venerdì 25 aprile 2008

Filo, 25 aprile 2008, il mio discorso celebrativo

di Agide Vandini

Sperando di far cosa gradita a quanti l’hanno apprezzato e ad altri che non hanno potuto ascoltarlo, inserisco qui, a disposizione di tutti, le mie parole introduttive della cerimonia, avvenuta stamattina, di presentazione del Monumento ai Caduti restaurato e della lapide ad Agida Cavalli.

Cittadini di Filo, gentili intervenuti,

ho l’onore di aprire questa cerimonia, una celebrazione che mi tocca profondamente, sia come segretario ANPI che come nipote di Agida Cavalli, di cui porto il nome, una nonna che non ho mai potuto conoscere.

Voglio innanzi tutto ringraziare i due Consigli di Partecipazione filesi e l’Amministrazione Comunale di Argenta che ha accolto le istanze dei nostri cittadini, lo scultore Andrea Bonesi, l’Architetto Stefano Villani, per la sensibilità e l’accuratezza riservata a questo monumento ai Caduti, un’opera d’arte che abbisognava da tempo di rimessa a nuovo. Un ringraziamento molto sentito lo porgo alla Comunità filese per aver voluto dedicare una pregevole stele ad Agida Cavalli, nelle adiacenze del luogo del suo sacrificio, un nome ed un simbolo che, non solo a Filo, evoca le sofferenze di tante nostre donne nei lunghi mesi della lotta di Liberazione, un lavoro quasi sempre oscuro, eppure a rischio della vita, un contributo, un sostegno ed uno spirito di sacrificio, mai abbastanza ricordati nel dopoguerra. Ringrazio infine tutti i presenti e Renata Talassi, che ha sempre avuto nel cuore questo paese, per aver accettato di intervenire oggi.








Il maestro

Angelo Biancini

(1911-1988)

Il monumento ai Caduti di Filo che possiamo riammirare nell’originario splendore, fu creato nel lontano 1955 su modello dell’architetto Parolini. Nel suo contesto furono inserite due preziose sculture su marmo del maestro Angelo Biancini, grande romagnolo, una delle figure più autorevoli della scultura italiana del Novecento, Professore all’Istituto d’Arte di Faenza, artista celebrato ed autore di opere commemorative importanti, come il Monumento alla Resistenza di Alfonsine. Sono di Biancini, in territorio argentano anche il monumento a Don Minzoni ed il busto a Maria Margotti.

Su alcuni simbolismi e significati del nostro monumento è bene soffermarsi brevemente, a cominciare dalle sculture che impersonano il «Caduto» e la «Madre» in lacrime, figure che appartengono, profondamente, al «tempo» ed al «luogo», quasi quanto la tifa (pavira), ora felicemente inserita nel contesto.

Come ebbe a scrivere Libero Ricci Maccarini - dirigente cooperativo, uno dei fautori del monumento costruito dai filesi e donato al Comune - l’Eroe di Biancini, riverso, senza divisa e con la «canottiera», «sa di ribollir di stoppie e di trebbiature patite dal sorgere del sole al cadere del giorno».

Esso «ricorda il vociare aspro del boaro ai buoi, dietro l’aratro», come l’ossuta corporatura rivela «l’uso al largo gesto dello sfalcio dei campi» «nell’assunto incombente di dare il pane ai suoi cari». «In Lui - rifletteva Libero- noi ci riconosciamo!». E nondimeno nella figura materna che ne piange la perdita. «Contrita, in quel viluppo di pieghe che, il grembiule stretto con la cordella ai fianchi, raccoglie nella mestizia della veste nera, veste che da sempre segna la costante del lutto e il sacrificio dell’esistenza vissuta solo per la famiglia. Il disperato gesto delle mani portate al volto, cerca di nascondere un pianto che vuole invocare la sublimazione della penitenza e, insieme, compassione per lei, costretta a vivere, quando il senso dell’esistenza si è dissolto con la scomparsa del figlio: quel gesto, sì, noi tutti ben lo comprendiamo!»

Le croci sul muro nudo di mattoni insabbiati e di color rosso dimesso, qual’era quello delle nostre case distrutte - sono sempre parole di Libero -, vogliono rappresentare i tanti caduti «senza indicarne il nome», mentre il marmo bugnato riprende, anonimamente, l’asprezza dei monti d’ogni paese percorso controvoglia dal soldato mandato alla guerra. Infine la pietra arenaria del muraglione di destra e dei gradoni, ricordano le vicine colline amiche, che colsero l’ultimo momento di tre nostri compagni - tre partigiani filesi - ora non più con noi a comporre le piccole e grandi cose nelle quali avevamo creduto insieme».

Libero sottolineò, infine, come il Monumento fosse concepito per ricordare tutti i morti: «i caduti da ricordare erano veramente tanti e nessuno poteva o doveva essere dimenticato. Né quelli della prima guerra mondiale […]; né gli antifascisti percossi a morte, né i primi sindacalisti bastonati e perseguitati fino alla estinzione fisica; né i caduti disseminati in Africa e sui tanti fronti dell’ultima Guerra […]; né i caduti della Resistenza; né infine quanti furono travolti nelle proprie case»

Tanti caduti, eroi «senza nome», dunque, caduti filesi di tutte le guerre e del Secondo Risorgimento. Ricordiamo qualche cifra. Furono 23 i caduti filesi del ’15-’18 e ben 141 quelli del secondo conflitto mondiale: 92 caduti civili, 31 militari e 18 Martiri della Libertà, 18 stellette che onorano per sempre la nostra bandiera, e fra questi: sei partigiani, i dieci civili trucidati dai tedeschi l’8 settembre del ’44 (cinque alla Bastia e cinque nell’incrocio di Filo), Mario Babini (medaglia d’argento al valor militare) ed Agida Cavalli.

Agida, madre 53enne, bracciante, moglie di un umile calzolaio filese, fu colpita da una raffica mortale in pieno slancio d’amore e di disperazione materna. Voleva salvare ad ogni costo, da morte sicura, il figlio Guerriero, che dormiva ignaro con la moglie Elvira e la figlioletta Carla, in una stanza appena fuori dalla povera abitazione, oggi giardino Barabani, di lato alla piazza che, dal dopoguerra, porta il suo nome.

Guerriero, il figlio maggiore, era da anni la grande preoccupazione dell’Agida che, qualche mese prima aveva dovuto sopportare anche il distacco da Sereno, il più giovane dei suoi tre figli, deportato in Germania.

Giovane fabbro alla «Lodigiana», Guerriero già nel novembre del 1930, appena diciottenne, era stato uno degli antifascisti romagnoli arrestati dal regime, processato dal Tribunale Speciale Fascista di triste memoria con altri giovanissimi 21 filesi, e condannato a 18 mesi di carcere. Al 12mo mese aveva persino rifiutato di sottomettersi alla «Grazia Sovrana» preferendo, piuttosto, scontare la pena per intero. Tornato dalla guerra, dopo l’8 settembre del ’43, aveva riaperto la sua piccola bottega a Bando ed era entrato nelle fila partigiane.

Quella fredda e triste notte del 29 febbraio 1944, Guerriero, come il suo vecchio compagno di carcere Giovanni Matulli, fu purtroppo scelto, proprio per il suo passato di antifascista irriducibile, come vittima designata di una spedizione punitiva delle Brigate Nere, una «squadra della morte» composta da dodici «camicie nere», giunta a Filo dal ferrarese per «dare l’esempio», in un noto e famigerato paese di «rossi».

La povera Agida non poté vedere che un annuncio di morte, negli occhi che spuntarono dal buio sull’uscio di casa, occhi spiritati e assetati di sangue, che si agitavano al di sopra di brutali fazzoletti che coprivano le facce, e che chiedevano la consegna di suo figlio. Lei guadagnò tempo come poté, abbandonò ogni paura, corse disperata per la casa, per avvertire Guerriero, per dargli la possibilità di fuggire. Cadde tramortita sull’uscio posteriore, invocando suo figlio, colpita da una raffica spietata e mortale, dai colpi degli squadristi appostati dietro casa, da chi doveva essere, in quella terribile notte, il carnefice di Guerriero.

Agida Cavalli

Seppe soltanto nel letto di morte che il suo sacrificio non era stato vano. Guerriero e Gianël, caricati sulla camionetta degli squadristi, in fretta e furia, ancora in camicia da notte e senza sapere cosa fosse successo all’Agida, all’ultimo momento, già scaraventati per l’esecuzione sommaria nel fosso della Civettara (oltre Case Selvatiche), furono risparmiati, forse in un soprassalto di umanità, dopo che qualche scrupolo, un minimo di resipiscenza, riuscì evidentemente a toccare persino uomini imbestialiti come quelli, messi di fronte ad un sangue che gridava vergogna, al sangue di una madre, e di una madre tanto coraggiosa.

Tanti scrittori, anche famosi, hanno voluto ricordare il gesto dell’Agida. Antonio Meluschi, Dario Fo e Franca Rame, fra i tanti. Renata Viganò, la scrittrice de’ l’«Agnese va a morire», definì nel dopoguerra Agida Cavalli «madre della Resistenza» e proprio in suo nome aveva combattuto a Filo la sua formazione partigiana di pianura, una delle tre della 35° Brigata Garibaldi «Mario Babini», quella che poco più di un anno dopo la notte assassina, il 14 aprile del ’45, partecipò con le «forze «alleate» alla battaglia del «Molino», battaglia che portò la Libertà in questo piccolo paese ormai ridotto in macerie.

Come ho detto, non ho mai potuto conoscere la nonna Agida. Nacqui nel novembre del ’45 a Liberazione avvenuta e 17 mesi dopo la sua morte. Mio padre volle, in segno di riconoscenza, che portassi il suo nome, e sono sempre stato, per i filesi, e’ fiôl d’Gveriéro dl’Agida. Ho sentito tanto parlare di lei dai miei familiari, mi è stata raccontata più volte la sua storia triste, sempre però con grande dolore e mestizia, con senso profondo della mancanza, mai con ansia o istinto di «vendetta», una parola che, in casa, non ho mai udito pronunciare. Credo sia stata, in fondo, la lezione più bella che, come figlio e come nipote, io abbia ricevuto.

Come cittadino, ho sempre pensato che sia giusto e importante, perché il suo sacrificio non sia stato inutile, che del suo gesto d’amore, della sua figura di madre e di donna coraggiosa, sia conservata fedele memoria. Il suo nome, io credo, può ancora essere di insegnamento alle generazioni di oggi e a quelle che verranno, ricordando, anche a chi tenta talvolta di beffarsi della storia, quanto siano costate, anche qui fra noi, in fatto di sofferenze, di vite umane ed estremo sacrificio, le Parole e le Idee, di Libertà e Democrazia.

La stele ad Agida Cavalli

(cliccare sull'immagine per vederla ingrandita)














Il Monumento ai Caduti restaurato





sabato 19 aprile 2008

25 aprile - Novità a Filo


di Agide Vandini

In occasione del prossimo 25 aprile verrà inaugurato il Monumento dei Caduti di Filo, al termine dei lavori di restauro effettuati per interessamento dell’Amministrazione Comunale di Argenta, e verrà allo stesso tempo scoperta una nuova lapide in memoria di Agida Cavalli, martire antifascista, cui è dedicata la piazza antistante.

A fianco si riporta il programma della sentita cerimonia.

Il giorno 24 aprile, ore 10 è previsto, nella stessa Piazza Agida Cavalli, un incontro organizzato dal Consiglio di Partecipazione con le scuole elementari di Filo, al fine di presentare ad alunni ed insegnanti le prestigiose opere ed illustrare e spiegare gli eventi di cui tramandano la memoria.

martedì 15 aprile 2008

Elezioni Politiche a Filo

di Agide Vandini

Riporto, per i lettori interessati, i risultati delle elezioni per la Camera dei Deputati a Filo tenutesi il 13 e 14 aprile. I dati sono l’aggregato delle due frazioni di Filo d’Argenta (2 seggi) e di Filo d’Alfonsine (1 seggio). I dati fra parentesi si riferiscono alle analoghe elezioni 2006.

Su 1810 (1869) elettori, di cui 1379 (1429) a Filo d’Argenta e 431 (440) a Filo d’Alfonsine, i votanti sono stati l’89,9% (92,7%). Di questi l’87,0% (90,7%) sono risultati voti validi, con bianche e nulle pari quindi al 2,9% (2,0%).

Queste le distribuzioni percentuali dei voti validi:

Sinistra Arcobaleno…………......................... 3,6% ( 9,9%)

Altri di Sinistra………........................……….. 1,7% ( 0 %)

Partito Democratico…………............................. 67,7% (67,5%)

Italia dei Valori………………................................ 2,8% ( 1,8%)

Veltroni premier...................................... 70,5% ( 69,3%)

Socialisti (Rnp+Psdi+Dc/Psi)................. 0,7% ( 2,0%)

Consumatori…………………. ..................... 0,2% ( 0 %)

UdC……………………….........................…… 2,7% ( 1,8%)

Popolo della Libertà…………......................... 15,5% (14,7%)

Lega Nord…………………................................. 3,6% ( 2,2%)

Berlusconi premier……….................…. 19,0% (16,9%)

La destra-Fiamma…………..................... 0,9% ( 0,1%)

Altri di destra……………….. ................... 0,6% ( 0%)

Totale ............................................... 100,0% (100,0%)

sabato 12 aprile 2008

Addio a Suor Giulia

di Agide Vandini

Ci ha lasciato definitivamente, pochi giorni fa e all’età di 95 anni, Suor Giulia Giulietti.

Apparteneva alla Congregazione delle Suore della Provvidenza e dell’Immacolata Concezione ed era stata, in anni ormai lontani, «Superiora» delle Suore dell’ex Asilo Parrocchiale di Filo.

Si è spenta presso il Convento di Badia a Ripoli in Firenze ed i suoi funerali sono stati celebrati lo scorso 8 aprile in Perugia, sua città natale, ove ora riposa per sempre.

Chi l’ha conosciuta, e soprattutto chi (come lo scrivente) l’ha avuta come amorevole insegnante, non potrà mai dimenticarne la dolcezza, il garbo, la gentilezza ed il suo amore sempre più grande per la gente, per tutta la gente di Filo.

Chi rimase in contatto epistolare con lei dopo la soppressione dell’Asilo Parrocchiale, è buon testimone di quanto «Suor Giulia» abbia sempre ricordato, anche in anni recenti, i suoi bambini di Filo, via via diventati uomini e donne ed oggi ormai sereni pensionati dai capelli bianchi.

In ricordo della sua opera meritoria a Filo e delle sue rare doti umane, mi è caro pubblicare una foto del mio album che risale ai primi tempi dell’Asilo quando fui, assieme a Don Romeo Cantelli, uno dei primi bimbi affidati alle cure delle suore, e cioè a Suor Giulia, Suor Regina, Suor Matilde, all’epoca guidate dalla prima Madre «Superiora», Anna Maria Magrini.

La foto è del 1949 e da sinistra a destra vi si riconoscono:

- nella fila superiore davanti a Suor Giulia: Ainis Coatti (la 2°), Ravaglia Mario (3°), Tirapani Rino (4°), Baldi Angelo (5°), Baldi Valdes (6°).

- in seconda fila: Ettore Fabbri (1°), Libero Mondini (2°), Costa Floriano (4°), Romeo Cantelli (a sinistra della bimba col grembiule nero e colletto bianco), Agide Vandini (ultimo a destra in piedi).

- in prima fila seduti: Romana Contoli (davanti ad Ettore Fabbri), Diana Pollini (sulla destra di Costa Floriano), Adriana Principale (davanti a Diana Pollini); le ultime tre a destra sono: Ovidia Guidarini, Ida Trentini e Silvana Diani.

Nella Chiesa di S.Agata in Filo verrà celebrata una messa dedicata a Suor Giulia lunedì prossimo 14 aprile alle 20 e 30.

Anche da questo sito, un ultimo caro ed affettuoso saluto: Addio Suor Giulia, dalla tua gente di Filo, con tanta gratitudine.

lunedì 7 aprile 2008

«Romagna», «Romagnola» e confine settentrionale

di Agide Vandini

Sul tema spinoso dei «confini della Romagna», ed in particolare del «confine nord», mi sono cimentato un paio di volte[1]. Ho usato l’aggettivo «spinoso» e credo che, da sempre o quasi, l’argomento lo sia. E’ altrettanto vero che da questi confini dipende, non tanto un’appartenenza amministrativa, quanto un’identità culturale, e quindi credo sia giusto tornarci sopra cercando di chiarire qualche concetto.

Scriveva in proposito Giovenale Santi che «i litigi in Romagna sono particolarmente sconsigliati, e particolarissimamente si sconsiglia di discutere con i Romagnoli quali siano i confini della Romagna. Se vi si fosse tirati per i capelli, ci si tenga sul vago e si stia sul largo, si tagli sempre con abbondanza»[2].

Peccato che poi, dopo una simile lodevole premessa, lo stesso autore si sia lanciato in una ricostruzione monca ed improvvisata dei confini settentrionali romagnoli, basata su considerazioni del tutto arbitrarie ed avventate[3]. Del resto, si sa quanto sia più facile predicare, che non razzolare…

Certo è che, sul termine «Romània o Romagna», nel corso dei secoli si è fatta un po’ di confusione. Fu coniato, a quanto se ne sa, nel VI secolo, e definì il territorio fedele alla romanità in tempi di occupazione longobarda, territorio riconducibile all’odierna regione Emilia-Romagna ad oriente del Panaro.

Poi, però, con l’andare dei secoli, con lo stesso termine si è preso ad indicare, nel comune intendere, un’area più ristretta ed omogenea quanto a parlata, usi, costumi e cultura popolare. A differenza della «Romagna storica», insomma, nella «Romagna moderna» non si fa più rientrare, per convenzione, né «bolognesi», né «ferraresi», i quali, d’altronde, romagnoli non si sentono per nulla.

La più classica definizione dell’originaria Romagna la dobbiamo ai celebri versi di Dante Alighieri che ci ha lasciato precisi connotati geografici: tra ‘l Po e’l monte e la marina e ‘l Reno…[4]

Chiare vi appaiono le delimitazioni territoriali ai quattro punti cardinali della Romagna di allora, ossia il confine nord (il Po), quello sud (il monte), quello est (la marina), quello ovest (il Reno). Naturalmente, per posizionare correttamente tali confini, si deve far riferimento alla geografia fisica e politica dell’epoca, quella da cui il Sommo Poeta non poteva prescindere.

Il Reno nel Trecento spagliava e si impaludava nelle valli del bolognese e quindi il confine occidentale dantesco non poteva che corrispondere all’odierno corso iniziale del fiume, ossia al tratto che, dall’Appennino, fin quasi a Poggio Renatico, punta dritto verso nord[5].

La «Romagna» dantesca include insomma il territorio «bolognese» e il Poeta lo ribadisce poco dopo quando, fra i tanti buoni romagnoli del passato, annovera il bolognese Lambertazzi già a capo dei ghibellini di Romagna (Oh Romagnuoli tornati in bastardi! / Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?/ Quando in Faenza un Bernardin di Fosco,/ verga gentil di piccola gramigna?).

Anche il «ferrarese», naturalmente, per Dante è in Romagna. Egli colloca per questo il confine settentrionale al Po includendovi tutti i suoi rami deltizi, considerato che le dimensioni dell’ex Esarcato, e quindi la giurisdizione papale, giungeva allora fino all’Adige.

Questo, stando a considerazioni logiche, poiché la «Romagna», nella visione politico-geografica di Dante, non poteva discostarsi dall’area di influenza «papale», un’area in cui le investiture feudali o signorili erano di spettanza pontificia, soprattutto dopo la rinuncia ad ogni potere sulla «Romània» fatta dall’imperatore Rodolfo d’Asburgo pochi anni prima, nel 1278. Il confine con l’egemonia «imperiale», il limes, si collocava, com’è noto al Panaro o, in molti punti, fra questo ed il Reno.

Ma se tale era l’estensione della «Romagna o Romània» al tempo di Dante, come doveva viceversa definirsi quell’area più ristretta e linguisticamente omogenea che, già all’epoca, si differenziava quanto meno «politicamente» dal resto della regione, tanto da costituirne una specifica Provincia?

Qui, a mio parere, ci viene in soccorso, cinquant’anni dopo la morte di Dante, il Cardinale Anglic Grimoard De Grisac, fratello del papa Urbano V che, inviato a Bologna come legato apostolico, nel 1371 fece stilare, unitamente ad una «Descriptio civitatis Bononiensis», una preziosa «Descriptio provinciae Romandiolae», ove, con rispetto ad ogni comitatus, civitas, castrum, villa, ecc., fu censito il territorio romagnolo fino al confine col «Ferrarese», confine che vediamo correttamente tracciato nella tavola elaborata dal Mascanzoni[6].

Nel particolare, ove le linee punteggiate rappresentano i confini di comitatus, non sono indicati tutti i villaggi a sinistra del Padus Primarii censiti nella Descriptio. Eccoli allora elencati da ovest ad est coi focularia fra parentesi: Villa Sancti Blasii (50), Villa Sablonarie (18), Villa Domorum Selvaticorum (34), Villa Lombardie (40), Villa Riperie Fili (25), Villa Longastrini (33), Villa Fossa Pudole (18, unico villaggio alla destra del fiume), Villa Humane (9), Villa Sancti Alberti (22). Si noti come la riviera fluviale contasse all’epoca ben 249 focularia, una popolazione di tutto rispetto se si considerano i 70 di Russi, i 33 di Conselice ed i 1743 di tutta la civitas Ravennae.

Sul posizionamento del confine settentrionale della Romandiola alla linea delle Valli di Comacchio ora prosciugate, non sussistono dubbi, dal momento che la Riperia Padi, secondo gli Statuti Ravennati che ne regolavano obblighi e diritti, faceva parte del Comitatus Ravennae. Questo, a sua volta, aveva per confini: «Civitas Ravennae, posita est in provincia Romandiola […]cuius comitatus est in confinibus comitatus Cervie, Cesene, Forlivii, Faventie, Casemurate, Bagnacavalli et Argente»[7].

Argenta, d’altra parte, ravennate in origine, ma da un paio di secoli vittima delle mire espansionistiche ferraresi, all’epoca della Descriptio era già stata affittata (ed in procinto di essere venduta) alla Signoria Estense, intenzionata ad esercitarvi il controllo della navigazione fluviale sul Po di Primaro.

Dunque la «Romagnola» o «Romandiola» che dir si voglia, è il termine con cui nel Medioevo si identificava l’odierna «Romagna», termine peraltro con cui i ferraresi hanno continuato a definire fino all’Unità d’Italia i loro possedimenti ravennati. Di questa Provincia Romandiolae conosciamo bene il confine settentrionale ed abbiamo visto come comprendesse da almeno quattro secoli, anche tutta la Riviera di Filo, ossia la terra a nord del Primaro, dalla Bastia al mare.

Il territorio rivierasco poi, col suo bastione costruito a fine Trecento a guardia di un crocevia fluviale di fondamentale importanza militare e commerciale, sede di un rastellum dai consistenti pedaggi, finì a sua volta agli Estensi verso il 1433, nel quadro dell’espansione quattrocentesca ferrarese, espansione che interessò anche Lugo, Bagnacavallo, Fusignano terre tutte di conquista che diventarono la Romagna estense[8].

A conclusione di queste note, allora, si può ben ribadire ancora una volta come l’appellativo di Romagna o Romagnola ferrarese, che fu riconosciuto alle terre restituite alla provincia di Ravenna nel 1861, vada oggi mantenuto per i villaggi dell’antica «Riperia Padi», ossia San Biagio (Sancti Blasii e Villa Sablonaria), Case Selvatiche, Filo e Molino (Villa Domorum Selvaticorum, Villa Lombardie, Villa Riperie Fili), Menata e Longastrino (Villa Longastrini, Villa Fossa Pudole) ed Anita (Villa Humane).

Quale che sia la loro dipendenza amministrativa, questi villaggi e territori, che nel dialetto, usi e costumi romagnoli si sono sempre riconosciuti, hanno anche sostanziose ragioni storiche, per far parte, a pieno titolo, dell’area culturale che fu dell’antica ProvinciaRomandiolae.


[1] Si veda in A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp.29-32 e in A.Vandini, Sul controverso confine nord della Romagna, «La Ludla», 1, XII, 2008, pp. 4-5. Quest'ultimo articolo è stato pubblicato in questo blog il 13 novembre 2007 col titolo A sen di' Rumagnul (per visualizzarlo è sufficiente cliccare nell "Archivio" su "2007" e scorrere fino alla data suddetta).

[2] G.Santi, Il segreto dei confini romagnoli, in *Guida ai misteri e segreti dell’Emilia-Romagna, Milano, Sugar, 1987, p. 9.

[3] Non saprei definire altrimenti l’affermazione secondo cui il confine della Romagna andrebbe arretrato alla linea del Reno, poiché così «dovrebbero restar fuori della Romagna due triangolini di terra, dove però non c’è niente».

[4] Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto XIV del Purgatorio (vv. 91-126). Il poeta è a colloquio col romagnolo Guido Del Duca che lamenta: «dentro a questi termini è ripieno / di venenosi sterpi, sì che tardi / per coltivare omai verrebber meno». La Romagna insomma era, a suo dire, un territorio infestato da sterpi così velenose che, per quanto lo si coltivasse, avrebbero tardato a sradicarsi.

[5] La curva che compie fin sopra Molinella e poi verso il mare è infatti opera artificiale del Settecento. Nel XVI secolo e per un breve periodo se ne tentò l’immissione nel Po di Volano, ma, per i danni riportati, ne fu poi staccato e riportato dov’era. Non si trovò adeguata soluzione fino a metà Settecento, quando il Reno fu prolungato ed immesso nel Po di Primaro a Traghetto, vicino a Molinella. Indi si procedette a una serie di rettificazioni fluviali all’alveo ricevente a quel punto inevitabili. Una di queste rettificazioni (1782) interessò il territorio di Filo e Longastrino, ove il fiume fu spostato più a sud di un paio di chilometri. L’alveo di Po Vecchio determina, ancora oggi, il confine amministrativo fra le province di Ferrara e Ravenna.

[6] Tavola allegata a: La Descriptio Romandiolae del Card. Anglic a cura di Leardo Mascanzoni, Bologna, Soc.St. Romagnoli, 1985.

[7] Ibidem, p. 237. Il «totum et integrum Comitatum Argentae» era invece costituito da: «ipsam Argentam, Portum et totam plebem de Portu scilicet, Caput Sandali, Grassallum, Ripapersicum, Virgundinum, Portum Vetrariae et Sandalum Materium quoque» (la stessa Argenta, Portomaggiore con tutti i suoi abitanti, Consandolo, Grassallo, Ripapersico, Virgondino, Portoverrara e Sandalo con Maiero), v. F.L.Bertoldi, Memorie Storiche d’Argenta, ferrara, 1787, III, parte I, p. 42.

[8] Il territorio a sud del Primaro in corrispondenza della Riviera di Filo, detto anche «Territorio Leonino» e dove oggi si estendono Filo e Longastrino «di Alfonsine», non fu invece mai ceduto ai ferraresi ed appartiene tuttora alla provincia ravennate.

giovedì 3 aprile 2008

L'intrigh dla Ciavga d'Legn ad Alfonsine


Sabato prossimo 5 Aprile 2008

al teatro Monti di Afonsine, alle ore 21

sarà di scena

La compagnia Teatrale " Nò, zent dal Glori "

che presenterà

L'intrigh dla Ciavga d'Legn (tota colpa de' Mazapégul)
Commedia in due atti ed un epilogo

di Daniele Tasselli
ispirata dal racconto di
Agide Vandini

rappresentata di recente con grande successo
a Glorie ed a S.Antonio di Ravenna


Ci sarà da ridere e siete tutti invitati.
L'incasso della serata sarà devoluto in beneficenza