Marco Aurelio Garani, il mio professore di Ragioneria
di Agide Vandini
Qualche giorno fa,
rimestando fra vecchie foto, il mitico professore me lo sono rivisto in questa vecchia
immagine di quasi 60 anni fa, una foto di gruppo che mi è molto cara. E’ la
classe 5°A dell’anno scolastico 1963-64, quando ancora l’Istituto Tecnico
Commerciale Vincenzo Monti di Ferrara si collocava in Via Borgoleoni, ove sta
ora il Tribunale della città.
L’ indimenticabile Prof.
Marco Aurelio Garani è in piedi e in doppio petto sulla sinistra.
Questi i miei
compagni (di alcuni di essi, purtroppo, ricordo appena il cognome). Nella fila in alto: Giuliani Mario,
Caiati Gabriele, Zappaterra Gianni, Fioratti Vinicio, Marchesini Giordano,
Govoni, Braghini Alberto, Croci Domenico, Graldi Oscar, Zanzi Marco; Nella fila centrale: Vandini Agide,
Marzocchi Francesco, Bottoni, Pedretti, Orsatti, Fogli Franca, Delmonte, Orsoni
Concetta, Magnani Elva, Salani e il Prof. di Tecnica: Droghetti. Sedute:
Furini Maria Grazia, Poltronieri Katia, Bortolotti, Saltarelli Sonia,
Govoni Fiorella, Donzuso, Bosi Lucia, Donadello, Locatelli, Bonsi Anna, Guerzoni
Carla, Tironi Anna Maria.
Davanti alla sua classica
e distaccata espressione, e rivedendo i volti un tempo familiari dei miei
compagni di classe, non ho potuto che tornare con la mente a tempi e ricordi
scolastici che conservo ancora ben scolpiti nella memoria, in gran parte legati
proprio a lui, al leggendario professore di ragioneria.
Aveva fama di
insegnante atipico il prof. Garani e tale era stata anche la prima impressione avendolo
visto un giorno farsi largo fra la folla degli studenti. Camminava a passo
veloce e dall’alto della sua figura altera ed imponente, incalzava chiunque lo
ostacolasse con voce calma e, allo stesso tempo, autorevole: «Spostati alunno…»
Prima ancora di ritrovarcelo
in classe e di ascoltare qualcuna delle sue affascinanti lezioni eravamo stati
messi sull’avviso dal nostro ciarliero bidello, un uomo brillante che di
cognome faceva Cimatti.
Detto fra parentesi:
non ci si meravigli troppo dell’aggettivo “affascinante” applicato alla
ragioneria. So bene che, data la materia del professore, un’accezione simile potrebbe
sembrare inappropriata, ma sono altrettanto certo che, dopo aver rievocato alcune
sue celebri battute ed arguzie, nessuno avrà più dubbi sulla liceità della definizione.
Andiamo però con
ordine.
«Badate che quello è
un genio…» ci aveva detto Cimatti per tenerci quieti nei primi giorni di
“terza”, mentre aspettavamo l’arrivo in aula del professore. «Prima di andare all’Università
di Bologna, Garani ha frequentato questo Istituto e da noi era famoso per una
stranezza, per una cosa mai capitata e che non capiterà mai più…»
«E quale …?», avevamo
chiesto in coro con curiosità ed inquietudine.
Cimatti aveva guardato
la porta, abbassato la voce e quasi con complicità aveva aggiunto: «Non dite
che ve l’ho detto, per carità… Ma qui, da studente, Garani s’è messo a piangere
dopo aver preso un ”otto”…»
«Eehhh…Buuum…» Fu il
coro di oltre trenta voci incredule, ben consce di quanto fosse già un’impresa,
almeno per noi a quei tempi, guadagnarsi una dignitosa sufficienza…
Nessuno ebbe poi
l’ardire di volerne sapere di più, né in quel contesto, e neppure dopo aver
visto di che genere di professore si trattava.
Alto, imponente, sui
quarant’anni forse, la sua età ancor giovane veniva in gran parte trasfigurata
dall’austerità degli atteggiamenti e da un eloquio che sapeva di antico, di
classicheggiante, di barbute figure risorgimentali.
Indossava sempre lo
stesso vestito grigio-punteggiato in doppio petto, la sbrigativa e smunta pettinatura era quasi
sempre in disordine, eppure l’eloquio di cui disponeva era di rara efficacia, nonostante
una dizione, a dir poco, infelice. Egli infatti storpiava vistosamente ben tre
consonanti, poiché, al rotacismo della “erre” aggiungeva l’incapacità di
sibilare correttamente la “esse” e la “zeta”…
Refrattario a
fronzoli ed inutili preamboli, Impiegava la prima delle due ore di ragioneria, quelle
che il nostro orario settimanale prevedeva più o meno a giorni alterni, in
spiegazioni di grande respiro, ove sapeva spaziare in lungo e in largo e toccare
una moltitudine di materie, dimostrando una capacità di approfondimento da
lasciare a bocca aperta.
Diceva in proposito
la «Prof» di Geografia, la bella e dolce Cavallari: “Quando il professor
Garani, conversando con me, parla di geografia, io ascolto e imparo…”»
Ovviamente egli richiedeva
ai suoi studenti, durante la lezione, un’attenzione assoluta e l’incanto
spontaneo che si creava all’ascolto di cotanta sapienza, faceva sì che non ci
fosse quasi mai bisogno di richiami. In questi pochi casi bastava un suo piccolo
cenno con la mano e poche parole in tono sommesso: «Ho detto “silenzio” subito,
e non fra poco…»
A quel punto normalmente
non fiatava più nessuno.
Ci fu una volta
soltanto, nell’anno della “Quarta”, in cui il suo richiamo non funzionò. La
“Ragioneria pubblica” era così noiosa che la seguivamo malvolentieri; nemmeno
le argomentazioni più fantasiose riuscivano a tenerci quieti. Fu così che ad un
certo punto il professore, percepita la nostra disattenzione, impugnò il
voluminoso testo e chiamò a sé i discepoli.
Il famoso «mattone» che ancora conservo
gelosamente…
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«Voi, cari ragazzi,
oggi vi disinteressate, non ascoltate, pensate ad altro… eppure vi assicuro che…»
Il noioso libro dalla copertina arancione ora veniva sbandierato sopra la sua
testa e tutti noi pendevamo dalle sue labbra.
«… Ci crediate o
no, quando sarete vecchi… un bel giorno… col vostro nipotino sulle ginocchia…
prenderete questo mattone in mano e con grande orgoglio gli direte…”Ah quelli
sì che erano tempi in cui si studiava veramente”…»
Fu così che l’attenzione
desiderata ricadde immediatamente su di sé e devo dire che, pur continuando
ad odiare la ragioneria pubblica, a quelle sagge parole profetiche, ho poi
ripensato spesso…
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Nel corso delle sue interrogazioni
(ce ne toccava una sola per trimestre), dire che era esigente è dir troppo
poco. Ne chiamava quattro alla cattedra, due per ogni lato e li sottoponeva ad una
specie di terzo grado per circa un’ora. Non si accontentava mai di risposte,
pur appropriate, derivanti da semplice applicazione, oppure da uno studio meramente
mnemonico. Voleva di volta in volta accertarsi che lo studente avesse davvero
afferrato la materia in questione e su questo era inflessibile, spesso anche
cinico.
La scelta di chi
interrogare avveniva di norma chiamando per primo alla cattedra chi corrispondeva
alla data del giorno, sicché ben presto si ebbero assenze strategiche anche da
parte di chi, sul registro di classe, aveva multipli o sottomultipli di quel
numero.
«Oggi quanti ne
abbiamo? Nove?… Chi è il Nove? Do-na-del-lo….»
A quel punto il suo
dito scorreva in orizzontale per tutto il registro
«…Già interrogata… Vediamo
allora il numero 18: Guer-zo-ni…»
«Assente…»
« Proviamo il 27:
Sa-la-ni…»
«Assente…»
«Strano, molto strano…»
Lì, Garani scuoteva la testa, mormorava un paio di ehm-ehm, ciondolava e si dondolava
sulla cattedra, finché poi decideva di chiamare qualcun altro sulla base di
nuove astruserie matematiche.
In effetti per
raggiungere la sufficienza in orale con lui, bisognava prepararsi per tempo e
studiare a fondo ogni argomento, sapendosi poi ben destreggiare alla cattedra e
alla lavagna, superando qualche trabocchetto o falsa pista. Non di rado pareva
suggerire risposte che poi risultavano sbagliate. Barare, o fingere di sapere
le cose, sciorinando nomi o definizioni trovate sul libro, non faceva che
provocare da parte sua domande su domande, verifiche implacabili che reiterava
fino a che aveva ottenuto le risposte, negative o positive, che cercava da noi.
Non c’era scampo.
Io per fortuna ero fra
gli ultimi del registro, in quinta poi avevo il 31, numero primo, perciò
difficilmente ricevevo chiamate inaspettate, se la lezione non cadeva all’ultimo
del mese venivo solitamente interrogato a fine trimestre quando non rimaneva
più nessun altro; a quel punto, ero giocoforza pronto all’impatto e al check-up.
Non andò altrettanto
bene invece a una mia volonterosa compagna, solitamente preparata, in un giorno
in cui, forse presa alla sprovvista, non riusciva a reggere le domande del
professore che si facevano via via più incalzanti. Questi, ad un certo punto,
gliene pose una che parve, anche a noi tutti, alquanto strana:
«Lo sai, cara Orsoni,
quanti prosciutti ci sono in un maiale?...»
«Due, professore…»
«E’ giusto il voto
che intendo darti… A posto grazie…»
Era di norma assai
abitudinario, Garani, sicché sul suo ripetitivo modo di comportarsi ci basavamo
molto per prevedere l’oggetto dei suoi complicati compiti in classe, sempre imperniati
su argomenti approfonditi da tempo.
Un giorno però, forse
per metterci alla prova, ci volle dare, direi “a tradimento”, un compito sui
«Costi standard» che, sì, aveva spiegato, ma appena il giorno prima e nella
disattenzione generale.
Dettato l’esercizio,
ci furono subito timide proteste di chi si confessò completamente impreparato.
Nessuna lagnanza, però, e neppure le oltre trenta facce completamente
allocchite, cambiò il suo intento di una virgola. «Qui si parrà la vostra
nobilitate…» disse, rifacendosi ai noti versi danteschi del secondo canto
dell’Inferno.
Restammo tutti a
bocca aperta, capimmo che l’aveva fatto apposta. Nessuno di noi, neppure il
metodico Oscar Graldi che nella sua vita di studente non aveva mai trascurato,
né rimandato nulla, aveva la minima idea di come andasse svolto
quell’esercizio.
Ci fu chi pianse, chi
rimase per parecchi minuti a guardare nel vuoto, altri che decisero di consegnare con sdegno il compito in bianco.
Alcuni, io fra costoro, tentarono, dopo aver letto e riletto l’enigmatico testo
del compito, di pastrocchiare qualcosa, di inoltrarsi nel buio di una materia e
di una tecnica praticamente sconosciuta, nell’intento di limitare una disfatta
scolastica che poi sarebbe stata durissima da rimediare.
Nei giorni successivi,
nell’attesa della consegna dei temuti voti del «compito maledetto», ci dicemmo
che, forse, di fronte allo sfacelo evidente, esso sarebbe stato annullato per
decisione superiore.
Di lì a poco,
tuttavia, fummo disillusi proprio dal professore stesso. Qualcuno incontrandolo
nel corridoio, mentre si dirigeva all’aula di quarta, gli chiese: «Com’è andato
il nostro compito professore?»
«Non proprio bene,
direi… A passo di valzer… Un-due-tre…»
Alla notizia, molti
rimasero basiti ed increduli, ma, il giorno dopo, alla distribuzione dei
compiti puntualmente corretti e col voto a matita rossa nell’ultima pagina del
foglio protocollo, i pianti furono parecchi, tanto che l’ineffabile professor
Garani, volle rincuorarci alla sua maniera:
«Eh sì, cari ragazzi…
Di questi tempi anche i “Quattro” bisogna meritarseli, i “Cinque” sono rari
come le mosche bianche e i “Sei”… Beh, ragazzi miei, i “Sei” vanno estinguendosi
come la razza dei dinosauri…»
Il mio voto, tutto
sommato, era un bel 5 tondo, ed era uno dei più alti. Se ben ricordo, in tutta
la classe c’era stata soltanto una sufficienza molto scarsa: un 6 meno-meno.
Evidentemente i miei tentativi erano serviti a qualcosa. Tuttavia, colto da un
dubbio e vista una correzione forse opinabile, volli andare dal professore a
chiedere spiegazioni, con la speranza di fargli ritoccare il voto. A volte
succedeva.
Garani mi ascoltò, controllò,
mi guardò con una certa sorpresa, poi, senza degnarmi di una risposta, decise
di rivolgersi a tutta la platea sofferente.
«Cari ragazzi,
mettere in discussione questo errore, sarebbe come voler discutere sul “sesso
degli angeli”…»
Di colpo il brusio di
sottofondo, diffuso per tutta l’aula, svanì.
Ognuno dei miei
compagni, chi più e chi meno trafitto dal dolore e dalla preoccupazione, si
apprestò ad ascoltare cosa fosse mai quella strana questione evocata dal
professore.
Io, col mio foglio in
mano nei pressi della cattedra, non sapevo più cosa aspettarmi, né, se, vista
la malaparata, dovessi restarmene lì, oppure dovessi tornare lestamente al mio
banco. Nel timore di indisporlo nella spiegazione imminente me ne restai lì, pallido
e immobile come uno stoccafisso.
«Dovete sapere, cari
alunni, che alcuni studiosi del Seicento sostenevano che gli angeli erano di
sesso femminile. Con altrettanta forza insorse un’altra schiera di studiosi che
ritenevano, al contrario, che gli angeli fossero di sesso maschile… E si
discusse sulla questione per circa un ventennio… Finché un giorno non si
concluse che, siccome mai nessuno li aveva visti da vicino, gli angeli non avevano sesso… Vandini
vai a posto…»
Tornai al mio banco
ovviamente, ben felice di aver evitato disgrazie maggiori, ma, ancora oggi, mi
chiedo se, nella mia perorazione, avessi ragione oppure torto…
Venne poi anche il
giorno in cui, le loquaci e un po’ impertinenti ragazze del primo banco, la
Poltronieri e la Furini, ebbero il coraggio, o l’incoscienza, di chiedere al
professore se fosse vero o falso quanto ci aveva raccontato un paio d’anni prima
il fantasioso bidello Cimatti, ossia, se davvero, insomma, lui si fosse mai
messo a piangere per un otto sul registro…
La sua risposta, tambur
battente, ci sconvolse ancora una volta.
«Certo che è vero…»,
disse. «Mi era stato affibbiato in inglese orale…»
Consci della
personalità e della straordinaria figura di quel professore, nessuno poteva aver
più dubbi su di una circostanza che, ai nostri occhi, era invece apparsa
inattendibile. L’incredula Katia Poltronieri volle però insistere.
«Come?... Lei pianse
per un otto? Ma come?... Ci dica che sta scherzando…»
«E perché mai? Voi
che siete abituati a prendere “sei”, non piangete forse quando prendete
“quattro”?... Io ero abituato a prendere “dieci”…»
Tante altre sarebbero
le arguzie e le battute memorabili del professore, forse ancora scolpite nella
memoria di chi, come me, in quegli anni lontani ebbe Garani come professore di
Ragioneria.
Ancora oggi, quando incontro l’amico argentano Paolo Atti, che lo ebbe
anch’egli come insegnante, ci facciamo qualche risata nel ricordo di quei
giorni e quella bellissima età.
In quegli anni lontani, io, sul treno degli
studenti, feci spesso l’imitazione e la divertente caricatura di Garani, suscitando
ogni volta le risa e l’incredulità dei compagni di viaggio.
Tanto però lo trovavo
comico, il mio bizzarro professore, altrettanto ne ammiravo la capacità di infondere
in noi, sia pure in un modo tutto particolare, la grande mole delle sue
conoscenze. Per questo conservo tuttora verso di lui e verso la sua splendida memoria,
una gratitudine immensa.
Appresi, pochissimi
anni dopo il mio Diploma, da un triste articolo sul «Carlino», della sua
prematura ed improvvisa scomparsa e fu una notizia che mi lasciò interdetto.
Ho sempre saputo di
dovergli molto, e non solo per le efficaci lezioni di ragioneria. Credo davvero
che sia stato un grande, irripetibile insegnante.
Peccato che, avendoci
lasciato così giovane, non abbia potuto realizzare l’intendimento di cui ci parlò
durante una delle sue memorabili lezioni, forse per infiorare, ancora una
volta, una delle sue dotte spiegazioni.
«Cari ragazzi, io so
bene che la materia che studiamo è spesso noiosa ed opprimente, ma è colpa
anche di libri scritti male, che non invogliano a leggere… In qualunque posto voi
andiate, al mare o in montagna, potete infatti vedere gente che legge, per
diletto, libri delle discipline più disparate, dalla Storia, alle Lettere e
alle Scienze, ma non vedrete mai nessuno leggere per diletto un libro di
Ragioneria… Quando sarò vecchio, voglio scrivere un libro di ragioneria
divertente… Lo chiamerò: “Alice nel paese dei bilanci”…».