martedì 26 gennaio 2010

I bei giorni di San’Agata

Lontani e dolci ricordi in poesia

di Dario Lusa

Siamo ormai in prossimità della festa di Filo, l’antica festa di Sant’Agata patrona del paese e ci onora con la sua presenza Dario Lusa, un amico, un filese che ama profondamente il suo paese, un talentuoso musicista capace di far vibrare il sax come pochi, ma che qui ascoltiamo in veste di ispirato poeta, in versi dialettali che toccano le corde, ahimè, sempre sensibilissime, dei cari e dolci ricordi.

Sono i ricordi, le immagini ormai lontane di chi, oggi, con oltre mezzo secolo di vita sulle spalle, ama tornare con la mente al mondo e all’ambiente rurale della propria infanzia, immagini da cui spuntano visi e protagonisti di allora, e tutto un mondo che i nostri giovani non hanno mai conosciuto, spazzato via forse troppo in fretta dalle tante trasformazioni e cambiamenti di vita che l’industrializzazione, prima, e un consumismo sfrenato, poi, hanno via via richiesto.

Stili di vita, usanze, tradizioni ed abitudini che avevano resistito secoli ne sono stati, in men che non si dica, sconvolti e travolti e, fra le cose buttate nel cestino, possiamo ben mettere anche la nostra bella festa di Sant’Agata, un tempo aspettata con ansia da tutti, vecchi, giovani e bambini, un cardine del nostro calendario, oggi uscita completamente dal cuore della gente.

Se si passa un po’ distrattamente per Filo il 5 di febbraio, non ci si accorge neppure della festa. Una sola bancarella, imperterrita, si installa di mattina o nel piazzale della chiesa o nella piazzetta antistante il Monumento ai Caduti e rimane lì un paio d’ore, fino all’uscita dei fedeli dalla chiesa e poi chiude sconsolatamente baracca e burattini.

Sulla festa di Sant’Agata di un tempo ho già raccontato un paio d’anni fa in questo blog (articolo in data 5 febbraio 2008 dal titolo "Sant'Agata che malinconia..." ), ma Dario, che nel 1960 aveva appena 4 anni, oggi ce la fa rivivere in poesia. Attraverso i suoi ricordi, possiamo rivedere forse, dentro di noi, quei momenti di felicità assoluta che abbiamo provato nell’età più bella, momenti che vivono ancora nel nostro modo di essere e che non potremo mai dimenticare (a.v.).

Sant’ Êgta, 1960

L’éra bëla la fësta ad Sant’Êgta,

La fësta de’ mi paéš.

Cla strê lêrga cun l’asfêlt frès-c,

Cun tọti cal bancarèl ad quà e dlà,

Cun teñta žént ch la spasigéva stida a fësta

E cun adös l’udór dla naftalina.

Int l’aria u j éra un prufọm ad zọcar caramlê

Ad cruchèñt apena fàt.

Quènt žugh in cal bancarèl,

Nuétar babẹñ a tirimi int la stanëla dla mama,

Chi ch’e’ vléva la rivultëla,

Chi e’ s-ciöp, chi e’ palòñ.

Una babina la zighéva e la pistéva i pì

Adninz a una bambuzina biönda cun j ọc’ celẹst.

Quènt parint e amìg ch’u s’incuntréva,

Quenti böt int la spala cun e’ sòlit cumplimèñt:

«T’cì sèmpar te! T’a n dvìnt mai vëc’…»

L’éra bël quènd ch’u s fašéva l’óra dla mesa,

E’ campanér e’ tiréva int al côrd

E’ fašéva sunê al campèñ,

La ciša piàñ piàñ la s’impinéva,

Cun tenta žént ènch in pì,

E par che dè u s laséva a cà la fêlza e martël…

L’éra bëla la mèsa sunêda,

Ža alóra u m piašéva che vëc òrgan a pedêl.

A mèsa finida, tọt a cà,

L’éra meždè pasê e l’arivéva i parìnt.

La têvla tiradóra l’ardupiéva i pọst

La lëgna int e’ fùg la ciuchéva,

Al faléstar rösi al scapéva in élta, sò pr e’ camẹñ

L’aždóra la s ciaméva a têvla,

Com ch’i fuméva chi caplẹt int e’ piat…

Quènt tẹmp ch’l’è pasê!

Parchè avegna pérs sta fësta acsẹ bëla?

Sant’ Agata, 1960

Era bella la festa di Sant’Agata,

La festa del mio paese.

Quella strada larga con l’asfalto fresco,

Con tutte quelle bancarelle ai due lati,

Con tanta gente che passeggiava vestita a festa

E con addosso l’odor di naftalina.

Nell’aria un profumo di zucchero caramellato

Di croccante appena fatto.

Quanti giochi in quelle bancarelle,

Noi bambini tiravamo alla sottana della mamma,

Chi voleva la rivoltella,

Chi il fucile, chi il pallone.

Una bambina piangeva e pestava i piedi

Davanti a una bambolina bionda dagli occhi celesti.

Quanti parenti e amici s’incontravano,

Quante pacche sulla spalla col solito complimento:

«Sei sempre tu! Non diventi mai vecchio ...»

Era bello quando arrivava l’ora della messa,

Il campanaro tirava nelle corde

Faceva suonare le campane,

La chiesa pian piano si riempiva,

Con tanta gente persino in piedi,

Quel giorno si lasciavano a casa falce e martello

Era bella la messa cantata e suonata,

Già allora mi piaceva quel vecchio organo a pedale.

A messa finita, tutti a casa,

Era mezzogiorno passato e arrivavano i parenti.

La tavola allungabile raddoppiava i posti

La legna sul fuoco scoppiettava,

Le faville rosse salivano verso l’alto del camino

La massaia ci chiamava a tavola,

Come fumavano quei cappelletti nel piatto …

Quanto tempo è passato!

Perché abbiamo perso questa festa così bella?

sabato 16 gennaio 2010

Inaugurato l'impianto sportivo di Filo


Un paese che vuole rinascere anche in campo sportivo

di Agide Vandini


Filo, Campo Sportivo, 16 gennaio 2010 (Foto Bruno Folletti)


C’era tantissima gente stamane all’inaugurazione del nuovo Centro Sportivo di Filo. Cittadini e Autorità hanno festeggiato il completamento dei nuovi spogliatoi e di tutte le opere ad esso connesse, opere che hanno ridato al paese un impianto finalmente praticabile e al passo coi tempi.

La scelta dell’Amministrazione Comunale di Argenta e di Soelia S.p.A. di realizzare l’opera, in accoglimento di richieste da tempo formulate dai cittadini filesi, è stata lungamente applaudita dai presenti, così come la buona volontà e lo spirito di sacrificio dei tanti volontari di entrambe le frazioni di Filo d’Argenta e di Filo d’Alfonsine, migliaia di ore prestate gratuitamente che hanno consentito il completamento dell’opera in tempi ragionevoli, grazie alla buona organizzazione ed alla massima dedizione messa «in campo» dal Consiglio di Frazione e dal suo presidente Giovanni Montanari.

Fra i volontari anche alcuni immigrati di provenienza straniera che hanno voluto in tal modo testimoniare della loro fattiva volontà di integrazione nella comunità filese ed argentana.

I programmi e i propositi di utilizzazione del nuovo Centro Sportivo, cui oggi si accede dalla centrale Via Giovanni Mezzoli, appaiono piuttosto ambiziosi e in grado di coinvolgere, oltre gli atleti e sportivi della comunità filese, anche alcune Associazioni delle frazioni vicine e del capoluogo argentano.

Oggi vengono così ad esserci tutte le premesse affinché la «Filese» possa riprendere il suo posto nell’ambito dilettantistico; l’auspicio dei cittadini è che questo sport continui ad essere sempre molto praticato fra giovani e ragazzi e che si possano ben presto rinverdire i successi sportivi del passato in questa attività in cui si sono per tanto tempo espresse ottime capacità organizzative.

La massiccia partecipazione di tanti semplici cittadini ed ex atleti al taglio del nastro ad opera del Sindaco Antonio Fiorentini, indica tutta la gratitudine che si è inteso esprimere a chi ha il merito di questa bella realizzazione. E’ un plauso ed un sentito ringraziamento che si esprime anche qui, nell’«Irôla» virtuale filese, a tutti coloro che nel progetto, così importante per il futuro della comunità, hanno creduto e tanto fattivamente operato.



Filo,1949 circa. In questa vecchia foto, tratta dal mio album di famiglia, al centro del campo assiepato di gente vediamo i dirigenti (ormai scomparsi) dell’allora US Filese. Da sinistra: Siroli Amedeo (Catóna), Giovanni Geminiani (Giuanòñ d’Pisini), col cappello Arturo Cobianchi (Vivadio), Giovanni Cobianchi (Giuanòñ o Scudëla), Enrico Tamba (Ricco), col cappello Agide Mezzoli (Gidino o Tazio), mio padre Guerriero Vandini (Ghéo), Felice Marangoni, Afro (Amato) Rossi, col cappello Libero Ricci Maccarini, Vincenzo Natali (Cencio). Fra le spalle di Arturo e Giuanõñ Cobianchi fa capolino un calciatore con asciugatoio al collo e tradizionale maglia azzurra. E’ il giovane Baiuchẹñ, al secolo Bruno Serafini.




domenica 10 gennaio 2010

Tempo d’inverno …

Due belle poesie per l’«Irôla»

di Angelo Minguzzi

Il mio amico ànžul d Zižaròn d Mašira, letti i recenti brani che ho dedicato all’inverno e al gioco delle carte, mi ha mandato queste due belle poesie dialettali, che pubblico con entusiasmo, con qualche piccolo intervento nella grafia, in ossequio alle regole ortografiche cui ci si ispira e che consentono di mettere nel giusto rilievo anche le caratteristiche fonetiche del fusignanese[1].

Angelo, che ogni tanto onora con la sua presenza questa «Irôla» virtuale, non soltanto sa destreggiarsi bene fra le suggestioni dialettali, sa anche cogliere, con misurato senso dell’ironia, tipi, caratteristiche, aspetti del nostro mondo popolare e contadino che a me pare denotino in lui un grande amore per la tradizione, per la terra, in definitiva per i valori di saggezza e concretezza che sono stati, per secoli, alla base della vita della nostra gente.

E’ perciò con particolare piacere che pubblico le due poesie. La prima è dedicata al cielo e ai rigori invernali così come appaiono a chi osserva da una terra oscura e intirizzita, ove si fatica a muoversi e camminare. Campeggia nella volta celeste la grandiosa costellazione di Orione, governatore del regno dei morti, figura in cui gli antichi egizi vedevano niente di meno che Osiride.

Pare infatti, che, secondo i Testi delle Piramidi, Osiride, uomo e dio al contempo, fosse divenuto primo re d'Egitto, e la sorella Iside, sua consorte. Set, il fratello, complottò però contro di lui fino ad ucciderlo ed a tagliarlo a pezzi che sparse per tutto l’Egitto. Iside raccolse segretamente i pezzi del defunto marito e lo ricompose, riportando magicamente Osiride in vita per il tempo necessario a generare Horus. Osiride si trasformò poi in un essere stellare (Orione) che andò a governare il regno Celeste dei morti, mentre Horus, suo figlio, dopo aver sfidato e vinto lo zio Set a duello, divenne il primo faraone d’Egitto.

La seconda poesia, invece, è un bel quadretto d’osteria in questi tempi di deboli consumi che non ha bisogno di altre spiegazioni e che non mancherà di divertire, soprattutto se letta dopo aver intinto e gustato un po’ di ciambella inzuppata nell’albana … (a.v.).

INVÉRAN

Uriõ sët sìdar

int e’ zìl ad dizèmbar.

In tëra, e’ švìdar.

La costellazione di Orione

E’ CAFÈ

Gisto Pöldo Tugnàz e Bas-cianõ

Töti al sér e la dmenga dopmeždè

I s’atrôva par fês un marafõ

Söta i purdig dla piaza int e’ cafè.

D’invéran i sta a e’ chêld int un cantõ

A e’ su tavlẽ, ch’l’è un pöst che mèj u ngn è;

D’istê i s mèt fura a l’ôra de’ tindõ

Ch’j è pu int e’ mëž a cvì ch pasa d’alè.

E i s’ žuga un cafè: j è cliẽt bõ,

L’arèb da rës cuntẽt nẽca e’ padrõ

- Staséra me a j ò pérs, dõca a sẽ a péra

Cun cvèl ch’avéva vẽt da te ajìr séra.-

Aumento dei consumi”… Ció, a fê’ acsè,

U s cunsòma al scarãn, briša e’ cafè.

INVERNO

Orione (dalle) sette stelle

nel cielo di dicembre

In terra, il ghiaccio.

I giocatori di carte di Cezanne

IL CAFFÈ

(E)gisto (Leo)poldo Antonio e Sebastiano(ne)

Tutte le sera e la domenica pomeriggio

Si ritrovano per la partita a carte (a beccaccino)

Nel caffè, sotto i portici della piazza.

D’inverno stanno al caldo al loro tavolino

D’angolo, un posto che di meglio non ce n’è;

D’estate stanno all’esterno all’ombra della tenda

E sono di intralcio ai passanti.

Si giocano un caffè: sono buoni clienti,

dovrebbe esserne contento anche il padrone

- Stasera io ho perso, quindi siamo pari

Col caffè che ti avevo vinto ieri sera. -

“Aumento dei consumi”…, ma, così facendo

si consumano le sedie, non il caffè.


[1] Non ho potuto inserire i simboli di «snalefe» segnalati dall’autore ossia delle situazioni in cui le vocali collegate vanno pronunciate come una sola, per rispettare la metrica dell’endecasillabo. Purtroppo il copia-incolla produce una V maiuscola che risulterebbe incomprensibile.