Bagno di Capodanno e non solo, nelle acque dell’Adriatico
di Agide Vandini
Questa volta, per la sua mattana di Capodanno, nonostante la pioggia battente, il 73enne Giovannino Tarozzi, e’ Maròc per noi filesi, ha fatto le cose in grande.
Per il tradizionale bagno fuori stagione nelle acque di Porto Garibaldi, ieri pomeriggio ha radunato un bel gruppetto di amici sulla spiaggia (fra i quali il sottoscritto) con tanto di barbecue e di spuntino caldo uscito dalle amorevoli e sapienti mani della moglie Edda.
Una cosa davvero simpatica, a la rumagnôla, in cui la gioia dello stare in compagnia ha fatto il paio con la sana meraviglia per qualcosa fuori dalle righe, fuori dall’ordinario tran tran. Atmosfere, se vogliamo, ormai perdute, direi quasi da sagra di Sant’Agata di assai lontana memoria, due risate in bella compagnia, dopo emozioni e suspence caserecce che non provavo, da spettatore, più o meno dai tempi fanciulleschi dell’ «albero della cuccagna» piantato nel bel mezzo del «Campicello» di Filo.
Del resto le foto che ho scattato, e che produco in appendice, sono buone testimoni di quanto il nostro Maròc (che io ho sempre preferito chiamare Johnny) sia ancora sulla breccia e di come lui, filese di nascita ed argentano di adozione, sia sempre benvoluto nella comunità del paese natio, ove certe esuberanze del personaggio fan parte ormai della vita e della storia stessa della comunità.
Per leggere intorno a certe sue ardite imprese e conoscere un po’ dell’aneddotica che lo riguarda, si potrebbe andare ad alcune pagine che qui gli ho dedicato[1], oppure leggere qualche mio brano o poesia pubblicata in passato, ma caso vuole che i bei momenti in combriccola, e qualche sorso di Sanzvéš, abbiano stimolato al punto giusto le capacità narrative dell’amico Falco (all’anagrafe Bruno Folletti), sicché sono in grado, nell’occasione, di raccontarvi in esclusiva e in tutti i particolari, una storica e vecchia mattana del Maròc, una incredibile sfida di gioventù, diciamo di circa mezzo secolo fa.
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Lui, Giovannino, lo spirito e la voglia di stupire che oggi spinge tanti tipi strambi ed eccentrici a puntare dritti al Guinnes dei primati ce l’aveva già allora, negli anni Cinquanta e a cavallo dei vent’anni, sia pure la sua fantasia e voglia di misurarsi con l’impossibile fossero confinate nello sperduto paesello, ove la gloria, ancorché meritoria, non superava gli avamposti di Case Selvatiche, del Molino o di Chiavica di Legno.
Le sfide nascevano logicamente all’Osteria (un tempo dla Bianca, più tardi divenuta Bar Centrale) frequentata da simpatici scavezzacollo, ma anche da burloni e spiriti goliardici di prima grandezza fra i quali il tonante Žabòv (Emanuele Barbieri) e il rotondo e giulivo Gigino (Luigi Galamini), due amici perduti da tempo che ricordo sempre con profonda nostalgia, personaggi che, fra una chiacchiera e l’altra, proposero una clamorosa scommessa, raccolta lì per lì dal Maròc, una sfida che a tutti parve subito impossibile da vincere senza una vera e propria impresa. Del resto agli emozionati clienti dell'osteria, parve subito, fin dai primi momenti, che anche il solo cimentarsi nella tenzone, quella sera stessa, fosse pura follia.
Si trattava di coprire, tambur battente, in bicicletta, la distanza fra Filo e il castello di Ferrara , nonché il ritorno a Filo, in meno di due ore. Una novantina di chilometri senza sconti, mica uno scherzo. Giovannino, che notoriamente scorazzava per il paese soltanto in Lambretta, si disse strasicuro di farcela, ma occorreva logicamente una bicicletta. Bastava trovarla.
La soluzione scaturì in un baleno. Fra gli animosi scommettitori quella sera c’era infatti anche Fabión, ovvero l’elegante sarto portuense Loris Filippi, stabilitosi di recente a pochi passi dall’Osteria. Presto fatto, la bicicletta c’era, ed era quella efficiente, nuova e a portata di mano di Fabión. Ovviamente la si dovette prendere con circospezione, alla chetichella, all’insaputa insomma della moglie Rosanna, poco incline ad assecondare, per sua indole, le concessioni imprudenti del brillante Fabión.
Johnny partì immediatamente di gran piglio, pedalò lungo la provinciale fino alla Bastia e poi lungo tutta la statale 16 in direzione nord, seguito a distanza da una giuria di amici in automobile, fino a Ferrara. In prossimità del ponte di San Giorgio, egli si ritrovò fra i piedi una lenta colonna militare di mezzi corazzati che proseguiva a passo d’uomo. Scansò la fila di carri armati improvvisando una spericolata gimkana, si fece largo a suon di scampanellate, ma al castello estense risultò in pesante ritardo sulla tabella di marcia.
Il Maròc tuttavia non poteva cedere e non demorse affatto. Si disse certo di poter recuperare celermente al ritorno, si rimise di buona lena, stavolta preceduto di qualche chilometro dalla vettura degli amici che non temevano più accorciamenti di percorso. Mentre a bordo dell’ammiraglia si discuteva sulle remote possibilità di riuscita del ciclista, assai sorprendente in fatto di resistenza e pervicacia, fu intimato inaspettatamente uno stop, per accertamenti, da una guardia notturna che si era allarmata all’altezza di Monestirolo.
Da dentro l’abitacolo, Žabòv, Gigino e Fabión, un po’ spazientiti, convinsero con modi autorevoli la guardia a non stare a perdere tanto tempo, perché un pericolo stava sopraggiungendo dalla loro stessa direzione, ossia un matto da legare, in fuga solitaria in bicicletta e ormai in arrivo. Al che la Guardia, presa dal panico, lasciata partire l’ammiraglia, chiamò i Carabinieri di San Nicolò, i quali a loro volta, in men che non si dica, si appostarono sulla vecchia statale, punto obbligato di passaggio. Fu lì, a una trentina di chilometri da casa, che fu fermata e bloccata l’auto dei filesi e poco dopo, in capo a una decina di minuti, fu immobilizzato il trafelato, ignaro e paonazzo Maròc.
A quel punto e in quella situazione, logica voleva che, da parte dei Carabinieri, fosse operato un sequestro precauzionale. Žabòv, capita l’antifona, cercò, col suo fare imperioso, di prendere in pugno la situazione e col vocione tonante, tentò il tutto per tutto:
«S’a fašì un secvestàr, gvardì ch’a v tulì una bëla respunsabilitê… U v tucarẹb ad mẹtar dẹntar nënch e’ màt…» (Se procedete al sequestro, vi prendete un bella responsabilità … Dovreste metter dentro anche il matto…)
L’appuntato ferrarese, che non era uno sprovveduto, e che non aveva tanta voglia di cacciarsi in un ginepraio, sembrò pensarci un attimo, ma, temendo pericoli per l’incolumità sua e di tutta la caserma, non volle allontanarsi dalla decisione più classica e prevista dai manuali:
«Ah, bén, la bicicléta a la tién mì, mò al màt, a v al purtì po’ a cà vuàltar…»
(Eh no, la bicicletta me la tengo io, ma il matto, ve lo portate poi a casa voialtri …)
Il gruppetto di filesi, firmate un paio di carte scarabocchiate in fretta, se ne tornò allora tranquillamente al paesello a bordo della Topolino di Žabòv, senza vinti né vincitori. Soltanto la bicicletta nuova di Fabión rimase là, sotto sequestro, nel lontano paese di San Nicolò.
Il sorriso, va detto, all’interno della vettura non tardò a far capolino; cose da raccontare all’osteria, del resto, ce n’erano parecchie. Una certa allegria prese allora i protagonisti della mattana, a cominciare dal buon Johnny, passato per pazzo pericoloso senza poter dire parola. I giovinastri, insomma, l’avevano presa, al solito, con spirito goliardico; altrettanto non poteva dirsi, purtroppo, per il povero sarto. Era serio, preoccupato, e non tanto per la bicicletta che prima o poi avrebbe riavuto, quanto per la reazione imprevedibile della moglie, ignara del pasticcio in cui si era ficcato.
Aveva di che preoccuparsi, in effetti, perché la Rosanna, tosta patafira [donna autoritaria], lo lasciò fuori di casa per una settimana intera, per una lunga, sofferta e spietata penitenza durante la quale il povero Fabión andò a dormire, una notte qui e una notte là, in casa d’amici, fino a che l’ira dell’inflessibile consorte non sbollì. Scese a miti consigli soltanto quando finalmente rivide a casa la preziosa bicicletta.
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Sembrerebbe un episodio ricavato da Amici miei di Monicelli e invece, garantisce Falco, è proprio la zingarata paesana (ante litteram) di un manipolo di filesi, alla testa dei quali, ovviamente, si destreggiava, già allora, quel picchiatello del Maròc.
Mio zio materno Pipèñ (e per altre vie zio materno anche di Giovannino), alle soglie dei 99 anni, da me informato ieri mattina dell’ennesimo bagno fuori stagione programmato dal nipote, ha sconsolatamente commentato con un mezzo sorriso: «Cvèl l’è šgvàst …» (Quello è guasto di cervello …»
Ecco, sia pure con qualche ruga in viso, la sicurezza che si nota nella foto a busto intero dice bene come Johnny sia ancora lui, ancora sulla breccia e capace di trasmettere, con una spericolatezza da brividi ed un cuore rimasto mirabilmente ventenne, allegria, buonumore e voglia di vivere, a chi lo ama e gli sta vicino.
Dalla faccia sorniona, peraltro, indifferente ad una cute divenuta color del cocomero, si direbbe che sta certamente meditando una prossima incredibile impresa …
Giovannino in acqua | Benny e Falco | Impresa riuscita | Edda al barbecue | Guti, Benny e Vanni |
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