martedì 13 novembre 2007

A sen di Rumagnul…

(Il punto sul controverso Confine Nord della Romagna)

di Agide Vandini

Scriveva in prima pagina la Ludla di ottobre[1] che: «quando noi diciamo Romagna intendiamo quell’area culturale che va dal Sillaro sin quasi al Foglia, dal crinale dell’Appennino al Reno, anzi al suo corso storico, più settentrionale dell’attuale».

Poiché ci si riferiva all’«area culturale» e non alla «dipendenza amministrativa», credo che sia il caso di approfondire. Pochi cenni di storia e qualche informazione forse aiuteranno a capire come e perché, tutta la terra fra il corso attuale del Reno e le antiche Valli di Comacchio (bonificate fra il 1870 ed il 1965), appartenga decisamente all’area culturale romagnola.

Si saprà che l’antica «Riperia Padi», ovvero il territorio che, da ovest ad est, annovera, a nord del Reno (ex Po di Primaro) i centri abitati di: Bastia di S.Biagio, Case Selvatiche di Filo, Filo, Molino di Filo, Menata di Longastrino, Longastrino, Anita, S.Alberto, centri con confini amministrativi col ferrarese che scorrono ancora lungo l’alveo di Po Vecchio e, quindi, comunità che sono a cavallo fra la provincia di Ferrara (com.Argenta), e quella di Ravenna (com. Alfonsine e Ravenna). Ricordato che il capoluogo provinciale più prossimo è di gran lunga Ravenna, ciò che dovrebbe avere rilievo nella questione «culturale» è una visione «storica». Se si osserva infatti la posizione degli abitati in una mappa anteriore alle sistemazioni fluviali di fine Settecento ed alle bonifiche successive[2], balza all’occhio l’enorme barriera naturale costituita per secoli e millenni dall’ampio bacino d’acqua salata a nord del territorio rivierasco, per tutta la sua lunghezza.

Di qui la logica e facile deduzione di come, nel corso della storia, i traffici, i commerci nonché l’interscambio culturale in senso lato di queste popolazioni non abbiano potuto avvenire che in direzione del Ravennate, del Lughese e di tutta la ex Romagna Estense. Nondimeno i legami furono (e sono tuttora) unidirezionali verso Ravenna in campo religioso (con gli impliciti effetti civili fino all’Unità d’Italia) data la mai cessata dipendenza di tutto il territorio dall’Archidiocesi Ravennate, la cui competenza s’estende ancora oggi ben oltre l’argentano.

Con questi presupposti, va da sé che la cultura popolare, le tradizioni e soprattutto il dialetto, ovvero la lingua parlata dalla quasi totalità della popolazione fino all’alfabetizzazione del Novecento, siano sempre stati «romagnoli», pur con comprensibili variazioni fonetiche rispetto alla «bassa» centro-romagnola[3]. Chi ben conosce queste zone, sa anche che il dialetto, nei pochi chilometri che vanno dalla Bastia a Boccaleone, volge poi al ferrarese, passando per un’area limitata quanto ibrida di dialetto «argentano», attraverso una interessante mutazione morfologica che sarebbe forse il caso di approfondire in altra trattazione.

Stupisce che, dell’appartenenza culturale alla Romagna dei paesi che fanno capo all’ex comune di Filo (ora «basso-argentano»), siano ben coscienti i ferraresi e lo siano assai meno le Associazioni romagnole contemporanee, che spesso semplificano ed arretrano il confine «culturale» al corso attuale del Reno. Eppure non è la prima volta che si puntualizza e si argomenta sulla questione.

Scriveva ad esempio la Gazzetta Ferrarese nel primo Novecento al tempo della «settimana rossa»: «Da Argenta apprendiamo che il contraccolpo dei gravi moti rivoluzionari della Romagna limitrofa ha sollevato un vivo fermento in tutti i paesi che più sono in contatto col Ravennate: e la cosa non deve molto meravigliare se si pensa che la parte bassa dell’Argentano è più romagnola che ferrarese per costumi, e che romagnolo puro è il dialetto che parla»[4].

E’ interessante rileggere anche qualche passo del «Corriere Padano» del 6 aprile 1939[5] : «V’è una parte, sia pur minima della provincia di Ferrara, da considerarsi etnicamente romagnola? Per chi conosce l’ubertosa zona dell’argentano, posta al limite meridionale della provincia stessa, tale domanda è quasi oziosa. Infatti non v’è dubbio alcuno che storia, tradizioni, dialetto, toponomastica, stiano ad affermare l’asserto. [...]»« [...] lo stesso Rossetti conferma che i nuclei rurali di Longastrino, Filo, S.Biagio, Argenta, pur trovandosi nel ferrarese, sono romagnoli o “quasi” [...] » L’articolista conclude addirittura in tono di sfida : «Dite ad un [basso-]argentano ch’egli non è romagnolo: buon per voi se non capite il suo dialetto e le laudi che egli vi intona

Quanto alla dipendenza amministrativa, per comprendere il formarsi dell’assetto territoriale odierno che complica la vita a queste genti, e che è allo stesso tempo arduo rimuovere, si vedano le note storiche più sotto.

Gli elementi e le notizie, sia pur riportati in mera sintesi, credo possano convincere anche i più riottosi circa il caso di differenziare, in merito al confine nord della Romagna, il concetto di «area culturale» da quello di «dipendenza amministrativa». Se, in sostanza, si considerano «romagnoli» territori che sconfinano nel marchigiano, toscano o bolognese, oppure ancora nella Repubblica di S.Marino, non si vede perché, il lembo di terra un tempo fra il Po e le Valli, da sempre romagnolo di lingua e di tradizioni, non possa ancora definirsi con altrettante buone ragioni: «Romagna ferrarese».

Concluderei ricordando con piacere la definizione di «area culturale romagnola» di Icilio Missiroli (1924): « Dai tre pinnacoli arditi di S.Marino, alle cime del Montefeltro; dai colli di Cesena, a Polenta, a Bertinoro, a Rocca S.Casciano; da Modigliana, a Brisighella, alle colline dell’imolese, i colli opimi di vigne tendono le braccia uno all’altro, stringendosi in dolce catena che accompagna la linea ferroviaria che allaccia le città di Romagna a Bologna, cervello dell’Emilia. Sono essi le sentinelle che la natura ha posto a guardia della vasta pianura che dal riminese, dal cesenate, dal forlivese, dal faentino, degrada ricca di messi, di orti e di frutteti fino alla campagna lughese e alle valli di Comacchio. Questa è la Romagna, bambino mio. Tu la troverai un po’ diversa nelle divisioni provinciali, ma in tutte queste terre si parla il nostro aspro dialetto, e gli abitanti di esse sono fieri di dire con te: « A so Rumagnol»[6]. Insöma, a fêla piò curta: a Fil a sen di Rumagnul…

Notizie storiche essenziali

- La striscia rivierasca del Po di Primaro, la più importante via d’acqua del territorio, fu abitata fin da tempi antichissimi. Filo, il centro più antico, sorse presumibilmente nell’Alto Medioevo. L’esistenza di una chiesa è documentata a Filo (S.Maria) dall’anno 1022 ed a Longastrino (S. Giuliano) dall’anno 1195. Alle villae ultra padum Sancto Blaxio ad mare ed ai loro abitanti erano dirette speciali norme degli Statuti Ravennati del Duecento e di quelli successivi[7].

- Tutta la Riviera, sia a sud che a nord di Po Vecchio fino alle Valli, appartenne al Comitatus Ravennatis fino al primo Quattrocento. Le villae ultra Padum della Riperia Padi, in quanto parte della Romagna, furono nell’anno 1371 opportunamente censite nella Descriptio provincie Romandiolae del Cardinale Anglic Grimoard de Grisac, fratello del papa Urbano V[8].

- Nel 1433 la parte ultra padum della Riviera di Filo, con la sua Bastia del Zaniolo, passò ai Duchi di Ferrara, nel quadro di un’espansione territoriale che interessò tutta la cosiddetta Romagna Estense. La Riviera si resse a comune autonomo fino all’Unità d’Italia (1861). A quell’epoca si restituirono a Ravenna i territori a sud del Po Nuovo (Lugo, Bagnacavallo ecc.); il comune di Filo (di Ferrara), invece, fu incorporato gradualmente - e non senza opposizione - in quello di Argenta fra il 1861 ed il 1888; le zone ravennati di Filo, Longastrino, Humana (poi Anita) e S.Alberto vennero trasferite da Ravenna ad Alfonsine[9].

- Le sistemazioni fluviali di fine Settecento comportarono l’immissione delle acque del Reno nell’alveo del Po di Primaro (Po Vecchio) e uno spostamento del fiume quasi ovunque verso sud[10], tramite alcune rettificazioni fluviali (Po Nuovo). I paesi e le borgate di Filo e Longastrino si ritrovarono lungo un fiume abbandonato, mentre dal prosciugamento delle valli ravegnane si ebbe tanta terra da lavorare. Nel primo Ottocento affluirono così dalla Romagna, in particolare dal lughese, molte famiglie contadine i cui soprannomi sono, ancora oggi, gli stessi delle zone d’origine. La popolazione aumentò, nacque un nuovo villaggio romagnolo «Chiavica di legno» di fronte alla foce del Santerno ed in prossimità di due passi fluviali, villaggio che fu poi abbandonato a fine Novecento, quando i suoi abitanti si spostarono a Filo. Questi apporti hanno in tutta evidenza rafforzato i tradizionali legami col ravennate.


[1] Periodico Associazione Istituto Fredrich Schürr per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo.

[2] Si veda, ad esempio, A.Baruffaldi, Corographia del Ducato di Ferrara, 1758 in A.Vandini, La valle che non c’è più, Faenza Edit, 2006, p. 7.

[3] Tale è ad esempio l’assenza dei suoni nasali centro-romagnoli, assenti peraltro anche in altre zone periferiche dell’area linguistica.

[4] Anno LXVIII N.159, venerdì12 giugno 1914.

[5] Articolo a firma «U.Emme» dal titolo «Romagna ferrarese».

[6] I. Missiroli, Romagna, Firenze, R.Bemporad & F., 1924, pp. 39-40.

[7] I capitoli interessati sono integralmente trascritti e tradotti in A. Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp. 175 ss.

[8] Cfr. Anglic D.G., La Descriptio Romandiolae a cura di L. Mascanzoni, Bologna, La Fotocroma Emiliana, 1985, pp. 238-240. Argenta, affittata e poi venduta agli Estensi qualche anno prima (1344) dopo un paio di secoli di scontri e litigi, non fu censita.

[9] L’opposizione al trasferimento di S.Alberto fu accolta, sicché questo paese rimase in comune di Ravenna.

[10] In corrispondenza di S.Alberto la rettificazione si fece a nord, sicché esso è venuto a trovarsi a sud del Po Nuovo (poi Reno).

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