mercoledì 21 novembre 2007

Due belle poesie di Orazio Pezzi


Orazio Pezzi è nato a Filo nel 1947 e vive da tempo a Ravenna. Ha composto alcune ispirate poesie dalle quali traspaiono autentici sentimenti d’amore, uniti a grande nostalgia per il paese natio e, più in generale, per i luoghi dell’infanzia e della gioventù.
Personalmente provo ogni volta grande emozione nel leggere i suoi versi.
In nome della bellissima amicizia che a lui mi lega da sempre, mi è caro pubblicare questi due testi, convinto che in essi si rispecchino i sentimenti di una generazione di filesi, una generazione, quella a cui appartengo io stesso e che ora volge alla terza età, capace per lunghi anni di grande dedizione e sacrificio e, allo stesso tempo, di mai dissimulata gratitudine verso luoghi, paesaggi e persone, verso sbiadite immagini care al nostro cuore che tuttavia ne hanno segnato i momenti più belli (Agide Vandini).

Don Lolli cappellano a Filo (1903)

Un ricordo del grande sacerdote

di Agide Vandini

Lo scorso 7 ottobre sono iniziate a Ravenna le celebrazioni per il 50° anno della morte del Servo di Dio[1] Mons. Angelo Lolli (1880-1958), fondatore dell’Opera di Santa Teresa del Bambino Gesù. L’opera di Don Angelo è piuttosto nota ed il suo zelo sacerdotale fu solennemente ricordato a Ravenna l’11 maggio 1986 da Papa Giovanni Paolo II durante la sua visita pastorale in Romagna. «A lui che fu strumento docile del Signore ed esempio di dedizione totale ai fratelli sofferenti – sottolineò durante l’incontro con gli ammalati-, va il mio pensiero riconoscente».

Ciò che ben pochi sapranno, però, è che Don Angelo Lolli, nato a Ravenna il 21 agosto 1880, non appena ricevuta l’ordinazione sacerdotale (6 giugno 1903), fu destinato a Filo per alcuni mesi come cappellano alla nostra Parrocchia di S.Agata. Il primo dei 24 battesimi che celebrò lo si trova annotato al 6 agosto 1903 (n.52) e l’ultimo (n.75) reca la data del 25 novembre dello stesso anno.

Chi fu comunque Don Angelo Lolli come uomo e come sacerdote?

I suoi biografi lo descrivono come uomo d’azione e di fede ardente calatosi profondamente nella realtà umana e sociale in cui visse. Fu uomo di creatività sbalorditiva che diede vita a numerose iniziative con le quali Ravenna imparò a conoscere e praticare una nuova forma di carità cristiana. Nel 1911 diede vita a due istituzioni parallele, le prime ed uniche nel loro genere a Ravenna: la Biblioteca circolante e l'Opera Assistenza per gli infermi poveri a domicilio. Qualcosa per il corpo, qualcosa per la mente, il tutto per l'anima. «Andare all'anima attraverso il corpo», diceva. Coadiuvato da un gruppo di ragazze, girava da una casa all'altra della città, incessantemente, visitando centinaia di famiglie, portando sussidi in denaro, biancheria, cibo, praticando le cure mediche necessarie. Allargò in seguito questo gruppo di infermiere cui trovò un lavoro per le ore libere dalle visite. Istituì infatti un laboratorio di maglieria, che procurò un reddito sufficiente alla vita della comunità e diede lavoro e assistenza a ragazze altrimenti disoccupate. Il laboratorio, che nel 1916 contava ottanta dipendenti, permise allo stesso tempo di raggiungere un terzo scopo: quello di fornire mezzi per l'assistenza degli infermi poveri. Nei vasti locali Don Lolli allestì così un ambulatorio gratuito per i poveri. Nel 1914 diede il via ad un negozio di beneficenza, tuttora funzionante. Nel 1919-1920 aprì le colonie di Bertinoro e di Fognano per ospitare i bambini poveri e gracili e nel 1929 comprò una farmacia per poter usufruire delle medicine a minor costo.

Don Lolli insomma fin dalle sue prime iniziative utilizzò ogni mezzo per poter alleviare i poveri e i sofferenti. Facendo poi visita nelle loro case, Don Lolli conobbe la condizione degli ammalati cronici: bambini, adulti, anziani, in difficoltà fisiche e psichiche che, per la gravità della malattia dovevano essere curati altrove, ma che, privi dei soldi necessari per la retta, non potevano essere ricoverati in adeguate strutture. Maturò così in lui l'idea dell'Ospizio Santa Teresa per i cronici, i più poveri, i più ammalati, i più abbandonati che fu inaugurato nel 1928. Al suo sorgere il servizio era garantito dal personale religioso che gratuitamente metteva la propria vita al servizio dei più poveri.

Attualmente, ad 80 anni di distanza, sono ancora accolte quasi 200 persone all’interno dell’Opera e circa 150 nei vari Centri. Gli Ospiti non pagano una retta, ma versano la loro pensione che spesso è minima, mentre al resto pensa la Provvidenza che giunge attraverso le persone di buona volontà e generosità.

Monsignor Angelo Lolli diceva spesso: «Compi il bene e gettalo in mare, Dio lo raccoglierà». Tanta fede e coraggio furono certamente alla base delle molteplici attività, assieme allo sconfinato amore per i poveri e gli infermi, per i malati cronici e abbandonati. Per essi conservò sempre un profondo spirito di umiltà, di silenzioso raccoglimento, senza mai far mostra di sè e delle sue attività.

La morte «sua ultima impresa e coronamento di tutte le altre», come ebbe a definirla, gli giunse il 17 aprile 1958.

Al grande uomo e sacerdote, vada, ora e sempre, il caro e devoto ricordo dei filesi.


[1] Servo di Dio è un titolo che la Chiesa cattolica assegna post mortem a persone che ritiene si siano distinte per «santità di vita» o «eroicità delle virtù», e per le quali è stato avviato il processo canonico di beatificazione. Per una biografia più completa, si veda: www.donangelololli.it/index.html.

martedì 13 novembre 2007

A sen di Rumagnul…

(Il punto sul controverso Confine Nord della Romagna)

di Agide Vandini

Scriveva in prima pagina la Ludla di ottobre[1] che: «quando noi diciamo Romagna intendiamo quell’area culturale che va dal Sillaro sin quasi al Foglia, dal crinale dell’Appennino al Reno, anzi al suo corso storico, più settentrionale dell’attuale».

Poiché ci si riferiva all’«area culturale» e non alla «dipendenza amministrativa», credo che sia il caso di approfondire. Pochi cenni di storia e qualche informazione forse aiuteranno a capire come e perché, tutta la terra fra il corso attuale del Reno e le antiche Valli di Comacchio (bonificate fra il 1870 ed il 1965), appartenga decisamente all’area culturale romagnola.

Si saprà che l’antica «Riperia Padi», ovvero il territorio che, da ovest ad est, annovera, a nord del Reno (ex Po di Primaro) i centri abitati di: Bastia di S.Biagio, Case Selvatiche di Filo, Filo, Molino di Filo, Menata di Longastrino, Longastrino, Anita, S.Alberto, centri con confini amministrativi col ferrarese che scorrono ancora lungo l’alveo di Po Vecchio e, quindi, comunità che sono a cavallo fra la provincia di Ferrara (com.Argenta), e quella di Ravenna (com. Alfonsine e Ravenna). Ricordato che il capoluogo provinciale più prossimo è di gran lunga Ravenna, ciò che dovrebbe avere rilievo nella questione «culturale» è una visione «storica». Se si osserva infatti la posizione degli abitati in una mappa anteriore alle sistemazioni fluviali di fine Settecento ed alle bonifiche successive[2], balza all’occhio l’enorme barriera naturale costituita per secoli e millenni dall’ampio bacino d’acqua salata a nord del territorio rivierasco, per tutta la sua lunghezza.

Di qui la logica e facile deduzione di come, nel corso della storia, i traffici, i commerci nonché l’interscambio culturale in senso lato di queste popolazioni non abbiano potuto avvenire che in direzione del Ravennate, del Lughese e di tutta la ex Romagna Estense. Nondimeno i legami furono (e sono tuttora) unidirezionali verso Ravenna in campo religioso (con gli impliciti effetti civili fino all’Unità d’Italia) data la mai cessata dipendenza di tutto il territorio dall’Archidiocesi Ravennate, la cui competenza s’estende ancora oggi ben oltre l’argentano.

Con questi presupposti, va da sé che la cultura popolare, le tradizioni e soprattutto il dialetto, ovvero la lingua parlata dalla quasi totalità della popolazione fino all’alfabetizzazione del Novecento, siano sempre stati «romagnoli», pur con comprensibili variazioni fonetiche rispetto alla «bassa» centro-romagnola[3]. Chi ben conosce queste zone, sa anche che il dialetto, nei pochi chilometri che vanno dalla Bastia a Boccaleone, volge poi al ferrarese, passando per un’area limitata quanto ibrida di dialetto «argentano», attraverso una interessante mutazione morfologica che sarebbe forse il caso di approfondire in altra trattazione.

Stupisce che, dell’appartenenza culturale alla Romagna dei paesi che fanno capo all’ex comune di Filo (ora «basso-argentano»), siano ben coscienti i ferraresi e lo siano assai meno le Associazioni romagnole contemporanee, che spesso semplificano ed arretrano il confine «culturale» al corso attuale del Reno. Eppure non è la prima volta che si puntualizza e si argomenta sulla questione.

Scriveva ad esempio la Gazzetta Ferrarese nel primo Novecento al tempo della «settimana rossa»: «Da Argenta apprendiamo che il contraccolpo dei gravi moti rivoluzionari della Romagna limitrofa ha sollevato un vivo fermento in tutti i paesi che più sono in contatto col Ravennate: e la cosa non deve molto meravigliare se si pensa che la parte bassa dell’Argentano è più romagnola che ferrarese per costumi, e che romagnolo puro è il dialetto che parla»[4].

E’ interessante rileggere anche qualche passo del «Corriere Padano» del 6 aprile 1939[5] : «V’è una parte, sia pur minima della provincia di Ferrara, da considerarsi etnicamente romagnola? Per chi conosce l’ubertosa zona dell’argentano, posta al limite meridionale della provincia stessa, tale domanda è quasi oziosa. Infatti non v’è dubbio alcuno che storia, tradizioni, dialetto, toponomastica, stiano ad affermare l’asserto. [...]»« [...] lo stesso Rossetti conferma che i nuclei rurali di Longastrino, Filo, S.Biagio, Argenta, pur trovandosi nel ferrarese, sono romagnoli o “quasi” [...] » L’articolista conclude addirittura in tono di sfida : «Dite ad un [basso-]argentano ch’egli non è romagnolo: buon per voi se non capite il suo dialetto e le laudi che egli vi intona

Quanto alla dipendenza amministrativa, per comprendere il formarsi dell’assetto territoriale odierno che complica la vita a queste genti, e che è allo stesso tempo arduo rimuovere, si vedano le note storiche più sotto.

Gli elementi e le notizie, sia pur riportati in mera sintesi, credo possano convincere anche i più riottosi circa il caso di differenziare, in merito al confine nord della Romagna, il concetto di «area culturale» da quello di «dipendenza amministrativa». Se, in sostanza, si considerano «romagnoli» territori che sconfinano nel marchigiano, toscano o bolognese, oppure ancora nella Repubblica di S.Marino, non si vede perché, il lembo di terra un tempo fra il Po e le Valli, da sempre romagnolo di lingua e di tradizioni, non possa ancora definirsi con altrettante buone ragioni: «Romagna ferrarese».

Concluderei ricordando con piacere la definizione di «area culturale romagnola» di Icilio Missiroli (1924): « Dai tre pinnacoli arditi di S.Marino, alle cime del Montefeltro; dai colli di Cesena, a Polenta, a Bertinoro, a Rocca S.Casciano; da Modigliana, a Brisighella, alle colline dell’imolese, i colli opimi di vigne tendono le braccia uno all’altro, stringendosi in dolce catena che accompagna la linea ferroviaria che allaccia le città di Romagna a Bologna, cervello dell’Emilia. Sono essi le sentinelle che la natura ha posto a guardia della vasta pianura che dal riminese, dal cesenate, dal forlivese, dal faentino, degrada ricca di messi, di orti e di frutteti fino alla campagna lughese e alle valli di Comacchio. Questa è la Romagna, bambino mio. Tu la troverai un po’ diversa nelle divisioni provinciali, ma in tutte queste terre si parla il nostro aspro dialetto, e gli abitanti di esse sono fieri di dire con te: « A so Rumagnol»[6]. Insöma, a fêla piò curta: a Fil a sen di Rumagnul…

Notizie storiche essenziali

- La striscia rivierasca del Po di Primaro, la più importante via d’acqua del territorio, fu abitata fin da tempi antichissimi. Filo, il centro più antico, sorse presumibilmente nell’Alto Medioevo. L’esistenza di una chiesa è documentata a Filo (S.Maria) dall’anno 1022 ed a Longastrino (S. Giuliano) dall’anno 1195. Alle villae ultra padum Sancto Blaxio ad mare ed ai loro abitanti erano dirette speciali norme degli Statuti Ravennati del Duecento e di quelli successivi[7].

- Tutta la Riviera, sia a sud che a nord di Po Vecchio fino alle Valli, appartenne al Comitatus Ravennatis fino al primo Quattrocento. Le villae ultra Padum della Riperia Padi, in quanto parte della Romagna, furono nell’anno 1371 opportunamente censite nella Descriptio provincie Romandiolae del Cardinale Anglic Grimoard de Grisac, fratello del papa Urbano V[8].

- Nel 1433 la parte ultra padum della Riviera di Filo, con la sua Bastia del Zaniolo, passò ai Duchi di Ferrara, nel quadro di un’espansione territoriale che interessò tutta la cosiddetta Romagna Estense. La Riviera si resse a comune autonomo fino all’Unità d’Italia (1861). A quell’epoca si restituirono a Ravenna i territori a sud del Po Nuovo (Lugo, Bagnacavallo ecc.); il comune di Filo (di Ferrara), invece, fu incorporato gradualmente - e non senza opposizione - in quello di Argenta fra il 1861 ed il 1888; le zone ravennati di Filo, Longastrino, Humana (poi Anita) e S.Alberto vennero trasferite da Ravenna ad Alfonsine[9].

- Le sistemazioni fluviali di fine Settecento comportarono l’immissione delle acque del Reno nell’alveo del Po di Primaro (Po Vecchio) e uno spostamento del fiume quasi ovunque verso sud[10], tramite alcune rettificazioni fluviali (Po Nuovo). I paesi e le borgate di Filo e Longastrino si ritrovarono lungo un fiume abbandonato, mentre dal prosciugamento delle valli ravegnane si ebbe tanta terra da lavorare. Nel primo Ottocento affluirono così dalla Romagna, in particolare dal lughese, molte famiglie contadine i cui soprannomi sono, ancora oggi, gli stessi delle zone d’origine. La popolazione aumentò, nacque un nuovo villaggio romagnolo «Chiavica di legno» di fronte alla foce del Santerno ed in prossimità di due passi fluviali, villaggio che fu poi abbandonato a fine Novecento, quando i suoi abitanti si spostarono a Filo. Questi apporti hanno in tutta evidenza rafforzato i tradizionali legami col ravennate.


[1] Periodico Associazione Istituto Fredrich Schürr per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo.

[2] Si veda, ad esempio, A.Baruffaldi, Corographia del Ducato di Ferrara, 1758 in A.Vandini, La valle che non c’è più, Faenza Edit, 2006, p. 7.

[3] Tale è ad esempio l’assenza dei suoni nasali centro-romagnoli, assenti peraltro anche in altre zone periferiche dell’area linguistica.

[4] Anno LXVIII N.159, venerdì12 giugno 1914.

[5] Articolo a firma «U.Emme» dal titolo «Romagna ferrarese».

[6] I. Missiroli, Romagna, Firenze, R.Bemporad & F., 1924, pp. 39-40.

[7] I capitoli interessati sono integralmente trascritti e tradotti in A. Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp. 175 ss.

[8] Cfr. Anglic D.G., La Descriptio Romandiolae a cura di L. Mascanzoni, Bologna, La Fotocroma Emiliana, 1985, pp. 238-240. Argenta, affittata e poi venduta agli Estensi qualche anno prima (1344) dopo un paio di secoli di scontri e litigi, non fu censita.

[9] L’opposizione al trasferimento di S.Alberto fu accolta, sicché questo paese rimase in comune di Ravenna.

[10] In corrispondenza di S.Alberto la rettificazione si fece a nord, sicché esso è venuto a trovarsi a sud del Po Nuovo (poi Reno).

lunedì 5 novembre 2007

Blìgul e turtlen… (Ombelichi e tortellini)


Agide Vandini, grande appassionato di calcio, partecipa da anni col nickname di «Filese» al forum del sito www.forumrossoblu.org, scrivendo di tanto in tanto per i siti sostenitori del Bologna FC 1909 corsivi di contenuto storico-folclorico dal tono scherzoso, dedicati di volta in volta all’attualità della sua squadra del cuore. Questo è il secondo pezzo per il «Mondo del Filese» e per i tanti amici che, in paese come in ogni parte del globo, seguono con amore e con passione le vicende del glorioso Bologna.

In questo nostro paese, di santi, di navigatori e di poeti, di inventori fantasiosi, strateghi insigni, donne sontuose ed Artisti con la A maiuscola, non nascono più bellezze raffinate e sublimi come la leggendaria Dama che con le sue meraviglie incantò il duecentesco oste di Castelfranco fino a spingerlo niente meno che alla creazione dei tortellini; nascono però squadre pratiche, concrete, capaci di imprese funamboliche e di rapide conversioni tattiche come il Bologna di Daniele Arrigoni, una formazione che, senza clamori e senza cantori, sta facendosi largo a suon di gomiti nella palude prestipedatoria chiamata serie B e che, alla fine della stagione, potrebbe ridare alla città il rango che le spetta, vale a dire il liberatorio ritorno in serie A.

Si racconta a Castelfranco che in un anno imprecisato del Duecento arrivò, proprio alla locanda della Dogana, una bellissima signora che, con fare elegante, scese da una carrozza tirata da quattro cavalli. Il locandiere con zelo inusitato accompagnò la bella dama in camera perché potesse rinfrescarsi a dovere e riposare dopo il lungo viaggio.

Il buon uomo, che in quella locanda era padrone, cuoco ed anche cameriere, colpito da tanta bellezza si attardò, poi, accanto alla porta della stanza della sconosciuta, diede uno sguardo al corridoio e, infine, appiccicò un occhio al buco della serratura. Ciò che gli apparve, e che lo fece andare in brodo di giuggiole, fu il delizioso e conturbante ombelico della dama. Sconvolto dalla inebriante visione, il locandiere corse in cucina e si mise a preparare la cena.

Lavorò la pasta con le mani e prese a formare quasi inconsciamente pezzetti di pasta secondo l’archetipo del grazioso ombelico che aveva ormai fisso in mente. Felice che gli fossero ben riusciti, il locandiere preparò poi con gli ombelichi di pasta, che aveva accuratamente riempito di condimento, una saporitissima minestra asciutta.
Quando la bella dama ebbe mangiato un piatto di questa pasta sconosciuta e così squisita, chiese a chi andasse il merito di tanta bravura, e il locandiere, arrossendo, rispose con sincerità: «… A vossignoria….”. Erano nati i tortellini.

Altrettanta ammirazione avrebbe dovuto suscitare sabato scorso il Bologna di Arrigoni in quel di Modena. Si dice che per i primi venti minuti del «derby della secchia rapita» i canarini modenesi non abbiano neppure visto da che parte fosse il pallone. Semplicemente correvano all’indietro quando correvano in avanti i rossoblu e viceversa. Ad un certo punto il pallone è comparso alla vista dei poveri modenesi, ma era ormai in fondo al sacco, scagliato colà dallo scultoreo romagnolo Simone Confalone che poi si è messo a saltare per il campo con incredibili balzi da saltimbanco.

Chiunque sarebbe rimasto incantato da simili visioni e sarebbe magari andato in cucina per creare qualcosa alla maniera del celebre locandiere del Ducento; chiunque, appunto, ma non di certo i modenesi d’oggi, poco sensibili, ahimè, alle misteriose forme cui può assurgere talvolta la più sublime bellezza.

I canarini invece hanno cominciato a darci dentro come forsennati senza capirci quasi nulla, soprattutto quando il tecnico rossoblu si è messo a cambiare in continuazione l’assetto tattico della squadra. Neppure la seconda rete bolognese, un’altra perla mai vista a queste latitudini, col pallone accompagnato in rete addirittura col fondo schiena, ha riportato i modenesi alla realtà. Quasi accecati dal loro stesso furore, essi non ce la facevano a contemplare ed ammirare questi prodigi: avevano momentaneamente perso il dono della vista, quello che, si sa, è fondamentale per sbirciare, come insegnano gli antichi, almeno dal buco della serratura.

Sicché a fine partita altro non hanno saputo fare se non cianciare intorno all’arbitro che – quando mai? – li avrebbe trattati da banditi, concedendo rigori per falli commessi mezzo metro fuori area e via di questo passo. Insomma i poveri canarini col loro rancoroso allenatore in testa, un minimo merito ai loro avversari non hanno voluto riconoscerlo. Si spiega così perché certe creazioni, come quelle dei tortellini, oggi non sono più possibili: manca la giusta umiltà davanti a certe inebrianti bellezze.

Dunque cosa si può consigliare allora agli amici modenesi in preda a tanto livore? Non resta loro che ricorrere alle terapie dell'antica e sapiente medicina popolare del loro ducato, che suggeriva, davanti a certi casi gravi, rimedi portentosi.

I dolori artritici ad esempio si guarivano con una pomata maleodorante fornita dagli stregoni, ossia l’«unto di marmotta», le ferite fresche – come quella di sabato – si rimarginavano con sterco di bue. Per il mal di denti servivano patate affettate da appoggiare alla guancia dolorante, mentre l’itterizia, anche quella provocata dalle più amare sconfitte, andava curata, come in altre regioni, inghiottendo pidocchi vivi.

La ricetta che più potrebbe venire buona, però, nella fattispecie, era quella prevista per chi soffriva di allucinazioni. Pare che non ci fosse niente di meglio che prendere un salutare quanto terribile spavento.

Mutti e compagni allora, forse sono già sulla strada della guarigione.

Il Filese, 5 novembre 2007



Risparmiatori defraudati. Il caso Giuffrè…

di Beniamino Carlotti e Agide Vandini


In tempi di finanza spericolata, finanziarie piramidali, furbetti del quartierino, imprenditori e manager più o meno unti dal signore, dal partito o da qualsivoglia altra associazione o congregazione, si vuole qui ricordare, per le molte analogie col caso Coop-Costruttori che ci riguarda da vicino, una vicenda prettamente emiliano-romagnola di mezzo secolo fa e che andò sotto il nome di “Caso Giuffrè”.

Fu uno scandalo all’epoca provocato da un’attività bancaria truffaldina e surrettizia, definita anche “Anonima Banchieri”. Molti ancora oggi ne sottolineano, con qualche inevitabile sarcasmo, gli aspetti grotteschi per non dire leggendari:

«Il p curioso e anche singolare “miracula” fu quello dove Dio comparve come banchiere nelle vesti di un certo Giovanni Battista Giuffrè. La provvidenza divina moltiplicava i biglietti di banca nelle sagrestie, che ovviamente Giuffrè prima raccoglieva dai parrocchiani con a fianco i curati che lo trattavano come un santo. Creò scandalo. Coinvolse banche, vescovi, Stato, due ministri delle Finanze (Preti e Andreotti). I giornali pubblicavano perfino le foto quando avveniva la “moltiplicazione delle banconote” con Giuffrè attorniato da parroci in estasi. Poi la provvidenza emigrò verso altri banchieri (loro i miracoli normalmente li chiamano “operazione finanziaria di rientro”, cioè “paga o ti faccio fallire”), e lui, bello paffuto, col sorriso mefistofelico, non riuscì nemmeno a restituire le somme ricevute. La provvidenza aveva incontrato il diavolo - disse - e si era nel frattempo mangiato ogni cosa. A piangere - questa volta - furono decine di migliaia di risparmiatori, per la disperazione di aver perso tutto»[1].

Vediamo un po’ meglio come andò la storia:

Il caso Giuffrè fu uno scandalo finanziario scoppiato in italia nel 1958, sotto il secondo governo Fanfani. Un ex bancario, Gianbattista Giuffrè, accreditato presso la curia vescovile locale, iniziò a raccogliere risparmi presso le famiglie contadine e piccolo borghesi della Romagna, promettendo tassi di interesse altissimi, che arrivavano anche al 100%.

Presentando come garanzia di affidabilità le sue amicizie con gli ambienti religiosi (per questo fu poi soprannominato "il banchiere di Dio"), e contando su alcune connivenze negli ambienti politici e nel sistema bancario, Giuffrè riuscì inizialmente a rastrellare ingenti somme di denaro.

In una prima fase Giuffrè rimborsava effettivamente gli altissimi tassi di interesse, contribuendo in tal modo a pubblicizzare e rendere molto appetibile la sua raccolta, che così si estese rapidamente anche in altre province.

In realtà Giuffrè non investiva il denaro raccolto in attività finanziarie, ma si limitava a rimborsare gli alti tassi di interesse semplicemente utilizzando il denaro raccolto successivamente presso altri risparmiatori, secondo il classico meccanismo della "catena di S.Antonio".

Quando un certo numero di risparmiatori, sospettando la truffa, iniziò a chiedere il rimborso, Giuffrè non fu in grado di rimborsarli, gli ultimi entrati nella raccolta persero il loro denaro e la truffa fu scoperta.

Si trattò di un caso che suscitò notevole clamore all'epoca, che scosse l'opinione pubblica, e provocò anche un terremoto politico. Nel processo che ne seguì, infatti, furono chiamati in causa il ministro delle finanze Luigi Preti e il suo predecessore Giulio Andreotti, si istituì una commissione parlamentare di inchiesta, e in definitiva il clamore del caso Giuffrè contribuì comunque a far introdurre in Italia, negli anni seguenti, una più severa normativa sulla raccolta di risparmio[2].

Era avvenuto, dunque, che nel 1949 il Giuffrè, ex cassiere di un Istituto Bancario Imolese, si era trasformato in consulente finanziario ed amministratore di istituti ecclesiastici romagnoli e bolognesi, in particolare ad Imola, Forlì, Cesena e Ravenna. In quel ruolo, egli orientò prevalentemente la sua attività nella “raccolta di denaro”, raccolta che perseguì tramite la corresponsione di interessi stratosferici. Raccolse in alcuni anni enormi capitali, sia da Istituti che da privati cittadini. Si racconta di gente che, negli anni in cui il denaro si teneva ancora nel materasso, alle otto del mattino si recava con sacchi di denaro contante all’ufficio di Giuffrè per consegnarli personalmente, nella speranza di spuntare cinque o sei punti in più di interesse.

Il sistema a mo’ di catena di S.Antonio naturalmente non potè durare all’infinito. S’inceppò col venir meno della cieca fiducia nei suoi confronti ed in conseguenza delle prime indagini giudiziarie. Per circa otto anni Giuffrè operò comunque quasi indisturbato, mentre le inchieste che si aprirono sulle sue attività non approdarono a nulla.

Lo scandalo vero e proprio scoppiò a partire dal settembre del ‘57, quando s’infittirono le indagini della Guardia di Finanza di Forlì e Ravenna sulle sue operazioni e vi si constatò come “l’insufficienza della legislazione non consentiva forme di intervento della pubblica autorità per prevenire e reprimere fenomeni abnormi che possano recare nocumento direttamente o di riflesso, alle normali attività delle aziende di credito o turbare la fede pubblica”.

Del crac, che giunse a privare dei loro averi centinaia di risparmiatori e per il quale Giuffrè se la cavò con poco o nulla, si è riparlato di recente a proposito del rifiuto di padre Pio di usare le offerte ricevute a monte Rotondo per colmare il buco nero causato nelle finanze dell’Ordine dei cappuccini dal «banchiere di Dio». La cosa, all’epoca, lo aveva messo in notevole contrasto con Papa Giovanni XXIII[3].

Sul caso Giuffrè espresse un commento significativo Luigi Einaudi (questo sì davvero un Economista con E maiuscola…), riportato dal Carlino il 29 Gennaio 1959: “fa d’uopo ricordare, che non esiste nessuna maniera, né semplice né misteriosa di fare denaro, e se eccezionalmente dovesse accadere, a colui il quale ci riesce, non gli verrebbe mai in mente di elargire parte dei guadagni sotto forma di interessi stravaganti ad altri”.

Parole sagge e, a ben vedere, ancora di estrema attualità, parole purtroppo ancora inascoltate da risparmiatori ancora poco tutelati, spesso sprovveduti e fin troppo facili prede di imbonitori e finanzieri spericolati.

La storia ci dice chiaramente che fede (non solo religiosa ovviamente…) e finanza non vanno quasi mai d’accordo e che la memoria dei fatti accaduti nel passato dovrebbe meglio consigliarci nelle nostre valutazioni. Soprattutto, essa dovrebbe aiutarci nel diffidare in futuro di qualunque pifferaio bussi alla porta e di chiunque possa far scempio, ancora una volta ed in un colpo solo, degli ideali più nobili e della nostra buona fede (Agide e Benny).

Nella foto: Una scritta amara ed allo stesso tempo sarcastica, comparsa a Menate di Longastrino nel luglio 2005. Da essa appare tutta la disillusione del territorio per il crac della Coop Costruttori, depositaria della quasi totalità dei risparmi della popolazione locale e guidata dal cosiddetto «patron»: Giovanni Donigaglia.