lunedì 14 gennaio 2008

Nasi e nasoni che ci fanno ancora sorridere…

di Agide Vandini


Ho già scritto, lo scorso mese, nel ricordo qui dedicato ad Ezio Natali (Martin), come e per quali peripezie, abbia potuto salvarsi e giungere fino a noi la sua “Parodia dei nasi distinti”.
Ora è il momento di presentarla in questa sede, questa composizione in rima baciata che fu dedicata negli anni ‘30 del Novecento ai nasi più vistosi del paese. Ho tratto anche in questa occasione i versi dagli appunti che scrissi nel quaderno di scuola quella lontana sera del ’56, li ho aggiustati ancora un po’ e, soprattutto, ne ho aggiornato e migliorato il commento.
Rispetto alla prima edizione del 2002 su CD, qui ho potuto mettere anche le foto di tutti protagonisti che sono state ritrovate col contributo fondamentale, come al solito, di Beniamino Carlotti, che devo sentitamente ringraziare.
Una pubblicazione così compiuta è quanto di meglio potessi immaginare per far conoscere e comprendere, fino in fondo, il valore della composizione e gustarne i contenuti. Per quanto mi riguarda, è il realizzarsi di un desiderio e, insieme, il soddisfacimento di curiosità, intorno ai personaggi, che mi son portato dietro per una vita.
Devo dire che le immagini di coloro che non ho potuto conoscere per ragioni anagrafiche e che, fino a pochi giorni fa, non avevo mai visto neppure in fotografia (Don Bezzi, Sacrato, Varĕst, il giovane Marien), hanno sorpreso anche me, tanto rassomigliano all’idea che mi ero fatto di loro da bambino, ascoltando le sonanti rime di Martin.
Sono immagini talvolta non proprio dell’epoca, talvolta di persone ritratte in posa, forse nell’unica fotografia della loro vita, ovviamente presa sempre di fronte e mai di profilo, sicché il calibro del riverito naso non è ora valutabile alla stregua di quanto poté fare, invece e dal vivo, il Grande Martin. Eppure quegli sguardi ed ammiccamenti verso chi avesse a rimirarli, li ho trovati quasi familiari, quasi che fossero vecchi amici miei, che non incontravo più da molto tempo.
Ho suddiviso il testo in quattro parti in modo da poter avere sempre a disposizione il necessario commento da leggersi in simultanea, alla stregua dei grandi Poemi e Romanzi, e mi auguro che ciò non appaia eccessivo, poiché per noi filesi queste rime rappresentano un pezzo di storia del paese e, quindi, ben più dell’intrinseco valore letterario.
Sono strofe che racchiudono in sé la memoria di anni lontani, di gente e di tempi che ho descritto e raccontato a più riprese nei miei libri, storie che, come molte testimonianze del nostro mondo antico, avrebbero ancora qualcosa da dirci, soprattutto riguardo alla spirito con cui affrontare la vita.
Basterebbe, in fondo, avere l’umiltà e la voglia di fermarsi un attimo nella corsa sfrenata verso un futuro che appare talvolta nebuloso, piuttosto povero di valori umani, e poi guardarci indietro, senza vergogna e senza superbia. Più facile a dirsi che a farsi. Intanto godiamoci questa squisita “parodia”.

LA PARODIA DEI NASI DISTINTI - I

di Martin (ovvero, Ezio Natali, 1908-1936)



La Compagnia drammatica diretta da Leoni

con scelto repertorio di nasi e di nasoni

viaggia ormai da circa un mese.

Giunta finalmente in questo paese


vuol far, con la spesa del caso,

di ognun mostra del proprio naso.

Han dato a me l’incarico delle argomentazioni

e di presentar l’artistico gruppetto di nasoni.


Contorto è quello della Maria,

verticale ma lungo il mio,

quello dell'Eda mancante l'osso,

il Direttore l'ha molto grosso.




La Compagnia drammatica ... Il primo personaggio che incontriamo è Leoni Natale (1903-1965), conosciuto in paese come Nadalen d’Balamerch, dotato di naso imponente ed eletto a caricatura del celeberrimo Stefano Pelloni detto Il Passatore. A questi si richiama infatti una poesia di Arnaldo Fusinato, un tempo molto popolare, dedicata alla più conosciuta delle imprese del bandito. Ha il titolo de’ Il Passatore a Forlimpopoli, e le sue rime ebbero grande notorietà, declamate nei trĕb e persino nelle rappresentazioni di burattini del primo Novecento. Forse a questi stessi versi (1855) si deve una convinzione romagnola alquanto discutibile, suffragata dal Pascoli (il Passator cortese…), secondo la quale il capo banda sarebbe stato un romantico fuorilegge alla Robin Hood. Romantico, o (più realisticamente…) spietato che fosse, sta di fatto che quella sera quando si aprì il sipario, al posto dei cantanti d’opera, il pubblico del teatro di Forlimpopoli si trovò davanti gli sguardi truci della banda che terrorizzava la Romagna. Stuvanen, ovvero Stefano Pelloni, nell’immaginazione del Fusinato sbeffeggiò e minacciò dal palco gli inermi spettatori che intendeva depredare. Di qui l’esordio poetico in rima: «La compagnia drammatica diretta dal Pelloni, con scelto repertorio di palle e di tromboni...». Nella metafora di Martin, il repertorio di Nadalen è ben diverso, fortunatamente, ma è pur sempre armato di nasi e nasoni da far tremare i polsi… (Per la poesia del Fusinato, si veda in A.Vandini, I briganti della palude, Ravenna Longo, 1996, p. 187).


Contorto è ... E’ il naso di Maria Geminiani (Maria d’Diritto) (1911-2003). La particolare forma era dovuta alla sfortunata zuccata presa, da bambina, da Böbi Ravaglia. Purtroppo, nel rincorrersi attorno al Palazzone, uno dei due aveva invertito la direzione, e nell’aggirare uno dei quattro spigoli c’era stato lo scontro frontale.



verticale ma lungo il mio, quello dell'Eda ... Quest'ultimo è il naso di Eda Cavalieri (1905-1988) moglie di Gino Veduti, Ginon. A lui, detto in confidenza e dagli amici: Cacagna, è più oltre dedicata la quartina forse più ispirata dell’intera parodia.




Nelle foto, nell’ordine: Natale Leoni (Nadalen d’Balamêrch, Maria Geminiani, l’autore Ezio Natali (Martin), Eda Cavalieri.

LA PARODIA DEI NASI DISTINTI - II


Col naso dell’Irie e la Domenica

la Natura non fu del tutto prodiga

ma con la loro bellezza e leggiadria

sapranno fare onore alla Compagnia.


Francesco, un sì bel naso a voi presenterà

che tanto onore e gloria si guadagnerà.

Entra poi Sacrato in scena, l’oriundo veneziano

mostra di sé vuol fare e del naso suo sovrano.




Col naso dell’Irie e la Domenica ...Le due bellezze chiamate in causa da Martin erano: Irie Barabani (1912-1997) moglie di Guasoni Olao, e’ Canzulêr, e Domenica Mercatelli (1905-1988) detta Minghina, moglie di Banzi Domenico, per tutti Pezöli. Evidentemente, le due donne, sulla trentina a quell’epoca, pur non disponendo di un naso «delicatissimo», erano ritenute in grado di risollevare, almeno in parte, le sorti «estetiche» della compagnia. Martin ci vuole introdurre con garbato crescendo e con qualche tocco di eleganza, l’intera scena e farci gustare, poco a poco, tutta la comicità e simpatia dei suoi personaggi.


Francesco un sì bel naso ... Si tratta di Francesco Veduti (1907-1980), papà di Bruno (Scurza). Comincia ad aleggiare la bonaria ed amichevole ironia di Martin che qui vuole certamente rimarcare il carattere mite e schivo del personaggio, in chiara antitesi con quello ben più prorompente che lo seguirà.



Entra Sacrato in scena ... Chi entra in scena prepotentemente è Sacrato Sante (1871-1944), uomo, all’epoca in cui fu scritta la “parodia”, a cavallo della sessantina, nonno di Mario Sacrato, nonché dei fratelli Osvaldo (Biedla) e Stenio. La fotografia che ce lo ricorda non è molto nitida, ma Sacrato, che proveniva da Ciniselli di Rovigo, doveva essere uomo piuttosto distinto nonché solenne di modi. Soprattutto pareva dotato, al di sopra di un balcone di curatissimi baffoni spessi e spioventi, di un naso di stampo signorile e di dimensioni altrettanto rispettabili.


Nelle foto, nell’ordine: Irie Barabani, Domenica Mercatelli (Minghina), Francesco Veduti, Sante Sacrato

LA PARODIA DEI NASI DISTINTI - III


Vien verso noi 'Varisti dall’aria assai funesta:

ha un naso nella faccia che panico vi desta

e Don Giovanni Bezzi, ministro del buon Dio,

a dirla vera e schietta ha un naso come il mio.


Del Cavalier Vandini non ne ho parlato prima

perché in quanto ‘l suo naso non so ancor far la rima

Or lo vedo pallido, or porporino

non so qual sia la causa, ma forse sarà ... il vino.


A mio zio Secondo, debbo un’osservazione

che gli è stato assai superfluo comprarsi un ocarone,

perchè se dalla faccia avesse il naso sradicato

i soldi della compera avrebbe risparmiato.



Vien verso noi Varisti ... Chi mette in soggezione i compaesani è invece Mezzoli Evaristo, detto Varĕst (1861-1943), nonno di Mario Mezzoli, bisnonno di Giorgio e Tino, nonché di Sergio e Giuliano Dalle Vacche. Dalla fotografia reperita, si coglie subito lo sguardo fiero di quest’uomo, forse di poche parole e di atteggiamento serioso, dal naso proteso come uno spadone e piantato al centro di severi baffoni a manubrio. C’è da capire lo sbigottimento di chi lo avesse incontrato. Il suo naso, in effetti, era un monito, un biglietto da visita…


E Don Giovanni... Questo era il prete, ricordato ancora oggi col nomignolo di Don S-ciöp, che resse la parrocchia di Filo dal 1925 al 1947 e che ebbe la ventura di battezzare anche il sottoscritto. E’ una delle riverite Autorità del paese, ma qui diventa lo strumento di cui Martin si serve per ironizzare su se stesso. Va detto comunque che, osservando le due foto, una certa somiglianza di naso la si avverte davvero…


Del Cavalier Vandini... L’esilarante quartina è dedicata a Vandini Mario, detto Marien (1896-1952), lontano cugino di mio nonno Ivo, padre di Elda ed Anastasia, e quindi nonno materno di Giorgio e Roberto Minguzzi nonché di Piero Gessi. Era una delle strofe più amate dagli ascoltatori di Martin ai quali era ben noto l’amore per il bere di Marien. Il vero e proprio cavalier Vandini, qui richiamato con finissima ironia, era stato l’eminente Cav. Giuseppe Vandini, personaggio insigne, figura dominante dell’Ottocento argentano. Certo vien da sorridere al pensiero di un naso tanto colorito da diventare traditore e spione, capace cioè di rendere espliciti gli eccessi e le debolezze di un nobile Cavaliere… incapace di resistere davanti alle mezzette di vino rosso.


A mio zio Secondo ... Lo zio di Martin è Secondo Natali

d’Paiunzet (1885-1953), padre di Dino e Giovanni (Giuanen), nonno di Wander, Enrico e Giuliano, ricordato come personaggio simpaticissimo e suonatore d’ocarina. Questa diventa per Martin il pretesto per ironizzare sulle forme del naso dello zio, e lo fa senza mezze misure. Ascoltarlo declamare queste rime al suo pubblico doveva essere davvero un spasso …


Nelle foto, nell’ordine: Mezzoli Evaristo, Don Giovanni Bezzi, Mario Vandini, Secondo Natali

LA PARODIA DEI NASI DISTINTI – IV


Se Tasso per descriver la grandezza di Plutone

a Calpe ricorrea per fare un paragone,

io che sol se dormo m’assomiglio al tasso,

il naso di Cacagna lo eguaglio al Monte Sasso.


Ma la Compagnia non poteva andare avanti

se non si rivolgeva ad uno dei mercanti

e il signor Bergamini, che è tutta carità,

il mulo suo ci offriva per correr la città.


Mangia assai poco, per noi poche spese

sembra una reclame della Cremonese.

Signore e signorine dai nasi variopinti

ad onorar correte la Compagnia dei nasi distinti.




Se Tasso ... Qui siamo davvero all’ispirazione geniale. Una felice escursione letteraria che trae spunto dalla Gerusalemme Liberata, l’opera più nota di Torquato Tasso. Al canto IV del poema si descrivono gli dei degli abissi nelle loro orribili forme, aggiungendo: D’essi parte a sinistra e parte a destra / a seder vanno al crudo re davante. / Siede Pluton nel mezzo, e con la destra / sostien lo scettro ruvido e pesante; / né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra, / né pur Calpe s’inalza o ‘l magno Atlante, / ch’anzi lui non paresse un picciol colle, / sì la gran fronte e le gran corna estolle. In sostanza: davanti all’imponenza terrificante di Plutone pare di poco conto anche la figura gigantesca di Calpe, nome con cui nell’antichità ci si riferiva al Capo di Gibilterra, una delle colonne d’Ercole.

Io che sol se dormo ... Qui Martin in tutta umiltà, e davanti a sì alta poesia, ritiene di poter somigliare (quanto a profondità del sonno) appena al tasso (senza la maiuscola), la bestiola dal lungo letargo.

il naso di Cacagna... «Cacagna», come s’è detto, è Gino Veduti (1905-1984), marito di Eda e papà di Loris. Davanti a «tanto» naso, Martin, rimatore qual è, ricorre persino al Monte Sasso…Vien da fischiare: «...fiiiii ... che sberla di naso ...». Chissà cosa ne avrà pensato il buon Ginon all’epoca. Avendolo conosciuto come uomo di grande intelligenza, credo che davanti a simile iperbole avrà sorriso tutta la vita. E poi, diciamo la verità: quanto a naso, Ginon ne aveva un bel po’, poi se si sta a sottilizzare, se non era per la letteratura, magari sarebbe bastata… la rata dla Basteja

Ma la Compagnia ... L’immaginario «Carro di Tespi» con il suo prezioso carico deve pur essere trainato in qualche modo e Martin pensa allora al «signor Bergamini», lo Sbruzai (barrocciaio) noto al mondo per il mulo denutrito, ovvero il mitico Sumar d’Bargamen. Questo mercante «tutta carità», era Luigi Bergamini, cugino di mio nonno Ivo, nato a Filo il 4-2-1882, abitante nei pressi dei «Vagoni», poi migrato altrove negli anni ’30. Pare che quando la sfortunata bestia lasciata per diverso tempo a digiuno s’involò anch’essa in un mondo più giusto, Bargamen abbia esclamato: «Propi adës ch’ u s'ira abituê a stê zenza magnê!...».

sembra una reclame ... Qui Martin pare riferirsi alla maniglia cosiddetta ‘alla cremonese’, il cui profilo gli ricorda l’estrema magrezza della povera bestia. Il paragone dà ancor più tono alla comicità della rappresentazione che si chiude alla grande con un’ultima immagine burlesca. L’uscita immaginaria di scena dei personaggi non potrebbe essere più divertente. Par di vederli gli arrangiati protagonisti, su un carro tirato da un somaro tutto pelle ed ossa, mentre chiamano nuovo pubblico a raccolta e scuotono con forza i campanacci come girovaghi d’antan… Complimenti vivissimi e un grazie ancora, dopo tanti anni, al caro Martin.

Nelle foto, nell’ordine: Gino Veduti e una moderna reclame della «Cremonese».

giovedì 3 gennaio 2008

Nadêl l’è un segn (e’ métar de’ Signór)


L’amico, e brillante poeta, Angelo d’Zizaron d’Masira mi ha fatto avere questa bella poesia dedicata ai significati più profondi del Natale appena trascorso e quindi non ancora «fuori stagione». E’ un sonetto in cui la genuinità delle espressioni dialettali sembrano dare ancora più tono e profondità alle riflessioni che toccano gli eccessi «materialistici» della società moderna. E’ un onore poter ospitare questa interessante composizione nella nostra giovane irôla virtuale, dove sarà certamente apprezzata dagli attenti lettori (Agide Vandini).


Nadêl l’è un segn (e’ métar de’ Signór)

Natale è un segno (il metro del Signore)

di Angelo Minguzzi




Pr avnir a e’ mond a vut ch u-n putes fê

avnì la bëglia in ca o andêr a e’ bšdêl,

mo l’à vlu dês un segn che par spieghêl

u-n basta tot e’ temp dl’ eternitê.


Tulen un êtar segn: la libartê

‘d dlèžar cvel ch’ut pasa e’ capitêl

l’è fêlsa, e la t’arduš un animêl,

mo Lo u t’à dê la tësta par pinsê


che i n’è int e’ paneton i segn d’Nadêl

e ch’l’à una spiegazion parsena e’ mêl

se te t’druv la su schêla di valur.


L’à un métar tot speciêl par tu agli amšur

furtóna che u j è Lo a fê l’aždór

ch’e’ s-ciuša l’intarës mânch ch’n’è l’Amór.

Per venire al mondo, vuoi che non avesse potuto far

venire la balia in casa, o andare all’ospedale,

ma ha voluto darci un segno che per spiegarlo

non basta il tempo dell’eternità.


Prendiamo un altro segno: la libertà

di scegliere ciò che ti somministra il capitale

è falsa, e ti riduce alla stregua di un animale,

ma Lui ti ha dato la testa per capire


che non è il panettone il segno del Natale

e che ha una spiegazione persino il male

se usi la sua scala di valori.


Ha un metro tutto speciale per prendere le misure

per fortuna che c’è lui a fare il Reggitore

e che considera l’interesse meno dell’Amore.

mercoledì 2 gennaio 2008

Tör e zentratach… (ovvero: Torri e Centravanti…)




Agide Vandini, grande appassionato di calcio e tifoso rossoblu, partecipa da anni col nickname di «Filese» al forum del sito www.forumrossoblu.org, e scrive di tanto in tanto corsivi di contenuto storico-folclorico dal tono scherzoso, dedicati all’attualità della sua squadra del cuore. Questo è il terzo pezzo per il «Mondo del Filese» e per i tanti amici che, in paese come in ogni parte del globo, seguono con amore e con passione le vicende del glorioso Bologna.

In questo nostro paese, di santi, di navigatori e di poeti, di lotte per il potere, di grandi strateghi e tattici sopraffini, non albergano più sagaci ed ambiziosi intelletti come quei signorotti bolognesi che nel lontano Medioevo, davanti alle insidie ed alle opportunità di tipo militare dell’epoca, costruirono in città una caterva di torri altissime; albergano però tifoserie calcistiche di radicata cultura quale quella rossoblu, dal palato fine e dai gusti calcistici assai caratterizzati che, al di là di ogni estemporaneo risultato o classifica, ambisce ad una squadra con un suo solido, possente punto di riferimento davanti; insomma: un pilone, un gonfalone, un ariete, un zentratach come Dio comanda, capace, con la sua sola presenza in area nemica, di far tremare portieri e reti avversarie.

Le innumerevoli torri di Bologna (pare intorno ad un centinaio), strutture con funzione sia militare che gentilizia, furono innalzate in un lungo arco di anni, tra il XII ed il XIII secolo. Le ragioni della costruzione di tante torri non appaiono ancora del tutto chiare, ma si pensa che le famiglie più ricche, nel periodo di lotta per le investiture filo-imperiali e filo-papali, le utilizzassero come strumento di offesa e/o di difesa e come simbolo di potere. Possedere una torre, oltre che vantaggioso ai fini politici era evidentemente per una famiglia patrizia bolognese uno status-symbol irrinunciabile. Molte torri furono poi mozzate o demolite, altre crollarono, ed in epoche successive esse furono utilizzate in diversi modi: carceri, torri civiche, negozi, abitazioni. Le ultime demolizioni avvennero nel XX secolo (1917), quando caddero le Artenisi e Riccadonna, torri che sorgevano nel «Mercato di mezzo» nei pressi dell’Asinelli e della Garisenda.

Intorno alle torri bolognesi, cantate dai maggiori poeti italiani, non sono mai mancate storie e leggende e fra queste una racconta addirittura di una torre mobile, o forse di una formidabile operazione di ingegneria, immortalata in una vecchia lapide al numero 84 di Strada Maggiore: «Nell’anno 1455 Aristotele Fioravanti bolognese, con nuovo ardimento qui trasportò intatta, per ispazio di più di 13 metri, la torre di S.Maria della Magione, alta 25 metri, che fu demolita nel 1825». Questa incredibile torre pare sorgesse isolata in mezzo alla strada e che il geniale Fioravanti sia riuscito per questo a trasportarla - così si dice - tenendola diritta, con la campana in posizione, dal posto in cui era fino al nuovo, e tutto questo facendola scorrere sopra cilindri cerchiati di ferro, posti a loro volta su grossissimi abeti.

Con questi precedenti, con queste fondamenta nella storia, pare perciò palese la constatazione che sta sotto agli occhi di noi moderni: la passione e l’alta considerazione per torri di ogni genere, per torri che camminano, per torri in calzoncini con funzioni di zentratach che sconvolgano e disorientino le difese avversarie sono, in definitiva, a queste latitudini, un tutt’uno e fanno ormai parte del DNA del cittadino, tanto più se ha il rossoblu nel cuore. E’ un classico, un cult, un sillogismo senza il quale l’immagine, l’essenza e lo spirito del bolognese non sarebbero mai più gli stessi.

Non per niente le vicende di un club glorioso come il BFC 1909 potrebbero raccontarsi molto semplicemente titolandone i capisaldi storici più o meno così: «da Schiavio a Puricelli», «da Cappello a Pivatelli» e poi «da Vinicio a Dondolo Nielsen», «da Savoldi a Chiodi» fino al capitolo più recente «da Andersson a Julio Cruz», ultimi veri possenti zentratach in grado di lasciar traccia di sé nella città delle Cento Torri.

Sono considerazioni queste che dovrebbero essere tenute ben presenti in questo momento di calcio-mercato invernale dai capi, dirigenti e allenatore del Bologna, di una squadra che è sì in testa alla classifica, che ha nello spumeggiante Marazzina di questi mesi un furbo ed abile realizzatore, che è davvero un pugno d’uomini ben guidato che si sta meritoriamente battendo in un campionato, ma è altrettanto vero che, da troppi anni ormai, non ha più trovato quel simbolo, quel moltiplicatore di orgoglio che entri nel cuore della gente, quella torre da area di rigore avversaria che Bologna ama e forse desidera più di ogni altra cosa, convinta com’è che in tal modo si debbano potenziare le forze e seminare ancora più panico fra gli agguerritissimi avversari.

Se non si è ancora capito, in questo frangente, se rafforzamento ci deve essere, per il bolognese ci vuole un signor zentratach oppure niente, non si pensi di ingaggiare qualcuno che, come dimostrano alcuni recenti tentativi, lo sembri soltanto. Insomma ci vorrebbe finalmente uno con la statura, con la forza ed il coraggio adeguati in modo che “torre alla bolognese” lo sia davvero, mica un semplice lasagnone, o un “San Carlone” qualsiasi (cun bon rispet…) i cui miracoli fasulli furono già a suo tempo berciati con qualche irriverenza dal vate romagnolo Olindo Guerrini.

Forse vale la pena rileggere i divertentissimi versi che scrisse durante il suo noto Viaž  in bicicletta fatto ad inizio Novecento. Eccone, per la gioia degli amatori, la mia trascrizione:

Arona (San Carlone)

A la veta d’un mont, dsóra d’Aróna

U j è una stetua d’ram, quela d’un sant

Ch’l’è San Carlon, ch’l’à, coma un elefant,

Una statura porca bužaróna.


Ste sant l’è vut in tota la parsóna

Mo’ una schêla a pirul tra al pigh de’ mant,

La cunduš int la panza de’ žigant

Pr e’ buš d’un tafanëri ch’un coióna.


Non us scapéva la pesa e u ngn éra chéš

D’truvê un vigliach d’un pisadur invel,

E icsè aj pisèsum žo pr i buš de’ neš.


S’ël mai vest un miràcol com è quel

D’un sant sanza zarvêl - sit parsuêš -

Che par pisê l’adrôva i du našĕl?

Arona (San Carlone)

In vetta ad un monte, sopra Arona

C’è una statua di rame, quella di un santo

Che è San Carlone, che ha, come un elefante,

Una statura fuori di ogni misura.


Questo santo è svuotato in tutta la persona

Ma una scala a pioli, tra le pieghe del mantello,

Conduce dentro la pancia del gigante

Tramite un pertugio sicuro del posteriore.


A noi scappava da orinare e non c’era modo

Di trovare un pisciatoio da nessuna parte,

Così fummo costretti ad usare i buchi del naso.


S’è mai visto un miracolo come quello

Di un santo senza cervello – sei persuaso... –

che per far pipì usa le narici?

Parliamoci chiaro fra bolognesi, conterranei di Aristotele Fioravanti e che di torri se ne intendono: stavôlta, o bon o gninta

Il Filese, 2 gennaio 2008

Nelle illustrazioni:

- Una ricostruzione fantastica della Bologna medievale.

- La gigantesca statua detta del «San Carlone» ad Arona sul Lago Maggiore.