venerdì 15 febbraio 2008

Una bella zirudëla scritta per noi..

L’amico e «poeta contadino», Angelo d’Zižaron d’Mašira che già si è presentato qualche settimana fa in quest’Irôla con la pregevole poesia Nadêl l’è un segn, ha voluto dedicare una bella composizione in rima baciata al nostro blog. E’ una bella rievocazione del tempo che fu ed allo stesso tempo un ideale e larghissimo abbraccio ai tanti paesi della Romagna, in particolare a quelli della bassa, che hanno in comune antichissime tradizioni ed una cultura popolare, imperniata sul dialetto, oggi ancora ben presente nel sentimento e nell’orgoglio della nostra gente. E’ un onore che Angelo ha voluto riservarci, una considerazione che ci lusinga e che, ne sono certo, farà davvero piacere a nostri attenti lettori (Agide Vandini).

E’ BLÖGH D’NADÊL (o, se si vuole, L’IRÔLA VIRTUÊLA)

di Angelo Minguzzi (d’Zižaron d’Mašira)

Pr e’ mi amigh d’dla da Pö vëc

ilustrèsum piò d’un spëc

a j ò fat sta zirudëla

se l’è bròta la-n srà bëla,

screta in prisia in Rumagnôl

ch’ u-s druvéva par al fôl

ch’a-l s’cuntéva drì a l’irôla,

e nench cvesta l’è una fôla,

int al cà di’ cuntaden

ch’i-s truvéva grend e znen

(senza la televišion)

e i-s paséva al sér d’invéran

senza bšögn d’scòrar de’ gvéran

che i-s n’à fat ža du maron ...

Cvësti agli éra al tradizion

ch’al s’è pérsi ža da un töch,

tu la tradizion de’ zöch

ch’i-l dližéva par brušêl

int la nöt de’ dè d’Nadêl.

E, stašend a cvel ch’i diš,

in ben tent di nost pajiš:

a Mašira, E’ Bunzlen,

int E’ Scâmbi e a Sâsaven,

Bëlrizët, Sâbernarden,

Bžon e La Vĕla d'Sâmarten,

Abades, Cunsëls, Vultana,

E’ Prê Longh e La Barsana,

Masa, Ros, Castëlbulgnéš,

Sâ Patrezi e clêt pajéš,

Ciribëla, Mindariôl,

Brišighëla, Fenza, Riôl,

Casanigh e Garnarôl,

Rocaziž, Campian, Slarôl,

E’ Fiunaz e L’Asension,

Pas de Gat, E’ Palazon,

Sanpancrezi, La Cuclì,

Sâtantöni e Sâpulì,

La Ca da Lugh, Bagnéra,

La Pidzižê e Gambléra,

Agli ‘Lfulsen, Lavžôla,

Agli Amunìd, Cudgnôla,

Sâlurenz, Lugh e parsena

a Furlè, Iòmla e Ravena,

Gratacöpa, La Brušê

Cunvintël e La Fraschê,

Vĕlafranca, Žagunéra

Vĕlanôva, Travarséra

a Santêgta, Fliš, Barbian,

a Santérna, E’ Gód, Pëzpan,

La Ruseta, I Pré, Majan,

Sâtalbért, Savêrna, E’ Mžan,

a La Žvëca, E’ Taj, Murdan

e d'incóra piò luntan...

in žo insena int i cunfen

cun la žöna de’ Fraréš

sena a ‘Nita, Lungastren,

Band, Arženta, Fil, Sâbiéš.

A dìj tot com a-s faral

e a-m sö šmengh Bagnacaval

e’ pajéš dla Camarlóna,

cvì dal Glôri ch’i-m pardóna.

Donca a dgimja ... e’ fat dla fôla

tòt intóran a l’irôla....

una vôlta u i éra e’ zöch,

cuntintens adës de’ blögh…

Per il mio amico al di là di Po vecchio

illustrissimo più di uno specchio

ho fatto questa zirudëla

che se è brutta non sarà bella

scritta in fretta in Romagnolo

che usato un tempo per le favole

che si raccontavano attorno all’arola

ed anche questa è qiasi una leggenda

nelle case dei contadini

vi si ritrovavano grandi e piccini

(senza la televisione)

e vi trascorrevano le sere d’inverno

senza bisogni di parlare del governo

che ce ne han già fatto una … spanciata…

Queste erano le tradizioni

che si son perse già da un po’

valga per tutte la tradizione del ciocco

che veniva scelto per essere bruciato

nella notte del giorno di Natale

e, stando a quanto si dice,

in moltissimi nostri paesi

a Masiera, al Boncellino

a Scambio e a San Savino,

a Belricetto, San Bernardino,

Bizzuno e a Villa San Martino,

Abbadesse, Conselice, Voltana,

Il Prato Lungo e Le Bresciane,

Massa, Russi, Castelbolognese,

San Patrizio e l’altro paese,

Ciribella, Mandriole,

Brisighella, Faenza, Riolo,

Cassanigo e Granarolo,

Roncalceci, Campiano, Solarolo,

Il Fiumazzo e l’Ascensione,

Passogatto, Il Palazzone,

San Pancrazio, Coccolia,

San Antonio, San Potito,

Ca’ di Lugo, Bagnara,

La Pieve di Cesato e Gambellara,

Le Alfonsine, Lavezzola,

Le Ammonite, Cotignola,

San Lorenzo, Lugo e persino

a Forlì, Imola e Ravenna,

Grattacoppa, S.Maria in Fabriago,

Conventello e La Frascata,

Villafranca, Zagonara,

Villanova, Traversara,

Sant’Agata, Felisio, Barbiano,

Santerno, Godo, Piangipane,

Rossetta, (Villa) Prati, Maiano,

S.Alberto, Savarna, Mezzano,

alla Giovecca, Taglio (Corelli), Mordano

ed ancora più lontano

giù fino ai confini

con la terra del Ferrarese

fino ad Anita, Longastrino,

Bando, Argenta, Filo, San Biagio.

A dirli tutti è quasi impossibile

e infatti ho dimenticato Bagnacavallo,

il paese di Camerlona,

quelli di Glorie che mi perdoneranno.

Dunque, dicevamo… la storia della fola

tutti intorno all’arola

una volta c’era il ciocco,

ed ora accontentiamoci del blog…

lunedì 11 febbraio 2008

Autentico successo per “L’intrigh dla Ciavga d’Legn”

di Agide Vandini




Ieri sera a Glorie nel ravennate, presso il Centro Sociale di Villa Savoia, la Cumpagneia denominata «Non, zent dal Glôri», ha rappresentato, in prima assoluta, L’intrigh dla Ciavga d’Legn (Tota cólpa de’ Mazapégul), commedia in dialetto romagnolo scritta dal filese Daniele Tasselli e ricavata dal mio racconto dallo stesso titolo, pubblicato ormai una decina d’anni fa, ne’ Il cestello dei ranocchi.

Nella sala gremitissima, su invito degli organizzatori, erano presenti i due autori, i quali non hanno potuto fare a meno di cogliere, con grande soddisfazione, l’entusiasmo e l’apprezzamento del pubblico per questo testo, divertente quanto insolito, ove sono rievocate antiche credenze e superstizioni della nostra terra, in una vicenda ambientata a tutto tondo, e con personaggi di fantasia, nella campagna filese del lontano anno 1900.

Vivissimi complimenti e congratulazioni vanno espressi agli attori ed al loro «rigesta», il dinamico Paolo Grilli, un entusiasta gruppo di artisti e di amici che con gusto, passione e capacità interpretativa, hanno saputo mettere in scena un lavoro teatrale che ripercorre aspetti curiosi e quasi dimenticati del nostro folclore e che assicura, allo stesso tempo, un paio d’ore di autentico divertimento.

Per chi non è riuscito ad entrare nella sala stipata in ogni angolo e per chiunque altro abbia ancora intenzione di assistere a questo spettacolo, la rappresentazione sarà prossimamente ripetuta a S.Antonio di Ravenna la sera di sabato 15 marzo, e poi ancora a Glorie, all’aperto, nella stagione estiva.

Si spera naturalmente di poter portare presto la commedia anche a Filo, luogo in cui è ambientata la trama, o forse è meglio dire, l’intrigh…. Sarebbe il modo migliore per rinnovarvi una passione per il teatro popolare e dialettale spentasi purtroppo una decina di anni fa, dopo una lunga e felice tradizione.

Tanti complimenti allora ed un grazie di tutto cuore agli amici di Glorie, ma credo giusto esprimere qui, ancora una volta, profonda e sincera gratitudine nei confronti di Daniele Tasselli che ha saputo arricchire e rendere tanto scoppiettante il mio testo letterario, con una creatività ed una fantasia che fanno di lui un autore di grande fascino e di rara, quanto antentica, originalità.

Nelle foto: La locandina di presentazione ed una foto di gruppo a fine rappresentazione.

venerdì 8 febbraio 2008

L’economia filese fra presente e futuro

di Agide Vandini

Ieri sera, alle 20 e 30, nella Sala della Casa del Popolo di Filo di Ferrara, gremita all’inverosimile, è sembrato di tornare indietro di molti anni.

Una grande partecipazione di popolo ha fatto da cornice all’incontro organizzato dalla locale «Fondazione Primaro» sul tema « L’economia filese fra presente e futuro» che vedeva la presenza dei rappresentanti delle Istituzioni e dei principali soggetti economici del polo industriale del Molino di Filo.

Sono intervenuti: Egidio Checcoli, presidente della Fondazione Primaro, che ha introdotto i lavori con una puntuale presentazione della realtà e dei problemi del territorio, Umberto Magnani, presidente GRAL SpA, Massimo Romani, dirigente della Serenissima CIR Spa industrie ceramiche, Daniele Balducci, dirigente del gruppo VELA Spa, Antonellini Angelo, sindaco di Alfonsine, Giorgio Bellini, sindaco di Argenta, Mario Bellini, assessore alla viabilità della provincia di Ferrara, una rappresentante della CGIL Ferrara a nome del suo segretario generale Giuliano Guietti, infine Alfredo Bertelli, sottosegretario alla Presidenza della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna che ha tratto le conclusioni finali.

All’interessante incontro, della durata di oltre tre ore, in cui si è avuto un quadro completo dei progetti e delle aspettative per l’economia del territorio e delle sue necessità infrastrutturali, hanno assistito numerosissimi giovani, membri e dirigenti di quasi tutte le realtà produttive, rappresentanti politici locali al più alto livello.

In una sala attentissima e si è avuta l’impressione di una sentita e costruttiva partecipazione ai problemi del paese e del territorio. E’ sembrata, questa partecipazione popolare, un piacevole ritorno all’antico venuto a gettare un raggio di luce e di speranza nel futuro della nostra comunità, un segnale di fiducia, un’apertura di credito che, dopo il disastroso ciclone Coop Costruttori, sta ora ai protagonisti dell’economia e della vita sociale del paese cercare di non deludere.

Gli antichi racconti nelle stalle. Eccone uno «da paura»

Si scriveva ne I cavalieri antichi dell’Anonimo romagnolo (Ravenna, Longo, 1975):

Qui [nella terra di Romagna] la famiglia contadina, legata alla tradizione arcaica della mezzadria (che ignora il villaggio rurale del sud, così come la comunità della cascina del nord), si sottrae nelle lunghe sere invernali all’isolamento della casa solitaria, con la veglia nella stalla: l’unico luogo caldo e accogliente in cui ci si riunisce coi vicini, dove la vita di relazione continua, e nella quale la saltuaria presenza del «raccontatore» costituisce volta a volta spettacolo, motivo d’evasione fantastica…

Il brano che segue è un esempio di particolare «narrazione da veglia (o trebbo)» e costituiva il repertorio di Renato Cavallini di Argenta. Il figlio Giuseppe l’ha annotato di recente in un manoscritto alla buona, raccolto da Beniamino Carlotti. Non è né una favola, né una trama cavalleresca, è un racconto fantastico per adulti, apparentemente di origine antica, di quelli comunque che venivano definiti «da paura», con un evidente sottofondo moraleggiante e religioso, di stampo quasi biblico.

E’ in ogni caso una traccia, uno schema di racconto orale alquanto raro, quindi, anche solo per questo, meritevole di essere salvato. Da parte mia mi sono mantenuto il più possibile fedele al manoscritto, cercando di dare, allo scarno schema narrativo, la forma di racconto.




Leonzio e la terribile vendetta di un morto

Narrazione da trebbo dal repertorio di Renato Cavallini di Argenta (trascritta dal figlio Giuseppe).

Adattamento alla forma di racconto di Agide Vandini



Leonzio era uno dei più ricchi Lords di Londra. Non credeva né al Paradiso, né all’Inferno, né tanto meno al Purgatorio. Veniva sopranominato il «Perfido» ed amava frequentare l’alta aristocrazia della città.
Nel suo Palazzo dava parecchi festini a cui invitava soltanto Dame e Cavalieri di alto rango. Amava passeggiare e sentirsi riverito dal prossimo, cosa che, grazie alle tante ostentazioni di ricchezza, gli riusciva piuttosto bene. Al suo passaggio spesso risuonava il grido: «Viva Leonzio…».
Un giorno, nel suo solito girovagare, dopo aver incontrato ed invitato altolocate Dame e Cavalieri al Gran Banchetto serale, ebbe a passare per il Cimitero. Subito un Teschio gli andò incontro. Lui si arrestò e cercò di tenerlo a bada con qualche colpetto del bastone. Poi, colto da un’idea improvvisa, gli lanciò un invito.
«Senti, io stasera do un Gran Banchetto per l’Altissima Aristocrazia londinese. Invito anche te. Ci dirai, quando te lo chiederò, come si sta nell’Aldilà, se c’è il Paradiso ecc. Ricordati di non mancare al mio invito, altrimenti ti farò calpestare a dovere…»
Detto questo, diede subito un saggio delle profferite minacce sferrando un calcio stizzoso al Teschio che così ruzzolò per alcuni metri. Il «Perfido» proseguì poi per il suo cammino, facendo nuovi inviti fra ossequi ed inchini.
La sera, il banchetto si svolse fra clamori, lazzi, grida di allegria e brindisi in onore del padrone di casa.
Al suono della mezzanotte, però, s’udì bussare pesantemente al portone che dava sulla strada, con colpi tali che il Palazzo tremò paurosamente. Gli invitati s’inquietarono e si domandarono cosa e chi potesse mai essere a quell’ora, capace di una forza tanto spaventosa.
Leonzio chiamò il maggiordomo e gli disse: «Va un po’ a vedere chi bussa con tanta violenza: se sono Signori, li fai entrare anche se non invitati, ma se son poveri, allora bastonali, poiché sono certamente ladri o malandrini.
Il maggiordomo si attenne agli ordini; prese una torcia, scese al pian terreno ed aprì lo spioncino.
Vide muoversi nella notte un’Ombra scura che lo terrorizzò. Per poco non svenne quando l’Ombra gli disse: «Vai dal tuo padrone. Riferiscigli che io sono il suo primo invitato a questo Gran Banchetto e che ho molte cose da dirgli».
Tremante ed impaurito il maggiordomo salì dal padrone, lo chiamò in disparte, e gli riferì il messaggio dell’Ombra scura che temeva fosse in grado di attraversare anche le pareti.
«Ho capito - disse Leonzio dopo aver meditato un po’- digli che devo disdire l’impegno con lui, dal momento che qui ora siamo in pace ed allegria…»
Preoccupato il maggiordomo ridiscese le scale e balbettando ripetè all’Ombra misteriosa i desideri del Padrone. Ma questa non se ne diede proprio per inteso: «Dì a Leonzio - ribadì - che io entro con la forza, perché gli devo dire davvero tante cose…»
Il poveretto risalì al piano superiore pieno d’angoscia, riferì al padrone l’aperta minaccia e questi s’impaurì a sua volta come non mai. Radunò tutta la servitù e si raccomandò: «Servi miei, vi ordino di chiudere a doppia mandata tutte le porte del Palazzo con chiavistelli e robuste catene».
La servitù eseguì, ma gli invitati cominciarono a presagire qualcosa di grave. Non si fece in tempo a riaversi che si sentì bussare tanto forte e tanto ripetutamente che le porte del palazzo, una ad una, crollarono come le mura di Gerico. La gente impaurita, con Leonzio in testa, si alzò dalle sedie e cercò di fuggire. Fu a quel punto che l’Ombra fece la sua comparsa in mezzo al banchetto. Disse: «Fermatevi popolo mio, continuate, continuate la vostra festa, state allegri… E’ solo con te, Leonzio, che voglio parlare…»
L’Ombra afferrò con forza il «Perfido» che se la stava dando a gambe e gli disse: «Fermati, nipote mio, io sono il Teschio a cui tu sferrasti quel calcio senza ragione. Ora ti dico chiaro e tondo quel che c’è nell’Aldilà: il Purgatorio c’è, ed è per i peccatori, il Paradiso c’è, ma non per te. Per te c’è Pluto che ti aspetta».
Mentre gli invitati sparivano in fretta, cominciò ad udirsi il lamento disperato di Leonzio: «Aiuto, ahimè…». In pochi istanti una moltitudine di topi entrò nel Palazzo e prese a divorare ogni cosa alla portata dei loro denti aguzzi. I primi oggetti ad andare in fumo furono i preziosi ritratti di famiglia di Leonzio che in pochi attimi diventarono muccchietti di segatura.
Poco a poco tutto si disintegrò e perse forma. Del Palazzo, come di Leonzio, non rimase più nulla.

Signori, questa è la morale: abbiate meno superbia, fate del bene ai poveri, e temete Dio.

martedì 5 febbraio 2008

Sant’Agata, che malinconia…

di Agide Vandini

Se siete passati per Filo, oggi 5 febbraio e giorno di Sant’Agata, patrona da quasi cinque secoli di questo antico paese[1], non vi siete neppure accorti che fosse un giorno di festa. Non è una novità, è ormai da parecchi anni che la festività è caduta in disuso, eppure la silenziosa indifferenza suona ancora strana, triste e tremendamente stonata a chi, appartenendo ad una vecchia generazione, ha conosciuto ben altri modi di festeggiare e trascorrere questo giorno così importante e in fondo rappresentativo dell’identità del paese.

Occorre tornare con la mente ai lontani anni del dopoguerra per riassaporare l’attesa, i preparativi della festa, l’arrivo e l’entusiastica partecipazione dei parenti dai paesi vicini, la chiassosità delle strade del centro brulicanti di persone, i divertimenti, i giochi, le feste da ballo. Già dal giorno di Natale dell’Anno Vecchio si cominciava a pensare a S.Agata, al giorno infrasettimanale, cioè, in cui sarebbe caduta la sua festa, giorno che coincide naturalmente con quello del Natale e del Capodanno.

Era un giorno, il 5 febbraio, ben collocato fra le feste ugualmente sentite ed oggi altrettanto in disuso dei paesi più vicini, ossia S. Macario Magno (Bando, 19 gennaio), San Sebastiano (Lavezzola, 20 gennaio), S.Biagio (San Biagio, 3 febbraio) e quella del Mért dal fëst (Longastrino, martedì dopo Pasqua). La reciproca ospitalità con parenti ed amici dei paesi vicini era una tradizione portata avanti da secoli. L’intreccio di parentele, del resto, nel mondo tanto ristretto di allora, era piuttosto consistente ed anche i legami e la solidarietà nella famiglia allargata erano certamente molto più sentiti di quanto non lo siano oggi.

Era il giorno anche del ritorno a Filo di quanti, alla ricerca di miglior fortuna, avevano scelto di vivere altrove. Tornavano, giovani ed anziani, a respirare per un giorno l’atmosfera del paese natio in quel giorno di festa, ed a riassaggiare quella «sböcia» che una famiglia filese si poteva giusto permettere, di grazia, per Natale, Pasqua e Sant’Agata.

Le giostre, i circhi, i girovaghi, giungevano in paese alcuni giorni prima. Si stabilivano al «campicello» o in altro spiazzo disponibile, mentre le nostre massaie facevano andirivieni in bicicletta fra una bottega e l’altra, oppure erano occupatissime nella preparazione dei piatti tradizionali di S.Agata (i zucaren, i caplet, i turtlen dulz cun l’alchermes, e’ lat brulè), nell’estrarre dagli armadi i vestiti «della festa» per tutti i componenti della famiglia e nel riordinare la casa per la venuta, graditissima, dei parenti da ogni dove. Averne tanti, di invitati, era considerato un onore, un segno di distinzione della famiglia di fronte al paese.

Le bancarelle giungevano di prima mattina e si stendevano lungo la strada Provinciale, davanti alla Casa del Popolo, nonché fra l’incrocio e la chiesa, a un lato della «rata» per tutta la sua lunghezza. I giovanotti, poi, in quel giorno, avevano in tasca qualche soldino in più, sicché i giochi d’azzardo «da strada» facevano sempre la parte del leone. «La bëla palutina l’è a que, l’è a lè…» s’udiva fra le bancarelle e subito si correva a far capannello intorno al biscazziere, in piedi dietro un traballante tavolino pieghevole, sopra al quale teneva schierate tre minuscole campanelle di legno. Dentro e fuori di esse saltellava come in un valzer viennese una pallina nera dalle dimensioni di un granello di pepe, che compariva e scompariva incollata al pollice dell’abile biscazziere, ovviamente assistito da finti giocatori il cui ruolo era quello di incoraggiare il gioco dei campagnoli. Affinché costoro puntassero ad indovinare dove stava la bëla palutina, i finti giocatori giocavano e vincevano in un batter d’occhio al (fintamente) irritato biscazziere parecchi biglietti da mille.

All’interno dei muretti della Casa del Popolo si piazzava invece quella specie di roulette dei poveri che era il “picche-quadri-cuori e ancorina”, un gioco d’azzardo con tanto di tabellone per le puntate che recava i simboli dipinti nelle facciate di dadi di grosse dimensioni, anche questi abilmente manovrati dal biscazziere.

Qua e là era tutto uno zufolare di ucarin e s-ciflen rŏs comprati per i più piccoli nelle bancarelle dei dolci, un’armonia di pive di carta arrotolata e di coloratissime trombette di cartone a cui faceva da controcanto lo sgranocchiare di ceci, carrube, lupini, patóna e mistuchin di cui, in quel giorno speciale, ci si poteva rimpinzare a dovere. Ogni tanto, chi si attardava nel passeggio fra le bancarelle, veniva sfiorato o colpito da palle elastiche multicolori piene di segatura, lanciate all’improvviso dai bimbetti più vivaci e festosi.

Attorno all’autopista si assiepavano invece i ragazzetti poco più che adolescenti sulle orme delle timide ragazzine accompagnate dai genitori. Erano tanti ad aspettare di poter salire sull’auto dei sogni e di poter richiamare su di sé l’attenzione, che i giri a quel punto duravano un amen. Non si faceva in tempo a fare il cambio di equipaggio, a consegnare l’unto e bisunto cartoncino marron, che già suonava la campana ed il giro era, ahimè, finito.

Per i più adulti, infine, il top della festa veniva col calar della sera, al Gran Ballo da Mlarina, ovvero al Cinema Tebaldi, trasformato per l’occasione in una balera di prima categoria, colma di ballerini e di semplici curiosi, locali e forestieri.

Va da sé che, all’epoca, nel giorno della Santa Patrona chiudevano le scuole, gli uffici, le botteghe e le aziende. Non sarebbe stato concepibile il proseguimento delle attività lavorative in un giorno come quello.

Di tutto ciò che qui si è voluto rievocare, oggi non rimane nulla, nemmeno una fotografia. E’ come se tutto fosse stato divorato da un drago enorme, come se fosse passato un uragano inarrestabile, uno tsunami che oggi potrebbe chiamarsi «globalizzazione» e che, a partire dagli anni ’70, ha fatto man bassa di quasi tutte le nostre usanze e tradizioni paesane vecchie di secoli, legate al mondo rurale e contadino.

Rimane soltanto il ricordo, ben stampato nella mente degli anziani, che ancora faticano a rendersi conto del perché e del per come, a questo mondo, si siano potute perdere e disperdere cose come queste, cose che hanno saputo darci tanta gioia e senso di appartenza alla comunità.

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La storia di S.Agata (tratta da it.wikipedia.org)

Agata, patrona di Filo e di molti altri centri fra i quali Catania e San Marino è, secondo la tradizione cristiana, una figura vissuta tra il III e il IV secolo, durante il proconsolato di Quinziano. Dalla Chiesa cattolica è venerata come santa, vergine e martire. La tradizione riportata dai canoni narra della giovane, figlia di nobili catanesi, martirizzata durante le persecuzioni di Decio o Diocleziano.

Agata nacque a Catania. Alcuni storici fanno risalire la sua data di nascita al 235, altri all'anno 230. Secondo la tradizione sant'Agata si consacrò a Dio all'incirca all'età 15 anni, ma studi più approfonditi indicano come più probabile la maggiore età di 21: non prima di questa età, infatti, una ragazza poteva essere consacrata diaconessa, cosa che, da vari segni - la tunica bianca e il pallio rosso - pare che effettivamente Agata fosse; possiamo quindi a ragione immaginarla, più che come una ragazzina, piuttosto come una donna con ruolo attivo nella sua comunità cristiana: una diaconessa aveva infatti il compito, fra gli altri, di istruire i nuovi adepti alla fede cristiana (catechesi) e preparare i più giovani al battesimo alla prima comunione e alla cresima.

Nell'anno a cavallo fra il 250 e il 251 il proconsole Quinziano, giunto alla sede di Catania anche con l'intento di far rispettare l'editto dell'imperatore Decio che chiedeva a tutti i cristiani di abiurare pubblicamente la loro fede, si invaghì della giovinetta e, saputo della consacrazione, le ordinò, senza successo, di ripudiare la sua fede e di adorare gli dei pagani. Ma più realisticamente si può immaginare un quadro più complesso: ovvero, dietro la condanna di Agata, la più esposta nella sua benestante famiglia, potrebbe esserci l'intento della confisca di tutti i loro beni.

Al rifiuto deciso di Agata il proconsole la affidò per un mese ad una cortigiana di nome Afrodisia con lo scopo di corromperne i princìpi. Pare che costei qualche anno prima fosse ricorsa in giudizio presso lo stesso proconsole per impugnare il testamento della madre, dal quale veniva estromessa. Quinziano, data la pessima fama di cortigiana che la accompagnava, ritenne più opportuno non esporsi e le avrebbe consigliato privatamente, di ricorrere direttamente all'imperatore dell'epoca, Filippo l'Arabo. L'istanza di Afrodisia sarebbe tuttavia stata respinta. Data la successiva richiesta del proconsole nella vicenda riguardante sant'Agata, è probabile che Afrodisia fosse una sacerdotessa di Venere, o di Cerere, e pertando dedita alla prostituzione sacra. Secondo la leggenda Afrodisia avrebbe avuto nove figlie (ma è più probabile che questo numero derivi da un errore di traduzione di un testo greco), che cercarono senza successo di condurre Agata all'abiura inducendola in più modi in tentazione.

Rivelatosi inutile il tentativo di corromperne i princìpi, Quinziano diede avvio ad un processo e convocò Agata al palazzo pretorio. Memorabili sono i dialoghi tra il proconsole e la santa che la tradizione conserva, dialoghi da cui si evince senza dubbio come Agata fosse edotta in dialettica e retorica.

Breve fu il passaggio dal processo al carcere e alle violenze con l'intento di piegare la giovinetta. Inizialmente venne fustigata e sottoposta al violento strappo di una mammella, la tradizione indica che nella notte venne visitata da san Pietro che la rassicurò e ne risanò le ferite, infine venne sottoposta al supplizio dei carboni ardenti. La notte seguente l'ultima violenza, il 5 febbraio 251, Agata spirò nella sua cella.

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Nelle foto:

- Filo, anni ’60. Davanti al forno della Via Bassa in un giorno di festa, forse di S.Agata.

- Sant’Agata in carcere


[1] La chiesa più antica di Filo, già esistente nell’anno 1022, era infatti dedicata a S.Maria.

Due canti popolari quasi dimenticati

di Agide Vandini

In questa irôla virtuale, mi pare debbano trovare un po’ di spazio i testi di certi canti popolari minori, inediti o poco noti, la cui conoscenza era un tempo piuttosto diffusa fra la gente, canti che nell’era dei gingilli elettronici, della tecnoclogia e della cultura globalizzata, sono passati, purtroppo, nel più oscuro dimenticatoio.

Il canto popolare, espressione di cultura delle classi subalterne, fu buon testimone di sentimenti e realtà legate alle culture regionali e sottoregionali ed a quella civiltà prevalentemente agricola che caratterizzò il nostro paese prima che iniziasse il processo di industrializzazione.

Di questi canti me ne sono venuti in mente un paio, certamente minori nel contesto regionale, canti che negli anni ‘50 ho cantato da ragazzo nei cori improvvisati in colonia nelle lunghe passeggiate al mare o in montagna, oppure seduto in corriera durante le gite scolastiche, occasioni peraltro in cui il canto di gruppo risultava in genere assai gratificante, poiché leniva la noia dei trasferimenti ed al tempo stesso calamitava su di esso tutta l’energia e l’esuberanza adolescenziale.

Era tutto sommato coinvolgente intonare assieme ai compagni queste facili e suggestive strofe che si portavano dietro magica allegria e spensieratezza e ci facevano sentire orgogliosamente parte attiva di un gruppo organizzato. Il primo canto «In mezzo al pra’» è un testo quasi interamente dialettale e questo mi pare renda la sua adeguata conservazione ancora più importante. Entrambi i motivi comunque, da allora, non mi è più capitato di sentirli.

Eccovi dunque i due canti, tracce preziose e testimonianze di una cultura popolare sopravvissuta un po’ di più in zone di civiltà contadina come la nostra, in un’area ancora tagliata fuori dai processi di marcata industrializzazione. Poi però, anche qui, è arrivata la televisione...

1. IN MEZZO AL PRA’

Là in mezzo al pra’ induvina cus ch'u j éra (2 volte)

U j éra l’albero, e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Atach a l’albero induvina cus ch’u j éra (2 volte)

U j éra i rëm, i rëm atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Atach a i rëm induvìna cus ch'u j éra (2 volte)

U j éra i bróch, i brŏch atach a i rëm,

i rëm atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Atach a i brŏch induvina cus ch’u j éra

(2 volte)

U j éra al foj, al foj atach i brŏch,

i brŏch atach a i rëm,

i rëm atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Atach al foj induvina cus ch'u j éra (2 volte)

U j éra i nid, e’ nid atach al foj,

al foj atach i bróch,

i bróch atach a i rëm,

i rem atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Dentr int i nid induvina cus ch'u j éra (2 volte)

U j éra agli uv, agli uv dentr int i nid,

i nid atach al foj,

al foj atach i brŏch,

i brŏch atach a i rëm,

i rëm atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Atach agli uv induvina cus ch’u j éra (2 volte)

U j éra al piŏm, al piŏm atach agli uv,

agli uv dentr int i nid,

i nid atach al foj,

al foj atach i brŏch,

i brŏch atach a i rëm,

i rëm atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Atach al piŏm induvina cus ch’u j éra (2 volte)

U j éra al pen, al pen atach al piŏm,

al piŏm atach agli uv,

agli uv dentr int i nid,

i nid atach al foj,

al foj atach i brŏch,

i brŏch atach a i rëm,

i rëm atach a l’albero

e l’albero piantato in mezzo al pra'.

Traduzione della strofa completa: Attaccato alle piume indovina cosa c’era / C’eran le penne, le penne attaccate alle piume / le piume attaccate alle uova, le uova dentro ai nidi, i nidi attaccati alle foglie, le foglie attaccate ai rametti, i rametti attaccati ai rami, i rami attaccati all’albero e l’albero piantato in mezzo al prato.

2. VOGLIAM VEDERE IL BOSCO

Vogliam vedere il boscožighin

Vogliam vedere il boscožigon

Vogliam vedere il bosco la bëla bajon žighin žigon e ciumbalalà

Vogliam vedere il bosco...

( nelle altre strofe si sostituisce il testo non in corsivo con:)

Nel bosco c’è la legna...

Il fuoco l’ha bruciata...

Vogliam vedere il fuoco...

L’acqua l’ha spento...

Vogliam vedere l’acqua...

Il bue l’ha bevuta...

Vogliam vedere il bue...

L’uomo l’ha mangiato...

Vogliam vedere l’uomo...

La morte l’ha ucciso...

Vogliam veder la morte...

La morte non si vede ...