lunedì 23 novembre 2015

Tugnàz dla Garušla



Una forza della natura, un mito della campagna filese
di Agide Vandini

Capita, in paeselli come il mio, di divenire eroi leggendari senza volerlo, magari più «leggendari» che «eroi», quando la fantasia, l’immaginario, l’epos popolare sono attratti da tipi fuori dal comune, da virtuosi o talenti del mondo contadino, piccole stelle di campagna le cui luci balenanti scintillano di pari passo con l’ammirazione di amici, compagni di lavoro e paesani tutti.
Non importa se in qualche caso il soggetto in questione difetta di qualche venerdì,  se si esprime a fatica, o se ha una storia familiare complicata, anzi. A volte sono proprio queste disagevoli circostanze a favorirne una fama che supera il tempo, e ad accrescerne, giorno dopo giorno, il giusto orgoglio in chi gli vive, o gli ha vissuto, accanto.
E’ il caso di Tugnàz dla Garušla, spentosi in vecchiaia qualche anno fa, nonché della sua forza pacifica e laboriosa, tuttora ricordata dagli amici del caffè con aneddoti e amarcord che ne tramandano il mito.
Lui era giunto alla Garusola ancora in fasce nei primi anni ’30, allorché la giovane madre[1] si era allontanata da un matrimonio sbagliato e da un uomo presto rimasto storpio. Si era riunita a fratelli e genitori, i Žöta[2] che da poco vivevano nella borgata filese. Il bimbo fu ben accolto da nonni e zii materni; con essi egli rimase sempre, anche quando la mamma si creò una nuova famiglia con un certo Ganna[3].
Tugnàz, al secolo Antonio Saccomandi[4], crebbe grande e grosso alla Tenuta Garusola, oggi terra di profumatissimi vini e di sterminati vigneti. Lui, di costituzione robusta ed insolita (si pensi che alla nascita pesava già sei chili), dimostrò, salendo di statura, una energia fuori dal comune, una forza muscolare stupefacente, tale da divenire ben presto leggendaria al mio paese come nelle terre limitrofe. Nelle comparazioni più colorite e nei modi di dire, il suo nomignolo e la sua figura vennero ad indicare, nel difficile ma laborioso dopoguerra, la vigoria fuori misura, la forza lavoratrice senza eguali.
Mio padre, a metà degli anni ’50, al tempo della maturazione fisica del giovane, frequentava parecchio le campagne filesi, ove riparava un po’ ovunque attrezzi, aratri e mieti-leghe, felice del contatto con l’umanità straordinaria che da sempre s’incontra fra la gente contadina. Lui amava raccontare e tinteggiare da par suo i personaggi di casa nostra, sicché del prodigioso Tugnàz mi parlava spesso, tornato a casa, a tarda sera.  Io gli sedevo accanto mentre cenava e talvolta ascoltavo rapito le lodi alla forza eccezionale di questo formidabile eroe di campagna.
Alle prese con lo studio dell’Iliade, poco a poco e non senza una certa irriverenza, finii per associarne le imprese a questo o quell’eroe omerico presente nella mia fantasia. Tugnàz, all’ascolto di quei racconti, diveniva in sostanza l’Aiace paesano, la forza generosa e prorompente che infiamma i giovani cuori, capace di infondere, in ogni uomo che sia tale, naturale ammirazione e rispetto.


Aiace Telamonio, re di Salamina, eroe di grande potenza fisica e abilità guerriera, secondo solo ad  Achille.
[…]Seguì l’esempio il gran Telamonìde,
ed afferrato e sollevato ei pure
un altro assai più grande e rude macigno,
con forza immensa lo rotò, lo spinse
contra il nemico. Il molar sasso infranse
l’ettoreo scudo, e di tal colpo offese
lui nel ginocchio, che riverso ei cadde
con lo scudo sul petto; […]

Allor Palla Minerva a Dïomede
Forza infuse ed ardire, onde fra tutti
Gli Achei splendesse glorioso e chiaro.
Lampi gli uscían dall’elmo e dallo scudo
D’inestinguibil fiamma, al tremolío
Simigliante del vivo astro d’autunno,
Che lavato nel mar splende più bello[...] [5]

Diomede, re dell’Etolia, il più giovane degli eroi greci: ardito e coraggioso fino a cimentarsi contro gli dei.  

Versi come questi e le tante trame omeriche sotto le mura di Troia, risuonavano reboanti alle mie orecchie, quando a sera il babbo mi parlava della forza sovrumana di Tugnàz, l’ercole di casa nostra. Mia madre, di concerto, farciva gli aneddoti di massime dialettali di lungo respiro quali Arcòldat che contr a la fôrza e’ bšogna andê adéši  [Ricorda che la forza va sempre rispettata] oppure Da che mònd l’è mònd e’ tòca pu sèmpar a i strëz a ‘ndê par ària [Da che mondo è mondo sono sempre i più deboli a venire sottomessi].
Fu così che nella mia mente di adolescente la forza pacifica e contadina di Tugnàz, ebbe la meglio su quella di Diomede e di Aiace Telamonio, guerrieri senza pari le cui imprese, ahimè, rimpicciolivano e svaporavano al cospetto di un simile, emozionante epos paesano.

Pare fosse un tipo piuttosto sempliciotto, Tugnàz, uno che in famiglia non ebbe mai incarichi precisi; ma di lui, in paese, per molti anni si raccontarono e si lodarono grandi mirabilie.
Si diceva ad esempio che vedendo il nonno Settimio riparare la foratura di una camera d’aria, e faticare nel rimettere in sede il copertone di una ruota della bicicletta, egli avesse risolto il problema a modo suo. Con una mano sola, aveva piegato il cerchio della ruota e reso possibile al nonno il completamento dell’opera.
Pare poi che con relativa facilità riuscisse ad atterrare vitelli di 5 o 6 quintali, che questi vitelli, da piccoli,   egli li riportasse alla greppia tenendoli in braccio, che strapazzasse i buoi prendendoli per le corna, che alzasse e sballottasse i sacchi di grano come cartocci di lupini e, infine, che manovrasse e manipolasse da solo i tubi da pozzo in posizione verticale, quando gli altri a malapena riuscivano a farlo in tre.
Aveva difficoltà nell’esprimersi, Tugnàz, nel rapportarsi agli altri. Nella sua stessa casa contadina viveva anche uno zio, un certo Arturo, che, quanto a testa, pare battesse a segno meno della sua; si pensò che, vivendogli accanto, la sua mente ne soffrisse. Il ragazzone fu preso perciò «in consegna» da alcuni braccianti fissi, in particolare da Pinéñ e da Anžlì Monterastelli. Il giovane Tugnàz apprezzò molto. Si disse che, per gratitudine, li avesse talmente cièp in bóna,  che, chi avesse storto loro un capello, o avesse anche soltanto osato guardarli di traverso, con Tugnàz dla Garùšla  avrebbe passato un brutto quarto d’ora.
Lui però era buono e pacifico: bòñ coma un pëz d lègn sottolinea ancora oggi Piröcia [Aldo Leoni] per qualche tempo suo vicino di casa. La sua forza era fuori da ogni immaginazione; se mai madre natura aveva fornito qualcun altro di «petto doppio», lui - si diceva - aveva avuto in dote addirittura una prodigiosa, quanto misteriosa, «doppia nervatura». Del resto, era questa la sola spiegazione ad una tale potenza muscolare. Se - si diceva ancora - gli fosse stata insegnata la boxe, oppure una qualche varietà di lotta, Tugnàz, con la titanica forza di cui disponeva, avrebbe facilmente sbaragliato qualunque avversario. Qualcuno, in effetti, arrivò dalla città nel dopoguerra, proponendogli la strada del pugilato, ma non se ne fece nulla. Nonno Settimio, che temeva evidentemente insidie e pericoli per il nipote, non ne volle sapere.

Anno 1960. Tugnàz (a sinistra nella foto)
è con la cugina Veglia di Faenza e con Augusto Vallieri

Anno 1970. Tugnàz (al centro nella foto) è con Giuseppe Baldiserri (a sinistra) e con lo zio Cesare Ballardini 
(a destra), papà di Anna.

I sacchi di grano non li caricava sulle spalle come chiunque altro, lui se li alzava verticalmente davanti al corpo e li portava con leggerezza fino a destinazione. La stessa disinvoltura la usava, nei lavori di stalla, per manovrare da solo e’ cariulòñ de’ stàbi, carico e stracolmo, cosa che di solito richiedeva l’opera di un paio di lavoranti; Tugnàz sospingeva il carro di pesante metallo in solitudine fin sulla méda e lì, in totale controllo, procedeva, senza aiuti o sostegni, al ribaltamento del carico nella pozza del letame.
Coi vitelli, come si è già detto, aveva un rapporto speciale, sapeva farsi rispettare, anche perché, se non succedeva, e la cosa era assai rara, pare dispensasse loro certe mazzate in testa, a pugno chiuso, da far roteare gli occhi per un paio di minuti agli increduli bovini. Quel che è certo - ricorda la cugina Anna Ballardini che lo ebbe in famiglia -  è che un comune forcale era sotto misura per lui: per lavorare fieno e barbabietole si chiese allora al fabbro di fabbricarne uno speciale a cinque denti anziché quattro. Ricorda ancora come a Tugnàz si portasse da mangiare in campagna, non col classico ed usuale «pignattino» comune ad ogni lavorante, ma, cosiderato il fabbisogno alimentare, con la pentola grande da cucina. Anna ricorda infine quando da bambina vedeva tornare i propri familiari, la sera, col fieno tagliato e raccolto  lungo gli argini, poi caricato e trasportato fino a casa sul pesante biroccio, trainato dal solo… Tugnàz
Chi lavorava al fianco di questo gigante buono aveva sempre di che stupirsi. Efrem Gherardi, ad esempio, narrava poche settimane fa dei suoi tempi di gioventù, quando il concime, il nitrato di calcio, si cospargeva a mano. Era un lavoro necessario, ma pesante e faticoso.  Il trattore coi sacchi da un quintale giungeva col rimorchio fino al limitare dei campi arati, poi, dal sentiero, si dovevano trascinare questi sacchi a forza di braccia, camminando fra i solchi e lungo il terreno sconnesso, per distanze, a volte, di qualche centinaio di metri. Chi si sorbiva il trasporto e lo spargimento nelle zone più lontane, ovviamente, era sempre il buon Tugnàz che prendeva sottobraccio i sacchi di nitrato come fossero semplici cocomeri.
Nell’85, l’anno in cui le temperature scesero sotto i 20 gradi, si ebbero insolite difficoltà nella stalla: gli abbeveratoi gelarono completamente e divennero inutilizzabili; Tugnàz, preoccupato per i suoi vitelli, ruppe più e più volte lo strato di ghiaccio a mani nude, procurandosi un principio di congelamento alle dita. Fu costretto a tenere per un mese le mani fasciate, settimane che per lui furono terribili, soprattutto per la mancanza del lavoro quotidiano. Fu una sofferenza che lo spinse più volte alle lacrime.
Era un gran lavoratore Tugnàz, forte quanto volonteroso, allo stesso tempo però era anche diligente, capace, cun dl’ǒsta, come diciamo noi, soprattutto dotato, nel suo «ego» profondo, di infinita generosità e bontà. Difficilmente perdeva il controllo dei nervi al punto da passare a vie di fatto.
Ci fu soltanto un’occasione, a memoria di chi lo conobbe bene, in cui quella forza della natura straripò, e fu verso chi, con troppa avventatezza, ne aveva sfidato l’ira. D’altronde, come diceva mia madre, ci sono circostanze in cui … o balê, o scusêr e’ cùl... [o ballare o scodinzolare… - modo di dire dialettale che sottolinea come a volte non ci si possa sottrarre al combattimento-]. Fu quando alcuni lavoranti capitati nell’adiacente Garusolina vollero impadronirsi della legna che il buon Tugnàz aveva raccolto per cuocere un po’ di carne sulla gardëla, e che aveva poi lasciato, per qualche momento, incustodita.
Gli ignari avventori, senza riflettere, vollero portarsi via, a bracciate, tutta la legna secca. Non fecero però in tempo ad allontanarsi, se non di pochissimi metri … quanto meno coi loro stessi piedi. Appena Tugnàz fu alle loro calcagna, gli sciagurati all’improvviso si sentirono sollevare in aria di peso, e cominciarono ad involarsi, a due per volta, verso le terre, per fortuna poco distanti, della Garušlìna.
La legna rimase lì, sparsa in disordine sul punto di decollo, mentre i malcapitati, rischiata la castlê d'böt [un mucchio di botte[6]], per pochi attimi (ma a loro parve un’eternità), sorvolarono come dirigibili in crociera i cieli della Tenuta Garusola. In volo buttarono appena qualche occhiata preoccupata sotto di loro, finché non toccarono terra nella più accogliente Garusolina, il che avvenne dopo aver scavalcato, per via aerea e per grazia divina, una batteria di pungenti spĕñ ad gata, la folta e minacciosa siepe spinosa che, da tempo immemorabile, fungeva da linea di confine fra le due antiche proprietà.

Tugnàz quasi settantenne 
(anno 1999)
Cervia, 2004: la famiglia di Anna Ballardini. Da sinistra Andrea, poi l’anziano Tugnàz in cardigan blu, Anna, la mamma Santa (detta Dina) e il fratello Arturo.



[1] Ballardini Irma, classe 1911, originaria di Pezzolo in comune di Russi.
[2] Žöta, soprannome di famiglia dei Ballardini, pare derivi dalla tenuta di Brisighella da cui proveniva nonno Settimio.
[3] Ravaglia Giovanni originario di Longastrino. I due, in epoca in cui non esisteva divorzio, non poterono mai sposarsi. Presero casa nelle vicinanze ed ebbero insieme la figlia Giuliana Ravaglia.
[4] Nato in comune di Russi il 7-7-1930 e deceduto a Filo il 13-5-2011.
[5] Omero, Iliade, VII, (328-335) e V, (1-7)
[6]La castlê era un recipiente agricolo di notevoli dimensioni e capacità con cui si trasportava l'uva pigiata (q. 9,60).