giovedì 16 marzo 2023

Pietre filesi nel Tempio Malatestiano

Una testimonianza quattrocentesca della nostra antica fornace

di Agide Vandini

 


Grazie ad una preziosa segnalazione di Vanni Geminiani, metodico raccoglitore di ogni foglio o libro inerente la nostra storia ultramillenaria, sono in grado di riportare qui, a beneficio dei lettori di questo blog, una rilevante  delucidazione pubblicata qualche anno fa su di una rivista romagnola. Essa ci consente di affermare, senza tema di smentita, che le pietre con cui fu costruito il quattrocentesco, famoso e controverso Tempio Malatestiano (vedi a fianco), provenivano in buona parte dalla Riviera di Filo. Proprio così: l’opera oggi imperdibile per i turisti in vacanza a Rimini fu edificata utilizzando una grande quantità di mattoni provenienti dal Ducato Estense, in parte da Argenta e in parte dalla Riperia Fili, ovvero dalla nostra antica fornace all’epoca posta alla sinistra di Po vecchio, fra l’attuale Borgo Maggiore di Filo e Case Selvatiche.

 

Come e perché, quel «Tempio» riminese fece tanto parlare di sé

 


Il grande edificio, che sorse a partire dal 1447, fu ricavato dalla trasformazione della preesistente chiesa di San Francesco in tempio-mausoleo per il signore della città Sigismondo Malatesta. Fu la prima opera architettonica di Leon Battista Alberti ed il signore di Rimini lo volle come sepolcro suo, della sua stirpe e dei dignitari a lui vicini, quale grande monumento celebrativo di sé stesso e della sua casata.

 Nella costruzione e nell’allestimento interno fu prevista un’iconografia quanto mai inconsueta per una chiesa cristiana, articolata in un complesso linguaggio proprio del paganesimo: da qui la denominazione di «Tempio».

 A fianco: Sigismondo Malatesta nel celebre dipinto di Piero della Francesca (anno 1451 ca)

 

La scelta architettonica contribuì al peggioramento dei rapporti con papa Pio II Piccolomini, già critici prima dell’elezione di quest’ultimo al trono di San Pietro (1458) a causa delle precedenti campagne militari del Malatesta ostili a Siena, città natale del Pontefice. Furono rapporti che rimasero sempre burrascosi e che degenerarono nella scomunica del 1460 verso lo stesso Sigismondo. 

La quantità di riferimenti pagani presenti nel «Tempio» era peraltro ritenuta insopportabile da Papa Pio II, tanto che, proprio per questo, riportò nei suoi Commentari: «Aedificavit tamen nobile templum Arimini in honorem divi Francisci; verum ita gentilibus operibus implevit ut non tam Christianorum quam Infidelium daemones templum esse videretur» [Costruì un nobile tempio a Rimini in onore di San Francesco; ma lo riempì di tante opere pagane che non sembra un tempio di cristiani ma di infedeli adoratori dei demoni] (papa Pio II, Commentarii, p. 92) [1].

 

Le 100.000 pietre da Argenta e dalla Riperia Fili

La rivista «Romagna arte e Storia», in un argomentato articolo a firma Oreste Delucca che Vanni mi ha procurato pochi giorni fa, ha fornito la corretta trascrizione e la chiara interpretazione di un documento chiave dell’epoca, un testo da cui si evince, senza ombra di dubbio, la particolare provenienza del laterizio utilizzato nella quattrocentesca costruzione [2].

Riporto qui di seguito, e per intero, la parte dell’articolo che ci interessa da vicino.


 

Si tratta di una documentazione storica certamente degna di nota per il nostro territorio, vuoi per l’utilizzo del materiale laterizio in un’opera divenuta tanto famosa, vuoi per l’attestazione di quanto doveva essere importante, e notoria anche alle Signorie contigue al Ducato, la fabbricazione di buoni mattoni in riva al Primaro, un territorio peraltro, quello della Romandiola in parte a sud e in parte a nord del Po di Primaro (la Riviera di Filo, ovvero il territorio definito dai ravennati ultra padum a Sancto Blasio usque ad Mare), divenuto proprio in quegli anni dominio del Ducato Estense [3].

 

Le tracce dell’antica fornace

Ho già avuto modo di segnalare in passato le tracce di antiche fornaci nel nostro territorio. In Filo la nostra terra riportai denominazioni e toponimi che ne indicavano l’esistenza, appellativi desunti da vecchi catasti ed atti notarili [4].

Queste tracce attestavano chiaramente la presenza di una passata attività laterizia nell’area a nord del Primaro, fra l’antico Hospitale di San Giovanni e Case Selvatiche ed in direzione dei Dossi, un posizionamento dovuto evidentemente alla natura argillosa dei terreni circostanti, oltre alla facilità dei trasporti per via fluviale.

Qualche residuo dell’opificio esistente in loco dovrebbe essere giunto fino al XX secolo, stando ad una foto conservata da Vanni Geminiani. Essa testimonia quanto meno di una fabbricazione ivi condotta fino agli anni a cavallo del Novecento, epoca in cui l’attività presumibilmente si trasferì nel sito attuale, ovvero nell’alveo morto del Primaro, di fronte all’antico Molino di Filo.

 

La fornace del Novecento

Libero Ricci Maccarini ne ricordò così l’insediamento:

 

[…] col gran drizzagno d’epoca napoleonica, il Po divenne Reno e fu spostato ove si trova ora. Nel vecchio greto, reso asciutto, vi sorse la fornace, là dove l’acqua affiorante facilitava i «maltaioli» nell’amalgama dell’argilla, messa a punto per lo stampo fresco di sciacquo e poi sabbiato.

Peraltro, la golena ripianata si prestava all’essiccatura dei mattoni, poi raccolti, messi in griglia, quindi infornati, talché il fuochista, coi bianchi canapuli, potesse alimentare il fuoco e il fumo che l’alta ciminiera disperdeva nell’aria, quale gradito messaggio alla gente dei campi [5].

 

Alla vecchia fornace, quella caramente ricordata dai nati nell’immediato dopoguerra e dai loro genitori, ho dedicato una mostra nel 2007, mostra poi raccolta in 36 pagine messe a disposizione dei lettori di questo blog [6].

Si tratta del resoconto fotografico (e non solo) di una visita scolastica, datata 1961, ad una fornace successivamente modernizzata e totalmente stravolta, all’epoca rimessa in funzione dopo le distruzioni belliche, una riattivazione avvenuta fra non poche difficoltà.

Di queste testimoniò con molti particolari lo stesso Libero R. M. in un pregevole racconto di cui riporto poche righe, ma che andrebbe letto per intero per rivivere le apprensioni e le emozioni di quei giorni[7]:

[…] Ciò, però, che a quel tempo rappresentava una vera e propria preoccupazione per tutti noi, fino a costituire un autentico problema, era la condizione della fornace del Molino di Filo. Essa era stata in gran parte demolita dai tedeschi per ricavarne travi dal coperto e dai solai, legname poi utilizzato nell’apprestamento delle loro fortificazioni, ma le devastazioni non si fermavano qui. Lo stabilimento era stato pure privato dei macchinari di produzione, asportati e trasferiti chissà dove.

Tutto quanto pregiudicava la ricostruzione della fornace stava creando un grosso problema all’occupazione di buona parte della mano d’opera, fino a condizionare la rinascita del paese e delle zone limitrofe che, da sempre, ricevevano impulso dalla produzione dell’importantissimo impianto […].

 

 

La fornace del Molino verrà rimontata altrove

È quanto ho appreso in questi giorni.

La fabbrica ed i suoi macchinari, nella versione più recente della fallita Coop Costruttori, a quanto sembra verrà smontata pezzo per pezzo e rimontata in Africa da qualche parte.

Un altro elemento tradizionale e distintivo del paese se ne andrà dunque per sempre.

Non piangiamoci comunque addosso: così va il mondo, il mercato richiede altro e in loco già si producono e si produrranno altre cose…

Tuttavia la storia dell’attività laterizia filese, durata così a lungo nei secoli, non la possiamo e non la vogliamo dimenticare.

Grazie alle testimonianze d’archivio, nonché ai racconti ed alle fotografie d’epoca, quel suggestivo ricordo rimarrà, sarà parte della nostra memoria collettiva, a Filo come in Romagna, ovunque siano finite le nostre rinomatissime pietre.

Ovunque, certo, e… in primis, ora possiamo dirlo… persino nel grandioso Tempio Malatestiano di Rimini…



[2] Oreste Delucca, Quali pietre per il Tempio Malatestiano?, «Romagna Arte e Storia», Rivista Quadrimestrale di cultura, Anno XVIII, n. 53, maggio-agosto 1998, pp.103-108.

[3] Il dominio ferrarese sulla città di Argenta era invece già in atto da alcuni secoli, prima attraverso una locazione ottenuta dai ravennati, poi per una acquisizione definitiva avvenuta nel corso del Trecento.

[4] A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, p. 232 e pp237-238 nota 9.

[5] L. R. Maccarini, I racconti del «Palazzone», curati da A.Vandini, Longastrino, CDS Edizioni, 2022, p.144.

[6] https://drive.google.com/file/d/1McG0lj11pWKOmmVnTHof1cdvoWYdJyt8/view . La mostra fu basata quasi interamente sulla dettagliata ricerca scolastica amorevolmente conservata dal Dott. Luca Vistoli.

[7] L. R. Maccarini, cit., pp. 111-114.

venerdì 3 marzo 2023

Ricordi di bambino…

 Molti anni fa nella bottega del maniscalco

di Agide Vandini

 

Quando si dice Fèiss-Buc

Ti alzi alla mattina e ti appare sul telefonino una «fattura» di epoca antidiluviana.

«Mascalcia», ma che è?...La bottega del maniscalco… A Filo… Una fattura datata 1933… E poi Magnani Nicola… Ma sì, quello a cui tremavano le mani…

«A trĕmat coma Nicôla?…» Ti diceva la gente che passava, quando magari ti eri appena fermato a parlare con qualcuno in una giornata con un freddo terribile…

Nicôla… Quello che, all’Osteria della Casa del Popolo, nonostante i suoi crescenti tremori, si caricava con pazienza la pipa e giocava a Cùl-Méj con l’amico e quasi coetaneo Veduti.

Che coppia, quei due con le carte in mano…

Intercalavano mosse e contromosse ripetute da chissà quanti anni:

«’Sa fét [cosa fai?]»

«Žò…[Sto giù]»

«Du pùnt [Due punti…]» Il fiammifero segnapunti infilato nella stecca di legno avanzava di due buchi…

Io, un ragazzetto all’epoca, non mi stancavo mai di guardarli.

Cercavo di capire come funzionava il gioco.

 


La «Fattura» del 1933


Nicola Magnani (1872-1963), Anastasia Vandini (1922-1992) e Luigi Veduti (1877-1961)

 

 

Ad un certo punto, il più attardato nel punteggio sfidava l’avversario con una mossa disperata, cercando di arrivare per primo al traguardo dei 50 punti, completando quindi le cinque fila di buchi della bruciacchiata stecca di legno.

«Am žùg e’ rëst… [Mi gioco il resto dei punti]»

Ma l’altro non cadeva nel tranello.

Imperterrito non accettava il rischio:

 «Žò…[Sto giù]» Dunque l’inseguitore avanzava di poco…

Poi la scarica finale con tutte le carte in mano:

«Fênt, cavàl e Rè… [Fante, Cavallo e Re]» E il fiammifero aggiungeva un punto, mentre in tavola già compariva un battagliero “sette” …

«U j vô di’ Fént... [Ci vogliono dei Fanti...]»

«An n’ò briŝa... [Non ne ho]»

«Elóra at dëg Stupòñ… [Allora questo è uno “Stoppone”]» E giù il diluvio di carte in sequenza senza che l’avversario potesse calarne una qualunque…

 

Ricordi lontani e, con essi, la voce della ‘Staŝìa venuta a raccogliere la mezzetta esaurita:

«A sìv a pöst acsè?... [Siete a posto così]?»

«Cooosa?... Nö-nö… Pôrtan un’êtra...» [Niente affatto... Ne porti un’altra…]»

Mi basta rivedere la loro foto di quegli anni assieme all’indimenticabile e autoritaria Staŝìa per sentirne le voci, percepire l’odore delle pipe, lo scuotere dei bicchieri e delle mezzette…


 In Nicôla riconoscevo il buon uomo, pur invecchiato, che una decina d'anni prima avevo visto, già anziano, nella sua bottega, la ‘mascalcia’ appunto, retta assieme al figlio Rino, detto ‘Pirelli’, forse per le bretelle che da sempre gli reggevano i pantaloni.

Andavo lì con mio padre Ghéo che talvolta mi portava con sé quando veniva chiamato in aiuto.

Ricordo bene la terra battuta della bottega ove facevano entrare le bestie, i cavalli possenti nella loro attesa nervosa, mentre mio padre martellava e modellava sull’incudine il ferro arroventato nella fucina e ‘Pirelli’, a sua volta, scavava con sapienza l’impronta nello zoccolo da ferrare.

Io, bimbetto di pochi anni, guardavo da un angolo e, pur rassicurato dalla presenza del babbo, temevo i movimenti della bestia che pareva potermi travolgere nel suo fitto scalpicciare; allo stesso tempo venivo via via attratto e affascinato dal gran fervore e dal continuo daffare dei due Fradùr [Maniscalchi], fino a che i chiodi quadrangolari venivano facilmente piantati e in parte ribattuti sullo zoccolo proteso, mentre l’odore corneo di unghia bruciacchiata si spandeva dentro e fuori bottega…

Già, la bottega, quella che ho evidenziato in giallo nella foto di fine anni ’40, scattata proprio dalla direzione della mia casa natia…

Ricordi lontani, eppure indelebili.

Immagini, suoni, odori, fatiche che appartengono ad un’altra epoca.

Mascalcia Magnani Nicola & Figlio - FILO”…

Tre quarti di secolo fa… Una vita… Che emozione…

 

 

Riguardo il calendario appeso al muro, oltre lo schermo del mio PC.

È il 3 di marzo del 2023.

Sono già risalito dal tuffo profondo nelle acque della memoria …

Che dire?

«Ciao Nicôla, ciao Pirelli, ciao babbo Ghéo e…

Grazie Adolfo Roma…

Grazie infinite, Fèiss-Buc…»