi si getta nella lotta con rinnovata energia, facendo sfoggio di una freschezza invidiabile. Assale il rivale con decisione, lo stringe alle corde, lo colpisce inesorabilmente al viso e al corpo, un sapiente lavoro [… ]. Neuhaus si difende strenuamente, replica ancora con autorità, tenta l’ultima disperata [difesa] per salvare il suo titolo, ma contro lo slancio di Cavicchi non c’è nulla da fare, l’italiano è più forte, continuerebbe per altre quindici riprese per dimostrare che è veramente il miglior peso massimo del continente. L’ultimo sonoro rumore del gong è coperto dall’urlo fragoroso della folla che anticipa il verdetto dell’arbitro [Pataguera]. Cavicchi è il nuovo campione Europeo del pesi massimi [e l’Italia ha di che gloriarsi di questa vittoria].[…]. Spalla e Carnera hanno trovato in Cavicchi il più degno continuatore delle loro fulgide imprese.

Concludo questo spazio dedicato al grande pugile bolognese con un passaggio dell’intervista che ho citato più sopra in cui, a parer mio, c’è tutto Cavicchi, la sua personalità ed umanità:

Potremmo definirla un pugile gentiluomo, in quanto non infieriva sugli avversari in difficoltà?

Di sicuro non ho mai combattuto per fare del male, forse era proprio lì la mia carenza: la mancanza di cattiveria che occorre nella boxe. Almeno era quello che si diceva. Però io ho sempre detto che non si danno dieci pugni all'avversario se per vincere ne bastano otto.

La voce e il carisma del Barön

Un gruppo di filesi fra i sessantamila del Comunale

(brano tratto dal racconto «Narratori e sportivi d’osteria», in A.Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006, pp.41-50)

[…] A quel tempo, all’Ustareja dla Bianca si incontrava talvolta anche un altro vivace ed interessante narratore d’osteria. Autista di piazza, si spostava in ogni direzione e giungeva quasi sempre al caffé alle ore più impensate.

Era da tutti chiamato e’ Barön, uomo elegante, dall’aspetto aristocratico e dal temperamento passionale, un tipo dalla battuta colta ed accattivante che, pur non avendo mai praticato alcuno sport, aveva grande capacità di attrarre e riscaldare l’animo degli interlocutori.

Grande appassionato di calcio ed affezionato tifoso del Bologna, seguiva ancor più la squadra dilettantistica locale. Chi passava per strada, anche a notevole distanza dal campo sportivo, distingueva nettamente la sua voce fra quella del folto pubblico che, all’epoca assiepava tutto il perimetro di gioco. Il timbro del Barön si alzava infatti forte e distinto sopra le mille voci di fondo ed esplodeva di tanto in tanto in un baritonale e travolgente: «Alé, alé azzurri...»

La popolarità, e la capacità d’attrazione di questo singolare personaggio, apparve ancor più evidente quando, nei primi anni d’osteria, potei ascoltare il racconto di quanto era avvenuto il giorno della memorabile impresa bolognese di Francesco Cavicchi, gigante di Pieve di Cento.

Il pugile, definito frettolosamente il «nuovo Carnera» aveva conquistato a sorpresa, quand’ero ancora un ragazzo, la corona europea dei pesi massimi, battendo proprio a Bologna il detentore, il tedesco Neuhaus.

Era stato, all’epoca, un avvenimento epocale, la cintura europea ad un «massimo» italiano aveva sollevato entusiasmi persino esagerati, se si pensa al reboante titolo di «Stadio» del giorno dopo: «E ora, trema Marciano...».

L’incontro - così mi fu raccontato - era stato organizzato a Bologna, allo stadio comunale assiepato di folla, in una giornata terribilmente afosa in cui gli sportivi erano affluiti in massa nelle ore più calde da tutta la regione.

Nella spasmodica attesa dentro al catino di cemento e nel caldo soffocante, fra spinte furiose che il popolo in piedi si scambiava nel tentativo di avvicinarsi al ring, una sete bestiale si impadronì degli spettatori, una sete che, i rari passaggi dei pochi bibitari, non poteva essere acquietata.

Il consistente gruppo dei filesi, appostatosi quasi sotto le tribune cinque ore prima dell’inizio dell’incontro, era stato previdente. Fra loro si annoverava nell’occasione il florido e rotondo Gigino, il quale, con grande previdenza, s’era portato da casa un paio di bottiglioni d’acqua di fonte.

Questi, che poi mi narrò la vicenda alcuni anni dopo, nel momento più critico, preso dalla sete quando ancora mancavano alcune ore all’inizio dell’incontro, pensò di tirar fuori i bottiglioni fino ad allora ben nascosti in un ampio sportone sotto le sue gambe.

Fu una mossa avventata. Gigino capì subito che poteva finire in tragedia. Non appena infatti i provvidenziali bottiglioni d’acqua fresca passarono da una bocca all’altra dei filesi, s’alzarono proteste da più parti.

Alle rimostranze dei nostri, il popolo degli assetati minacciò di andare in fretta per le spicce pretendendo, senza discussioni, la condivisione di un bene di prima necessità che, in quelle condizioni, non poteva andare ad esclusivo vantaggio di pochi spettatori.

Giunse proprio in quel momento un soccorso insperato.

Dall’alto delle tribune s’udì la voce stentorea del Barön sparito dalla vista ed imbucatosi chissà dove. Gli spettatori in tumulto sul parterre si girarono di colpo e videro sopra di loro un’elegante figura ergersi ai piedi di una delle altissime colonne delle tribune. Ne percepirono subito, dalle maniche arrotolate della camicia bianca, l’atteggiamento aristocratico. La timbrica voce istruiva la folla in modo quasi disinvolto, senza rialzi particolari di tono. Pareva un questore contrariato che invitasse il popolo sottostante alla calma per evitare spiacevoli guai.

Con moto spontaneo la folla minacciosa si ritirò e la tragedia, grazie al provvidenziale intervento del Barön, fu fortunatamente evitata. […]

martedì 16 giugno 2009

Pane e Olio

La bella poesia di Orazio Pezzi

di Agide Vandini

So da tempo quanto Orazio, grande amico della mia gioventù, abbia sempre amato la sua famiglia, e quanto egli si sentisse devoto in particolare alla figura paterna, alla sua grondante umanità, semplicità ed onestà contadina. Non mi ero mai reso conto, però, nemmeno allorché diede lettura, in chiesa, di una ultima e toccante lettera al padre, ahimè, perduto per sempre, quanto questo amore filiale fosse profondo. Mi è riuscito di sentirlo, forte, attraverso la poesia, la sua poesia.

So, d’altra parte per esperienza, per aver provato questo stesso dolore molto tempo addietro, quanto una grande disperazione interiore possa essere pian piano lenita dai ricordi, dai suoni e dalle immagini di tanti momenti felici trascorsi, da immagini e suoni che ci riverberano dentro e che ci accompagneranno dolcemente, io credo, lungo il tratto di vita che ancora ci aspetta.

Orazio ha un grande dono: riesce a tradurre tutto questo subbuglio dell’anima, i sentimenti più forti e i ricordi più toccanti, in poesia di rara bellezza.

4 Luglio

E fu silenzio

nell’irreale mattino

la luce del sole

brillava sulle lacrime

sparse nell’erba dei campi

E fu silenzio

che intontisce la mente

quasi non pensi

tutto è nulla

in un momento

Le voci ovattate

ti rincorrono da ogni dove

ma sei sordo e muto

le parole scivolano via

nel profondo abisso

Un vortice ti solleva

ti guida per le strade

senza un senso definito

colpito a tradimento

implorante guardi il cielo

Dove sei ora? Guardaci

sollevaci dalla polvere

che ci ha coperto gli occhi

vogliamo vederti sorridere

a cavallo delle nubi

Le tre rose

Le tre rose

sono per Te

Siamo noi figli

sono gli amati

rimasti nella tua casa

Le tre rose

sono la vita

che non hai generato

sono la Tua eredità

più preziosa

Le tre rose

sono bianche

lasciano un soave

profumo d’amore

come la Tua anima

Sono là

nella pioggia e nel gelo

nella nebbia e nel sole

Noi siamo le tre rose

siamo là

con Te per sempre

Egli ha dato da tempo un titolo alle poesie che di tanto in tanto mi invia e che io regolarmente pubblico sull’Irôla de’ Filéš. Il titolo è «Pane e olio» perché il pane e l’olio, così mi ha scritto poche settimane fa, sono gli alimenti che tennero in vita il suo babbo durante la prigionia in Grecia, là dov’era finito nella seconda Guerra Mondiale.

Una prigionia durissima, quella a cui Mario Pezzi sopravvisse, grazie alla compassione delle donne greche da cui fu alimentato col poco che avevano. Riuscì a sopravvivere, mentre tanti suoi compagni furono sopraffatti dalla fame e dai pidocchi. Fra essi un tenente di nome Orazio, nome che Mario volle dare, poi, tornato a Filo, proprio a lui, al suo primo figlio.

Nonostante Mario, altro non fosse che un semplice contadino romagnolo, ha ricordato spesso al proprio figlio la poesia di Ungaretti scritta ai tempi della prima guerra mondiale: « Soldati. Si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie» una poesia, confessa oggi Orazio, che gli ha sempre fatto venire i brividi.

Gli ho chiesto di raccontarmi qualcosa di più sull’esperienza di suo padre e mi ha risposto così:

Caro Agide,

non posso raccontarti molto della vita militare di mio padre perché me ne ha parlato molto poco. L’ultima volta che ne abbiamo parlato fu una mia forzatura perché volevo che anche gli altri figli si facessero una idea su quali immani tragedie era fondato il loro benessere.

Purtroppo, dopo non più di cinque minuti, il babbo cominciò a piangere a dirotto, e non ricordavo di averlo mai visto fare prima di allora: le ferite e le paure di più cinquant’anni prima erano dunque ancora così vive e laceranti...

Posso dirti che non ho mai visto in casa una foto del babbo da militare, che non abbiamo mai avuto un’arma neanche per gioco, però qualche parziale breve racconto mi fu fatto, sia da piccolo, che da un po’ più grandicello.

Prigionia in Grecia: mi parlò dell’isola Eubea, di come lui ed i suoi compagni furono leniti dalle sofferenze dalle donne greche che li alimentavano a pane e olio, un cucchiaio al giorno, e di come morirono quasi tutti i suoi compagni.

Da piccolo gli chiesi cos’era quella fascia marrone piena di infiniti forellini cicatrizzati che gli circondava il corpo da sotto l’ombelico fino all’altezza delle costole e le braccia all’altezza delle spalle. La risposta fu: «Per poco non mi son fatto mangiare dai pidocchi…».

Mi disse poi che il mio nome era una promessa fatta al tenente morto in prigionia, che era stato sergente maggiore nell’artiglieria anticarro, che i nostri cannoncini erano di molto inferiori a quanto avevano in dotazione i tedeschi.

Mi raccontò che i greci ad un certo punto li consegnarono agli inglesi, che li curarono, ma che li sottoposero anche al carcere duro. L’unico sollievo era la consapevolezza di avere finalmente una adeguata assistenza medica. Furono poi imbarcati per l’Italia e trasferiti sotto il comando americano e qui le cose cambiarono radicalmente, perché furono davvero restituiti alla vita. Non più carcere duro, ma rispetto, cibo abbondante, possibilità di movimento e contatto coi militari alleati. Il ritorno a casa avvenne nel giugno 1945.

La guerra gli aveva putroppo lasciato un subdolo strascico negli incubi notturni, incubi di cui ha sofferto fino alla morte: calci, versi, ordini concitati, spinte alla mamma ed abbracci inconsulti, per fortuna erano attacchi brevi che però non hanno saltato una sola notte.

L’amore per la poesia è nato in me da lui, fin da piccolo. Andavo ancora all’asilo e lui mi insegnò a memoria alcune poesie di Leopardi e Carducci , poeti che amava, poi Dante, Foscolo, Pascoli, Giusti, Ungaretti.

Gli piaceva molto leggere poesie e racconti, ricordo che in casa avevamo un’antologia vecchia e malandata, dove qualche pagina aveva il bordo piegato a segnalibro. Erano proprio le poesie che gli piacevano di più: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle…», «Tanto gentil e tanto onesta pare…» «L’albero a cui tendevi…», «Sua eccellenza che mi sta in cagnesco…».

Ciao

Orazio

Ogni tanto Orazio compone in dialetto, nella sua lingua-madre, ed è appunto in dialetto che di recente ha composto questa delizia, una bella immagine nitida e limpida che, alla lettura, viene a formarsi nella nostra mente, un potente instant-replay della nostra memoria, uno scenario d’ infanzia in cui tutti noi, una intera generazione di filesi, riusciamo a collocarci idealmente, affiancandoci alla carriola di Orazio. La lancetta del tempo sembra così spostarsi sempre più velocemente e, in un attimo, la nostalgia e il rimpianto diventano gioia, la gioia di aver vissuto quei momenti e di averli ancora qui, dentro di noi.

L’érba pr i cunej

L’éra una bëla séra

A la fen d’una chêlda istê

Me andéva par la caréra

Cun la cariôla e e’ fër da šghê

E’ babo u m’aspitéva

In šdé int la riva d’un fös

Una bóna zigareta us fuméva

E intent u s ripuséva agli ös

Prema e’ batéva e’ fër e ul rudéva

E pu e’ šghéva la spagnéra

Me sugnend al guardéva

On mej che lo u ngn éra

L’aria l’éra dólza com e’ mél

I rundon bës i sfrizéva

Al pónt di élbar al tuchéva e’ zil

E’ sól luntan e’ tramuntéva

Sóra al ca basi ad Fil

L’erba per i conigli

Era una bella sera

Alla fine di una calda estate

Io andavo lungo la carraia

Con la carriola e col ferro da segare

Il babbo mi aspettava

Seduto lungo la riva di un fosso

Fumava una buona sigaretta

R intanto si riposava le ossa

Prima batteva il ferro e lo arrotava

E poi segava l’erba medica

Io sognando lo guardavo

Uno meglio di lui non c’era

L’aria era dolce come il miele

I rondoni sfrecciavano bassi

Le punte degli alberi toccavano il cielo

Il sole lontano tramontava

Sopra le case basse di Filo