lunedì 24 novembre 2008

E’ fat ad Bigiöla

Personaggi filesi (3): Minghetti Luigi (senior) di Agide Vandini

Ho avuto proprio in questi giorni foto e ricordino funebre del mitico Bigiöla, alias Minghetti Luigi (senior) da Filo (1876-1954), protagonista di una vicenda fra le più raccontate del nostro piccolo paese, storia che ebbi ad inserire nella mia prima raccolta di racconti, una quindicina d’anni fa.

La bella foto avuta dai nipoti Genoveffa e Luigi (junior), la riporto volentieri qui a fianco, ma mi è parsa soprattutto una buona occasione per riproporre il personaggio a chi non avesse ancora avuto modo di conoscerlo, in una versione riveduta, più completa e, io credo, profondamente migliorata.

E’ una storia sicuramente singolare, una leggenda filese destinata a durare ancora nel tempo, bella da raccontare e da gustare specialmente in questa stagione, presso il focolare, davanti alle sue magiche falèstar che salgono fino al cielo danzando per il camino, in buona compagnia e piacevolmente seduti di fronte all’irôla, con un pugno di castagne in una mano e, nell’altra, l’immancabile e profumato bicchiere di vino.

Buona lettura e buon Bigiöla a tutti...

BIGIÖLA

(da A.VANDINI, Gente semplice: Quand che int la porta u j era la rametta, Faenza, Edit, 1994, pp.69 ss,)

Se c'è mai stato un uomo, a Filo, di tale imponenza fisica da divenire, per i contemporanei, quasi mitico e proverbiale, questi è stato il vecchio e amato Bigiöla. Sono certo, del resto, che la sua leggenda durerà ancora per parecchio tempo, soprattutto a causa di una storia di cui fu protagonista e che sto per raccontare.

Definirlo grande e grosso è dire poco. Ai suoi tempi, la mole spropositata e fuori dal comune colpì e impressionò talmente la gente del suo paese, da divenirne orgogliosa, da farne un vanto per tutta la comunità. Del resto qui a Filo, oltre alle straordinarie proporzioni corporali, si è sempre conosciuta bene di Bigiöla anche l’infinita e profonda bontà, né da parte sua si seppe mai di prepotenze ai danni di chicchessia, nonostante l’eccezionale struttura fisica avuta in dote misteriosamente da madre natura.

Le sue misure erano così fuori dal normale che, da soldato, a quanto si racconta, per alcune settimane egli rimase vestito in borghese, e questo a causa della mancanza di scarpe adeguate nonché di una qualsiasi divisa che potesse calzargli decentemente.

Data l’indole bonaria e la mole gigantesca, Bigiöla pare comunque che abbia sempre vestito a modo suo, ossia in maniera piuttosto singolare e inconsueta, un po' perché non si trovavano mai misure adatte a lui, e un po' per vezzo, perché talvolta pareva incuriosito dall'effetto che tanta stranezza faceva sugli altri. Agli enormi piedi, comunque, portava abitualmente, più per necessità che per scelta, zoccoli o sandali fatti in casa, calzature confezionate alla bene meglio e, ovviamente, di dimensioni spropositate ed impressionanti.

Fatto sta che persino poco tempo addietro, quando in questo paese si vendevano ancora scarpe alla bottega di Olao, e’ canzuler, e il gigantesco filese ci aveva già lasciato da un pezzo, davanti alla proposta di un paio di calzature di misura spropositata, si sentiva ancora dire: «Quësti agli è trop grandi, quësti al và bèn à Bigiöla...» (Queste son troppo grandi, queste vanno bene a Bigiöla…).

I contemporanei lo ricordvano come uomo infinitamente buono, spontaneo, poco incline alla malizia e fu certamente per questo che finì un giorno, o forse è meglio dire «una notte», per diventare protagonista, suo malgrado, di un memorabile episodio, di quelli che il tempo non ha cancellato e che viene ancora rammentato spesso all’osteria, oppure davanti ai tepori dell’irôla (il focolare) e di un bicchier di vino.

Il cimitero, si sa, da che mondo è mondo, è luogo di estremo rispetto e devozione per i trapassati, ma è anche centro nevralgico di fantasiose paure, di terrori forse atavici, di remore antropologiche che ancora ci portiamo dentro e che si fanno sentire, irrefrenabili, in particolare al sopraggiungere dell'oscurità.

Quello di Filo, al tempo di Bigiöla, era del resto un camposanto piuttosto isolato, lontano dall’abitato e ricavato nel greto del fiume vecchio, lungo la strada che dal Borgo Maggiore porta al Molino, senza un lume o un barlume decente nelle vicinanze. Va da sé che tutti lo abbiano sempre ritenuto, di notte, un luogo di convegno per spiriti vaganti, un crocevia di voci misteriose e fuochi fatui, regno incontrastato di veloci piligrin in grado di sgattaiolare da ogni parte e di inseguire senza scampo estranei e malcapitati.

Insomma, a farla breve, a Filo, come certamente altrove ai tempi di Bigiöla, quando cominciavano a inscuris i canton (all’imbrunire), dal cimitero e dai suoi profondi misteri si stava ben volentieri alla larga.

I racconti della gente, poi, sembravano fatti apposta per spaventare e tener lontani dal luogo santo nelle ore notturne anche i più arditi, malintenzionati e facinorosi.

Si raccontava, ad esempio, di un Tizio che, per scommessa, era entrato di notte in un cimitero chissà dove e, camminando al buio, era rimasto impigliato in una sporgente croce di ferro. Al poveretto, sentendosi tirare per il fondo dei pantaloni e preso dal terrore, non rimase che mettersi a correre a più non posso per cercar pace chissà dove, ovviamente lasciando sul posto buona parte delle braghe, ritrovate e recuperate con più calma soltanto alle prime luci del mattino.

Nonostante questo, qualche scherzo di cattivo gusto si sapeva consumato proprio lì, a Filo, nella cappelletta riservata alla veglia dei defunti. I nostri nonni ci raccontavano infatti, con un po’ di orrore, della burla grossolana compiuta tempo addietro da un giovinastro locale ad un ignaro compagno di veglia.

Fu dopo ore ed ore passate al lume di candela che costui ebbe l’idea di uno scherzo, ingegnoso quanto lugubre, ai danni dell’amico. Gli chiese cortesemente di portargli dalla fontana un po’ d’acqua e, nel frattempo spostò il morto sulla sua sedia prima di mettersi lui stesso, ben disteso, nella cassa funebre.

L'amico, tornato al tenue lume della candela, già impaurito dal tetro scenario che circondava la cappelletta, porse il bicchiere a quello che credeva il compagno di veglia. L’amico lì seduto, tuttavia, pareva disinteressato e non aver più bisogno di dissetarsi, sicché provò ad insistere:

- Alóra a vut bé sé o nö ? (Allora vuoi bere si o no?)

Non fece in tempo a stupirsi della mancata risposta. Arrivarono improvvisamente, dalla cassa funebre, o chissà, forse direttamente dall'oltretomba, queste parole:

- Damn a me, se lo u n'in vô briša! (Dammene a me, se lui non ne vuole!)

Non è difficile immaginare la faccia trasecolata e la reazione disperata di quel poveretto che, di sicuro, non s’aspettava, così all’improvviso, domande del genere e che fu lì per andarsene anche lui all’altro mondo…

Proprio in quella stessa chiesetta si trovò il nostro Bigiöla, per dare l’estremo saluto ad un defunto, suo lontano ma caro parente. Rimase coi familiari più stretti per qualche ora, poi, verso sera, il mite omone cercò di insistere con gli addolorati parenti affinché si prendessero un po’ di pausa e tornassero a casa.

«Andate, - disse - cosa volete mai... Date retta a me: ormai non ci si fa più niente purtroppo; anche restando qui tutta la notte al freddo… State tranquilli: ci sto io!»

Rimasto solo in compagnia del defunto, Bigiöla si scrollò leggermente le spalle e si strinse attorno al corpo gigantesco l’inseparabile caparëla (il mantello tradizionale romagnolo), un capo d’abbigliamento all’epoca già superato, ma che lui, sempre alle prese con le difficoltà di trovar capi della sua misura, non aveva mai abbandonato. Era sicuro che durante quella lunga notte la nera e spessa caparëla lo avrebbe riparato e riscaldato come non mai.

Il tempo trascorse purtroppo con grande lentezza. In quell’autunno ormai inoltrato, le ore (o forse i minuti, perché non era solito portare l'orologio) sembrarono, al buon uomo, lunghe ed interminabili. Senza la minima idea dello scorrere del tempo, Bigiöla pensò ad un certo punto di sgranchire le gambe, di muoversi un po' nella rigida notte che appariva piena di stelle. Si alzò così dalla sedia e fece due passi lungo il breve sentiero ghiaiato che collega la cappelletta al cancello d'entrata.

Proprio in quel momento sentì giungere dalla strada, prima lontane e poi vicine, le voci di due ignari paesani che, chiusa ormai l’osteria, se ne stavano tornando in bicicletta verso casa e si scambiavano distrattamente le ultime chiacchiere intorno ai pochi lavori che la campagna richiedeva in quel periodo.

Forse, si disse Bigiöla, del tempo ne era davvero già trascorso parecchio, sicché pensò lì per lì di approfittare dell'insperata presenza. Senza pensarci neppure un attimo abbrancò di colpo con le capaci manone la sbarra superiore del cancello, si tirò su di peso e si sporse un po' in avanti per mettersi in vista. Infine, con la forza e la foga di chi è da troppo tempo in silenzio, gridò :

« Ch'ór èl tabêch...?» (Che ore sono ragazzi...?)

“ … Ch'ór- è-è-è-lll....??!!” Alla vista di quell'ombra gigantesca, di quella creatura spaventosa dalle strane forme, avviluppata nell’enorme mantello nero che si alzava e pareva gonfiarsi nel buio a cavallo del cancello del cimitero, i due disgraziati si fecero sopraffare dal panico al punto da perdere persino la percezione della saliva in bocca. Le parole per rispondere? Ma quali parole…

Trascorsi i primi attimi di terrore, senza neppure scambiarsi uno sguardo, presero entrambi a pestare sui pedali come stantuffi del treno ed a spingere come forsennati per quanta forza avessero. Al loro passaggio davanti al cancello e per un lungo tratto, la ghiaia grossa sparsa sulla strada andò a schizzare da ogni parte e ricadde a ripetizione nell’acqua del fosso come un esercito di ranocchi. Non tirarono il fiato, i due malcapitati, fino a casa, soprattutto non si voltarono indietro neppure una sola volta per guardare, neanche da lontano, quel satanasso enorme che, nella notte e sopra il cielo del cimitero di Filo, continuava a gridare coi piedi sul cancello:

«Ch'ór èl... Dgìm sól ch'óra ch'l'è, tabêch...» ( Che ore sono?...Ditemi solo che ore sono, ragazzi...)

E' più che certo che, recuperata la porta di casa, i due emuli di Binda e Girardengo fossero ancora molto scossi quando furono sotto le coperte a dormire, ammesso davvero che quella notte siano riusciti a chiudere occhio. In cuor loro devono aver pensato ad una apparizione del diavolo in persona, giunto forse a convegno, per chissà quali strane ed ignote ragioni, proprio nei pressi del cimitero di Filo.

Il buon Bigiöla invece, persa ogni traccia e contatto umano per il resto della nottata, si rassegnò ad aspettar l'alba nella sola e quieta compagnia dei defunti. Ebbe coscienza del tempo trascorso molto più tardi, al canto di un gallo che, dal vicino Stalon, interruppe con fragore, e di soprassalto, il silenzio della notte.

C’è chi giura comunque che il buon uomo, avvolto nella calda caparëla, pur rattristato dalla circostanza luttuosa e dalla lunga veglia funebre, quando apparvero i primi bagliori del nuovo giorno, stesse ancora ripensando ai quei due poveri ciclisti fuggiti di gran carriera nella notte. Rammentando quel « Ch'ór èl? » che aveva provocato tanto sbigottimento, egli scuoteva ogni tanto il capo e, sotto i piccoli baffi grigi, celatamente sorrideva fra sé e sé. Era divertito sì, ma come sempre, egli era soprattutto meravigliato e sempre più stupito dalla «meraviglia» altrui.

giovedì 20 novembre 2008

La piadina rumagnôla

Una buona ricetta fra storia e poesia

di Agide Vandini

E’ una ricetta semplice, diversa dalle tante presenti in rete, ma di ottimo gusto e che, con la versione in esperanto, si vuole proporre anche a chi non ha mai potuto assaggiare la nostra «piê», al lettore lontano, di ogni lingua e nazionalità.

PIADINA ROMAGNOLA

Ricetta di casa Vandini - Filo (RA), Italia

Ingredienti:

500 grammi di farina di grano tenero (tipo 0)

100 grammi di margarina morbida

1 Cucchiaino di sale fino

1 Bustina di lievito per dolci Pan degli angeli ( per 500 grammi di farina)

1 Mezzo cucchiaino di miele liquido

Latte tiepido, quanto basta per un impasto molto morbido

Lavorando tutti gli ingredienti, ottenere un impasto molto morbido che aderisca alle mani.

Continuare fino ad ottenere un bell’impasto di forma rotonda. Lasciarlo riposare per circa un’ora dentro ad un sacchetto di plastica.

Staccare piccole porzioni per volta della dimensione di un hamburger e con un matterello ( se non l’avete potete facilmente ottenerlo tagliando 50 centimetri da un manico di scopa) spianate l’impasto. Otterrete dei dischi dello spessore di circa due o tre millimetri e di un diametro di circa 15-18 centimetri.

Ora li cuocerete a secco in padella antiaderente senza dimenticare di girarli di tanto in tanto fino alla cottura. Non seccare troppo, la piadina è migliore se un po’ tenera.

* * *

La «Piadina» è la più popolare e tradizionale specialità romagnola. In Italia è conosciuta quasi quanto la rinomata «pizza» napoletana. Viene tradizionalmente cotta su di una pietra riscaldata denominata «testo», ma il risultato è comunque molto buono anche utilizzando la padella o una comune piastra di ferro. Viene venduta calda in chioschi ai lati delle strade e nelle osterie tipiche romagnole.

Si può gustare la “Piadina” tagliandola in due parti farcendola con prosciutto crudo oppure (secondo i gusti) con salame, salsiccia fumante o formaggio morbido (oppure anche con la Nutella). Accompagnare questa specialità con un buon vino rosso.

Si può star certi che così si possono sentire i migliori profumi della Romagna e, se il vino è buono, si desidererà cantare e ballare tutta la notte...


ROMANJA PIADINA (versione in Esperanto)

Recepto familio Vandini el Filo (RA), Italujo

Ingrediencoj:

500 gramoj de faruno el mola tritiko (tipo 0)

100 gramoj de morbida margarino

2 kulereto de pulvora salo

2 koverteto de fermento ( por 500 gramoj de faruno)

2 kulereto de likva mielo

Tiepida lakto, kiom necesas pri pasto tre morbida

Knedante ĉiuj la ingredientoj, obtenu tre morbidan paston ke adheris al viaj manoj.

Daŭrigu je knedi ĝis vi havos belan panbulon. Lasu ripozi ĝin dum ĉirkaŭ unu horo interne de plastosaketo.

Tranĉu pecon (nur unu per fojo) kaj per la helpo de la pastorulo (se vi ne havas ĝin vi povas facile obteni ĝin tranĉante ĉircaŭ 50 centimetroj el balailtenilo ) vi rulprenos paston. Vi obtenos diskojn du aŭ tri milimetra diko kun diametro de ĉirkaŭe 15-18 centimetroj.

Nun vi kuiros ĝin en kontraŭadhera pato sen forgesi de turni ĝin ĝis kuirado. Ne sekigu tro multe, la piadina estas plibona kiam ĝi estas sufiĉe mola.

* * *

La «Piadina» estas la pli popola kaj tradicia specialaĵo de la Romanjo. En Italujo estas tre konata preskaŭ kiel la pli renoma napola pico. En Romanjo estas tradicie kuirita sur varmega ŝtono ke ni nomas “teksto”, sed la rezulto kun la pato estas tre bona. Ĝi estas vendita varma en kioskoj laŭ la romanjaj stratoj kaj en la tipaj gastejoj.

Vi povas ĝue gustumi vian “Piadina” tranĉante ĝin en du pecon kaj metu meze bonan distranĉitan krudan ŝinkon (aŭ, se vi preferas, ŝmirfromaĝon).

Akompanu tiun specialaĵon kun bonan italan ruĝan vinon.

Oni estas certa ke tiel oni povos senti ĉiujn la plibonajn aromojn de la Romanio, kaj se la vino esta bona, vi poste deziros kanti kaj danci dum ĉiu la nokto...

A questo cibo popolare, il grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli (1855-1912) ha dedicato alcuni ispirati versi. Da straordinario erudito qual era, capace, nella sua costante opera di rinnovamento, di frantumare il discorso letterario in fugaci impressioni, ha lasciato ai posteri questa golosa descrizione della «piadina» e della sua preparazione:


“E tu, Maria, con la tua mano blanda

domi la pasta, poi l'allarghi e spiani

ed ecco è liscia come un foglio, e grande

come la luna e sulle opache mani

tu me l'arrechi e me l'adagi molle

sul testo caldo, e quindi t'allontani.

Io la giro e le attizzo, con le molle,

il fuoco sotto, fin che stride invasa

dal calor mite, e si rigonfia in bolle

e l'odore del pane empie la casa.”

Col salame

Con squaquerone e rucola