martedì 14 dicembre 2021

I Romanzi storici di Agide Vandini

 

I Romanzi storici di Agide Vandini

Sono disponibili anche in rete

 

Grazie alla disponibilità di GIRALIBRI - Argenta, ed in attesa dell’approntamento del suo sito di vendita in rete, segnalo agli interessati che ognuno dei miei quattro titoli si può richiedere direttamente alla mail della libreria, ossia:

 

info@giralibri.it

 

Il titolare, Gian Luca Battisti, ha garantito l’invio in giornata dietro apposita richiesta con indicazione dell’indirizzo di spedizione (a.v.).

 

 


Nuova

Trilogia  Risorgimentale

«Romagna Ardente»

 

Edizione 2021

Prezzo di copertina € 10



 

Trilogia Seicentesca «Antica terra di Romagna»:

 



Edizione 2019

Prezzo di copertina € 12



Edizione 2020

Prezzo di copertina € 10



Edizione 2021

Prezzo di copertina € 10

 

giovedì 25 novembre 2021

Pietre filesi che ci guardano con stupore

 Le foto della decadenza del mio paese

di Agide Vandini

 

 Un paio di settimane fa ho pensato di scattare una decina di foto nel centro di Filo, l’amato paese ricco di storia, recente e passata. Con un misto di rincrescimento e dolore ho voluto ritrarre lo stato in cui versano spazi che un tempo davano lustro al paese, punti di aggregazione oggi dismessi, attorno ai quali si è raccolta per anni la vita degli abitanti.

Sono poche ma significative immagini che, viste in rapida rassegna, non mancheranno di toccare il cuore di chi ha i capelli bianchi ed è nato e vissuto in questo paese. Sono luoghi ed edifici in malinconico abbandono che oggi ci guardano stupiti, quasi increduli, di fronte al beffardo e triste destino, come ai tanti sforzi finiti nel nulla.

Nello svuotamento delle due frazioni di Filo, progressivamente spopolatesi a partire dagli anni Ottanta del ‘900 ed ora pressoché ridotte a dormitorio per anziani, è difficile dire quanto ci sia stato di ineluttabile, di cinica sorte toccata ai piccoli centri, e quanto invece la rapida decadenza sia dovuta a speranze mal riposte, a scelte sbagliate, talvolta improvvide o, semplicemente, insufficienti a fermare il corso della storia.

I soggetti ritratti ci raccontano quanto abbiamo perso, ma, in qualche modo, essi si ergono a testimoni dell’abnegazione di una comunità che si risollevò con orgoglio dalle distruzioni della guerra e che, da condizioni di estrema povertà, a poco a poco, seppe raccogliersi attorno ad un’idea di solidarietà e, attraverso di essa, dare una speranza, un’istruzione ed un dignitoso avvenire ai propri figli.

Alla base di tutto, come ricordano i più anziani, ci fu nel dopoguerra un grande spirito di sacrificio collettivo ed anche una giovane classe dirigente, dinamica, caparbia, volitiva, capace di ardite iniziative che diedero al paesello un largo e meritato prestigio.

Oggi questi spazi di aggregazione, di svago e di lavoro, un tempo orgoglio della collettività, sembrano ammonirci sulla precarietà di molti valori e di molti sogni, non sempre facili da mettere in fila.

Sotto sotto, la mestizia dei luoghi, le finestre e i portoni sprangati per sempre, vorrebbero però dirci altro. Ricordarci, ad esempio, che un villaggio, una comunità che voglia avere un futuro non può fondarsi soltanto sulla qualità e sulla funzionalità di servizi ed istituzioni, ma, prima ancora, sull’amore per il luogo natio trasmesso ai propri figli, su una vita quotidiana in sintonia col territorio, su una chiara identità culturale e, poi, su tanti sentimenti oggi finiti nel dimenticatoio: la voglia di vivere assieme, la forza dei valori di solidarietà, il piacere impagabile di condividere, coi propri paesani, sogni, progetti ed esperienze.

Chissà. Forse è proprio questa la strada in cui ci eravamo incamminati e che, travolti dall’onda del consumismo, dalle cocenti delusioni e dall' ”ognun per sé”, a poco a poco, abbiamo smarrito.

 


L’ex Asilo Parrocchiale abbandonato

 

L’ex Cinema e Teatro Tebaldi dismesso negli anni ‘70

 


Le rovine dell’ex campo polivalente realizzato negli anni ’70 (basket, pallavolo e pista di atletica - nel riquadro -)

 


La sede abbandonata della ex Coop Terra e Lavoro (poi confluita nella fallita Coop. Costruttori)

 

L’agenzia filese dell’ex Banca Popolare di Bagnacavallo e Fusignano, poi divenuta Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna. L’istituto si è fuso di recente nel Gruppo bancario Intesa San Paolo che ne ha deciso la chiusura poche settimane fa

 


Le ex Scuole Medie soppresse negli anni ‘90

 

L’ex Caserma dei Carabinieri  abbandonata una decina di anni fa

 


L’ex Centro Tennis «Albano Buzzi» anni ’70 soppresso una ventina d’anni fa. I pioppi, i pali dell’illuminazione, la tribunetta non ci sono più, ma la terra rossa si intravvede ancora fra i fili d’erba.


La sede abbandonata della ex Coop Muratori di Filo (poi confluita nella fallita C.M.R.)

 

Il vecchio ottocentesco Palazzone, centro civico dell’anteguerra, primo cinema e teatro del paese, per molti anni luogo di attività cooperative, artigianali e commerciali oltre che formicaio di famiglie bracciantili ed operaie. L’imponente edificio da parecchi anni traccheggia abbandonato e transennato, nell’attesa del suo inesorabile crollo strutturale, senza credibili prospettive di recupero, né progetti di abbattimento.

E’ l’icona di un paese che fu.

 

lunedì 8 novembre 2021

Un nuovo romanzo storico dedicato alla Bassa Romagna…

 

E’ in libreria  «Il gradino di terra» di Agide Vandini

Beniamino Carlotti ne parla con l’autore

 


 Agide Vandini, amico di vecchia data, scrittore e ricercatore per passione, dopo la recente pubblicazione di tre avvincenti romanzi  seicenteschi,  ci propone in questi giorni un nuovo romanzo storico. E’ ambientato come i precedenti nel nostro territorio, tra il finire del Settecento ed i primi dell’Ottocento e la collocazione della vicenda romanzesca in un periodo di così grandi cambiamenti politico-sociali, appare di indubbio interesse storico e letterario.

Il Secolo dei Lumi, come ben sappiamo, vide l’emergere, un po’ in tutta Europa, di grandi Idee di Libertà ed Eguaglianza e culminò nella rivendicazione violenta di maggiore giustizia economico-sociale.

 Anche il territorio cispadano ed il suo contesto umano ne furono coinvolti, a seguito della calata dei francesi coi loro ideali giacobini  e rivoluzionari, che diede luogo a grandi illusioni ed anche a locali “Insorgenze” fino all’anacronistica “Restaurazione” ed ai successivi primi moti “Risorgimentali”.

 Questo breve amichevole colloquio con l’autore, è allora l’occasione per chiedergli come ha pensato di affrontare temi di questa portata, sia pure nell’ambito di vicende in parte romanzate (b.c.).

 

 

Agide, dopo la trilogia seicentesca, ora proponi ai lettori un nuovo romanzo collocato fra fine Settecento e primo Ottocento. Quali sono i punti in comune con gli altri tuoi lavori?



Si tratta, come per i tre precedenti, di un romanzo ambientato nel territorio della Bassa Romagna, un’area geografica che, verso il finire del Settecento, aveva subito grandi sconvolgimenti alla sua conformazione naturale: da regione dominata dalle paludi qual era nel ‘600, quasi due secoli dopo era divenuta una campagna in via di bonificazione. Oltre alla collocazione geografica, un altro punto in comune coi romanzi precedenti è certamente l’attenzione che ho voluto dedicare al mondo degli ultimi, alle tante speranze negate alle classi più deboli. Anche questa trama, inoltre, è autoconclusiva, con vicende che si chiudono al termine della narrazione, nel corso della quale mi sono permesso qualche vago cenno alle lontane vicende seicentesche.

 

Il «gradino di terra»: ci puoi dire a cosa si riferisce esattamente il titolo? 

 

Titolo e sottotitolo del romanzo indicano l’alto e imponente argine del Fiume Nuovo venuto a dominare la Bassa Romagna ravennate ed Estense, territorio al centro della mia narrazione. Grazie al «gradino di terra» sono emerse grandi estensioni coltivabili che danno vita a grandi speranze nel mondo contadino e bracciantile, figure legate mani e piedi alla terra, alla storica «gleba» da cui dipendono da secoli. Sono uomini e donne ai margini della storia, ancora incapaci di elevarsi da uno stato che, di fatto, permane di «semi-schiavitù». Le vicende del romanzo riguardano in particolare un paio di famiglie di bassa e modesta condizione che s’ imparentano fra loro in un rapporto sempre più stretto e solidale. I loro sogni e speranze devono fare i conti con un mondo rurale antiquato e retrivo, ove esse vivono le tante disillusioni del loro tempo. Sono i colpi di coda di un «ancien regime» che resiste all’affermarsi di grandi idee ed aspirazioni come l’Indipendenza e l’Unità degli Stati Italiani, nonché la sognata emancipazione della povera gente.

 

Quali sono gli eventi storici più importanti che fanno da sfondo al romanzo?

 

Oltre all’epopea degli «scariolanti» vissuta dai protagonisti, l’evento più importante negli anni a cavallo del secolo (1780-1821) è senza dubbio la calata dei francesi in Romagna con le tragiche conseguenze che travolgono la città di Lugo. Il «Sacco» subito dalla sua popolazione nel luglio del1796 viene rivissuto nelle pagine del romanzo. Nell’arco di un ventennio, poi, si assiste al susseguirsi incalzante di ribellioni e mutamenti politici. Sono eventi che, a poco a poco, deludono e mortificano molte speranze ed illusioni e, con esse, un patriottismo ai primi albori, ancora ben distante dalla classe degli umili e dei diseredati.

 

Nei tuoi romanzi della Trilogia Seicentesca c’è anche una componente avventurosa e la consistente presenza di pirati e briganti. E’ così anche stavolta?

 

Certo. L’ambiente in cui ci si muove ha cambiato aspetto, ma Il brigantaggio nel primo Ottocento è alquanto diffuso nella Bassa Romagna, fino a confondersi con un vago ribellismo antinapoleonico. Il maggiore bandito dell’epoca, l’imprendibile Michele Botti detto Falcone, è fra i maggiori protagonisti del romanzo. E’ un capobanda di cui si è sempre saputo relativamente poco, sicché ho potuto inserirlo senza difficoltà fra le mie vicende romanzesche. Ovviamente ho assai arricchito il personaggio, pur nel rispetto di ogni elemento basilare della scarsa biografia. Molti episodi briganteschi, peraltro, vissuti dai protagonisti, li ho tratti dalle cronache dell’epoca, a volte con qualche attribuzione fantasiosa, ma muovendomi nel solco della portata e delle peculiarità del fenomeno banditesco di quel periodo.

 

Dove possiamo trovare il tuo romanzo e come proseguirà la Trilogia Risorgimentale da te definita «Romagna Ardente»? Puoi darci qualche anticipazione?

 

Come per i precedenti, il romanzo è in autoedizione ed a tiratura limitata. Lo si potrà trovare nelle principali edicole e librerie dei dintorni, ossia di Argenta, Filo (presso Edicola Bellettini – distributore di benzina -), Longastrino e Alfonsine. In settimana sarà acquistabile in rete in un nuovo sito a cura di Giralibri di Argenta. Non appena disponibili fornirò tutti i link relativi ai miei romanzi sull’«Irôla». Nel giro di pochi mesi seguiranno gli altri due titoli facenti capo alla Trilogia, ognuno con una propria trama autoconclusiva, ossia: La spada tra le spine (1821-1830) e Ottocento Romagnolo (1831-1892).

 

sabato 30 ottobre 2021

C’era una volta il vero football


Non è più lo stesso sport

di Agide Vandini

 

 

M’ero riproposto di non scrivere più intorno alle faccende di calcio, su di uno sport che fa sempre troppo discutere, ma di fronte alle polemiche di questi ultimi giorni ed alle tante opinioni improvvisate ed estemporanee, provo a dire la mia, quella, cioè, di un vecchio innamorato di questo gioco. Mi permetto un primo suggerimento: chi si sente gratificato da quanto offerto in questo momento sul patrio suolo, chi sa già tutto, chi ha già una risposta legittimista per ogni cosa e, semmai, sospetta che questa sia, sotto mentite spoglie, un’alzata di scudi e bandiere, può tranquillamente fermarsi qui.

 

***

Quanto sta capitando al mio Bologna, modesto di suo e scosso, bistrattato, cornuto e mazziato nelle ultime settimane, non è l’effetto di chissà quali complotti ai suoi danni, ma il risultato palese di una deriva calcistica in atto da tempo, di una serie di distorsioni regolamentari variamente interpretabili destinate, nel lungo termine, a mortificare, in particolare, le società meno protette della Serie A.

Molte modifiche regolamentari introdotte negli ultimi decenni hanno avuto l’effetto, soprattutto in Italia, di moltiplicare a iosa le decisioni e le discrezionalità arbitrali, con le deleterie conseguenze che stanno sotto gli occhi di tutti.

In presenza di cotanta discrezionalità, c’è chi ci perde e chi ci guadagna, ovviamente.

In altri mondi, come nel pettoruto calcio inglese, tutto sommato le innovazioni sono state assorbite in un ambiente sportivo tradizionalmente ispirato allo spirito originario di questo sport. Nel Bel Paese, invece, ove gli arbitri da sempre pretendono la scena, le innovazioni hanno comportato:

 

molte più decisioni del direttore di gara

= + discrezionalità dello stesso

= + possibilità di ingiustizie.

 

«Datemi una leva, ed io vi solleverò il mondo…» pare abbia detto un giorno il geniale ed italico Archimede da Siracusa. Allo stesso modo, le modifiche regolamentari, nate con l’intento di spettacolarizzare il gioco, hanno dato alle nostre ex giacchette nere, il destro per stravolgerlo e vanificarne lo spirito. Loro fischiano e fischiano. Fischiano sempre, tronfi e impettiti come il vigile Alberto Sordi. Ovviamente stanno attenti a non esagerare nei confronti di chi li tiene e li mantiene nella dorata élite calcistica.

Come tutti quelli che stanno ai posti di comando, essi sanno bene che se si fischia 50 volte in una partita anziché 25 (come avviene altrove), si raddoppia la possibilità di indirizzare la gara nella direzione voluta o preferita, o, comunque, meno problematica.

Per giunta, ora c’è il VAR, ovvero il modo di farne cattivo e improprio uso. Si è dato giustamente il benvenuto alla tecnologia applicata allo sport, ma il suo uso sconclusionato sta provocando ancor più ingiustizie e malcontento. Come ai tempi delle famose «grida manzoniane» si riesce a manovrare ad hoc la chiamata / non chiamata del nuovo mezzo tecnico: c’è sempre una regola che viene in soccorso, in grado di favorire il potente di turno. Qui sta l’inghippo.

Forse allora è il caso di soffermarsi su alcune innovazioni regolamentari che hanno portato a questo stato di cose, quelle che, almeno secondo il parere di chi scrive, hanno finito per snaturare lo spirito del gioco (un tempo…) più bello del mondo.

 

L’addio al principio della “volontarietà”. L’abbandono di questo vecchio principio alla base della punibilità dei falli e il passaggio a quello, più televisivamente controllabile, del “danno procurato”, ha generato una caterva di casistiche e di sotto-variabili di cui non si vede la fine. Non è più la «causa» di un intervento a determinarne la  fallosità, ma il suo «effetto», a volte ancor più soggettivo e interpretabile, peraltro sottoposto ad una serie di limitazioni e condizioni poco chiare, spesso difformi e in continuo cambiamento.

Le regole sono troppe e poco comprensibili, sia in campo che fuori dal campo. Sì, avete letto bene, anche sugli spalti e sulle poltrone, perché chi paga il biglietto, o l’abbonamento alla pay-TV, ha il diritto di capire e di immedesimarsi in ciò che sta guardando…

Pensiamo ai falli di mano puniti diversamente a seconda della parte del campo in cui sono commessi, ai rigori assegnati per tocchi palesemente accidentali, talvolta ininfluenti sullo sviluppo delle azioni di gioco. E’ in questo contesto che, nel suolo italico, prospera la simulazione dei giocatori più protetti e prende quota il protagonismo di certi arbitri, ai quali sta stretto il ruolo di mera figura di garanzia, ovvero la sola custodia del leale svolgersi della gara.

L’arbitro medio italiano vuol far sentire il più possibile la sua presenza, anela l’elogio e le lodi di chi lo ha prescelto, fino a subire da anni la cosiddetta «sudditanza psicologica» verso le grandi squadre. Sa, in tal modo, di compiacerne i numerosi tifosi e i media nazionali alla mercé dei desideri delle grandi piazze. Così moviolisti e gazzettieri, difendono a spada tratta il loro “spettacolo”, i loro clienti ed inserzionisti. Sim sala bim… ed escono fermi-immagine ad hoc per tranquillizzarci tutti. Ci dicono che sì, la mano del difendente non può che stare lì, ma il braccio è a 40 centimetri e non a 25, che il tocco c’è, che le gambe si toccano, che il giocatore è stato bravissimo a “conquistarsi il rigore” ecc.

Chiedo semplicemente a questi signori: ma quale virtù può vantare chi induce un arbitro a sanzionare furbescamente gli avversari, regolarmente poi definiti sciocchi, fresconi ed ingenui? Lo spirito sportivo dove sarebbe? Nel far fessi gli avversari? Coglione, insomma, è il tipo che casca nella trappola e “morta là”, direbbero i miei lontani compagni artiglieri… E le gomitate? Beh quelle si interpretano e si rigirano come si vuole… Prima però, mentre il giocatore sta a terra e ferma appositamente il gioco per dar modo al VAR di irrompere sulla scena, è meglio, per il direttore di gara, guardare il colore della maglia che ne trarrebbe beneficio…

 

La commedia. La “commedia” pedatoria all’italiana va così in onda quasi ogni sera. Basta mettere il “corpo davanti”, poi lasciarsi cadere, e tutti a dire che provocare quel fallo è stato un gran colpo di classe… E intelligente, soprattutto. Se poi si va in situazione di vantaggio, guai se non si cade ad ogni passo, non si sviene, non si perde  tempo, non si provocano interruzioni di gioco, magari poi ci si riprende e si va anche a far gol pochi secondi dopo, fra gli osanna di chi ama e  venera i propri guitti e cascamorti…

L’arbitro, il VAR, i commentatori televisivi, coi loro comportamenti, tutti si sono ormai adattati a questo modo di intendere lo spettacolo (non lo si chiami sport, per carità…) e lo assecondano. Nessuno, guarda caso, ha finora pensato a come mettere un freno a simulatori e commedianti… Eppure basterebbero multe da assegnare a fine gara, magari da parte degli addetti al VAR: tanti bei soldi da devolvere in beneficienza ogni volta che questi pagliacci antisportivi alzano la mano e chiamano in falso, oppure si buttano di proposito per ingannare l’arbitro…

 

Cartellini gialli e rossi. Se lo scopo dello sventolio di provvedimenti a go-go (in Italia ormai si ammonisce quasi ad ogni calcio di punizione) è penalizzare il gioco difensivo, direi che si sta ottenendo l’effetto contrario. Chi viene premiato in realtà è chi gioca in contropiede. Tutti indietro, file strette e baricentro basso, mediana a pressare, cattura della palla per innescare la ripartenza del giocatore più veloce: arrivano gialli e rossi in campo avverso come se piovesse… Per indurre il portatore di palla all’errore, lo  si assale da ogni parte. Una volta si prendeva punizione se si entrava in due contro uno e, a parità di fallo, si favoriva il difendente. Quando è stata soppressa quella regola? Boh…. La prassi deve aver superato la norma…. Molti falli, poi, sono diventati “tattici” attribuendo all’arbitro una capacità di interpretazione, o di previsione dello sviluppo del gioco, che non ha e non può avere. Forse però lo scopo delle nuove norme è anche quello di far aumentare i posti di lavoro in campo, col subentro di uomini dalla panchina al posto degli ammoniti. Viene da pensare ad un escamotage ben gradito dall’asso-calciatori, come lo è di certo l’esorbitante e crescente numero delle sostituzioni…

 

Le sostituzioni. Purtroppo ho abbastanza anni per poter raccontare come, ai miei tempi, non si potesse sostituire proprio nessuno. Per nessuna ragione. Per questo nel ‘66 perdemmo inopinatamente dalla Corea… Non si poté sostituire Bulgarelli dopo l’infortunio avvenuto nel primo tempo e si giocò quasi tutta la partita con un uomo in meno.  Poi un bel giorno arrivò il “Dodicesimo”, il “Tredicesimo” e fin lì ci si poteva stare… A ruota ne sono poi venuti altri due, poi l’infoltimento delle panchine e, infine, complice il Covid,… ora siamo a cinque sostituzioni: praticamente si ricambia la metà dei giocatori di movimento ogni partita… Indietro non si tornerà, pare… Di certo così i calciatori allungano le loro dorate carriere; non per nulla oggi i 40enni in campo sono assai comuni…Anche questo ulteriore impiego di giocatori, tuttavia, favorisce chi dispone di rose ampie ed omogenee, con l’effetto di aumentare il divario fra le squadre con mega-diritti televisivi e le altre…  

Stiamo proseguendo nella trasformazione radicale di questo sport. Ulteriori modifiche si imporranno per giungere all’arbitraggio digitale, ovviamente sotto la tutela delle squadre più potenti e dei loro lacchè. Mancano ancora i time out, il tempo reale, i falli tecnici, le espulsioni temporanee, i tiri liberi, poi avremo stravolto del tutto il gioco del calcio, sempre che si giochi ancora con i piedi e con la palla rotonda…

 

Basta confronti col passato. In conclusione, dunque, niente “dai al ladro”, niente fumus persecutionis, ma ricorrendo ugualmente agli antichi detti latini viene da pensare al sempre utile cui prodest ?[a chi giova?] Chi le ha volute queste norme e perché? Chi ne regolamenta le interpretazioni all’italiana? Rispondere a questi interrogativi basta e avanza.

Su queste considerazioni, dedicate a chi ama davvero lo sport, si può concordare o dissentire, ma si converrà quanto meno sul fatto che quello di oggi è un calcio ben diverso dalla concezione originaria, da quella cioè di cui ci siamo innamorati. Tanti ovviamente i nuovi aspetti tecnici ed evolutivi:  il numero sempre crescente delle gare ufficiali, i materiali e le attrezzature migliorate, i più razionali sistemi di allenamento, la prevenzione e la cura degli infortuni, ecc. Troppe, però, anche le intervenute variazioni regolamentari.  Neppure il modo di attribuire le autoreti è più lo stesso: ai cannonieri di oggi si assegnano persino le deviazioni fortuite dei difensori, dopo che già si avvantaggiano di un numero esorbitante ed irragionevole di rigori…

Rivolgo allora una supplica a chi ci dispensa quotidianamente statistiche da strapazzo, a quelle noiose coppie di tele-commentatori (i telecronisti single alla Carosio sono ormai in via di estinzione…) che non sanno più a quali numeri, medie, scostamenti e percentuali affidarsi per le loro cosiddette “acute analisi”.

Sentir evocare con termini iperbolici certi realizzatori di oggi, opposti a frustrati difensori in preda al terrore, ridotti a belle statuine (se vogliono terminare le partite e sperare di evitare improvvisi e cervellotici rigori...), e poi sentirli confrontare ai grandi del passato, ai Riva, Boninsegna e Pascutti non si può proprio.

Statevene buoni, abbassate i toni,  non fate comparazioni assurde. Soprattutto non confondete le cose. Ignorate, se vi sta a cuore la storia di questo sport, i tabulati e le videate che vi compaiono durante le telecronache.

Abbiate pietà di chi segue il vecchio football da una vita e soprattutto mettetevi il cuore in pace: neppure uno degli scudetti, vinti durante gli anni del calcio-sport è confrontabile con quelli recenti del calcio-business.

Risparmiateci almeno questo…

 

PS: A titolo puramente esemplificativo, facilito la vita a chi voglia rivedersi il secondo rigore assegnato giovedì sera al Napoli. Può farlo cliccando qui:

  Napoli-Bologna 3-0: il secondo rigore


L’attaccante napoletano (in calzoncini neri) sta andando verso l’uscita dall’area. Non c’è pericolosità apparente. Il difensore tenta di inserirsi fra gamba e palla. Nel farlo sfiora la gamba dell’avversario che raggiunge la palla senza significativo impedimento. L’attaccante, come si può vedere, già si trascina furbescamente il piede destro pronto alla caduta. Stramazzerà a terra: rigore e nessun intervento riparatore del VAR… E’ una partita di calcio o di basket? Sono regole sbagliate, interpretazioni ad capocchiam, o entrambe le cose? Il VAR che ci sta a fare se possono essere assegnati rigori come questi? A ognuno di noi la sua sentenza…

martedì 12 ottobre 2021

Professore, genio e personaggio…

 

Marco Aurelio Garani, il mio professore di Ragioneria

di Agide Vandini

 

Qualche giorno fa, rimestando fra vecchie foto, il mitico professore me lo sono rivisto in questa vecchia immagine di quasi 60 anni fa, una foto di gruppo che mi è molto cara. E’ la classe 5°A dell’anno scolastico 1963-64, quando ancora l’Istituto Tecnico Commerciale Vincenzo Monti di Ferrara si collocava in Via Borgoleoni, ove sta ora il Tribunale della città.

 



L’ indimenticabile Prof. Marco Aurelio Garani è in piedi e in doppio petto sulla sinistra. 
Questi i miei compagni (di alcuni di essi, purtroppo, ricordo appena il cognome). Nella fila in alto: Giuliani Mario, Caiati Gabriele, Zappaterra Gianni, Fioratti Vinicio, Marchesini Giordano, Govoni, Braghini Alberto, Croci Domenico, Graldi Oscar, Zanzi Marco; Nella fila centrale: Vandini Agide, Marzocchi Francesco, Bottoni, Pedretti, Orsatti, Fogli Franca, Delmonte, Orsoni Concetta, Magnani Elva, Salani e il Prof. di Tecnica: Droghetti. Sedute:  Furini Maria Grazia, Poltronieri Katia, Bortolotti, Saltarelli Sonia, Govoni Fiorella, Donzuso, Bosi Lucia, Donadello, Locatelli, Bonsi Anna, Guerzoni Carla, Tironi Anna Maria.

 

Davanti alla sua classica e distaccata espressione, e rivedendo i volti un tempo familiari dei miei compagni di classe, non ho potuto che tornare con la mente a tempi e ricordi scolastici che conservo ancora ben scolpiti nella memoria, in gran parte legati proprio a lui, al leggendario professore di ragioneria.

 

Aveva fama di insegnante atipico il prof. Garani e tale era stata anche la prima impressione avendolo visto un giorno farsi largo fra la folla degli studenti. Camminava a passo veloce e dall’alto della sua figura altera ed imponente, incalzava chiunque lo ostacolasse con voce calma e, allo stesso tempo, autorevole: «Spostati alunno…»

Prima ancora di ritrovarcelo in classe e di ascoltare qualcuna delle sue affascinanti lezioni eravamo stati messi sull’avviso dal nostro ciarliero bidello, un uomo brillante che di cognome faceva Cimatti.

Detto fra parentesi: non ci si meravigli troppo dell’aggettivo “affascinante” applicato alla ragioneria. So bene che, data la materia del professore, un’accezione simile potrebbe sembrare inappropriata, ma sono altrettanto certo che, dopo aver rievocato alcune sue celebri battute ed arguzie, nessuno avrà più dubbi sulla liceità della definizione.

Andiamo però con ordine.

«Badate che quello è un genio…» ci aveva detto Cimatti per tenerci quieti nei primi giorni di “terza”, mentre aspettavamo l’arrivo in aula del professore. «Prima di andare all’Università di Bologna, Garani ha frequentato questo Istituto e da noi era famoso per una stranezza, per una cosa mai capitata e che non capiterà mai più…»

«E quale …?», avevamo chiesto in coro con curiosità ed inquietudine.

Cimatti aveva guardato la porta, abbassato la voce e quasi con complicità aveva aggiunto: «Non dite che ve l’ho detto, per carità… Ma qui, da studente, Garani s’è messo a piangere dopo aver preso un ”otto”…»

«Eehhh…Buuum…» Fu il coro di oltre trenta voci incredule, ben consce di quanto fosse già un’impresa, almeno per noi a quei tempi, guadagnarsi una dignitosa sufficienza…

Nessuno ebbe poi l’ardire di volerne sapere di più, né in quel contesto, e neppure dopo aver visto di che genere di professore si trattava.

Alto, imponente, sui quarant’anni forse, la sua età ancor giovane veniva in gran parte trasfigurata dall’austerità degli atteggiamenti e da un eloquio che sapeva di antico, di classicheggiante, di barbute figure risorgimentali.

Indossava sempre lo stesso vestito grigio-punteggiato in doppio petto, la  sbrigativa e smunta pettinatura era quasi sempre in disordine, eppure l’eloquio di cui disponeva era di rara efficacia, nonostante una dizione, a dir poco, infelice. Egli infatti storpiava vistosamente ben tre consonanti, poiché, al rotacismo della “erre” aggiungeva l’incapacità di sibilare correttamente la “esse” e la “zeta”…

Refrattario a fronzoli ed inutili preamboli, Impiegava la prima delle due ore di ragioneria, quelle che il nostro orario settimanale prevedeva più o meno a giorni alterni, in spiegazioni di grande respiro, ove sapeva spaziare in lungo e in largo e toccare una moltitudine di materie, dimostrando una capacità di approfondimento da lasciare a bocca aperta.

Diceva in proposito la «Prof» di Geografia, la bella e dolce Cavallari: “Quando il professor Garani, conversando con me, parla di geografia, io ascolto e imparo…”»

Ovviamente egli richiedeva ai suoi studenti, durante la lezione, un’attenzione assoluta e l’incanto spontaneo che si creava all’ascolto di cotanta sapienza, faceva sì che non ci fosse quasi mai bisogno di richiami. In questi pochi casi bastava un suo piccolo cenno con la mano e poche parole in tono sommesso: «Ho detto “silenzio” subito, e non fra poco…»

A quel punto normalmente non fiatava più nessuno.

Ci fu una volta soltanto, nell’anno della “Quarta”, in cui il suo richiamo non funzionò. La “Ragioneria pubblica” era così noiosa che la seguivamo malvolentieri; nemmeno le argomentazioni più fantasiose riuscivano a tenerci quieti. Fu così che ad un certo punto il professore, percepita la nostra disattenzione, impugnò il voluminoso testo e chiamò a sé i discepoli.

 

 


Il famoso «mattone» che ancora conservo gelosamente…

 

«Voi, cari ragazzi, oggi vi disinteressate, non ascoltate, pensate ad altro… eppure vi assicuro che…» Il noioso libro dalla copertina arancione ora veniva sbandierato sopra la sua testa e tutti noi pendevamo dalle sue labbra.

«… Ci crediate o no, quando sarete vecchi… un bel giorno… col vostro nipotino sulle ginocchia… prenderete questo mattone in mano e con grande orgoglio gli direte…”Ah quelli sì che erano tempi in cui si studiava veramente”…»

Fu così che l’attenzione desiderata ricadde immediatamente su di sé e devo dire che, pur continuando ad odiare la ragioneria pubblica, a quelle sagge parole profetiche, ho poi ripensato spesso… 

Nel corso delle sue interrogazioni (ce ne toccava una sola per trimestre), dire che era esigente è dir troppo poco. Ne chiamava quattro alla cattedra, due per ogni lato e li sottoponeva ad una specie di terzo grado per circa un’ora. Non si accontentava mai di risposte, pur appropriate, derivanti da semplice applicazione, oppure da uno studio meramente mnemonico. Voleva di volta in volta accertarsi che lo studente avesse davvero afferrato la materia in questione e su questo era inflessibile, spesso anche cinico.

La scelta di chi interrogare avveniva di norma chiamando per primo alla cattedra chi corrispondeva alla data del giorno, sicché ben presto si ebbero assenze strategiche anche da parte di chi, sul registro di classe, aveva multipli o sottomultipli di quel numero.

«Oggi quanti ne abbiamo? Nove?… Chi è il Nove? Do-na-del-lo….»

A quel punto il suo dito scorreva in orizzontale per tutto il registro

«…Già interrogata… Vediamo allora il numero 18: Guer-zo-ni…»

«Assente…»

« Proviamo il 27: Sa-la-ni…»

«Assente…»

«Strano, molto strano…» Lì, Garani scuoteva la testa, mormorava un paio di ehm-ehm, ciondolava e si dondolava sulla cattedra, finché poi decideva di chiamare qualcun altro sulla base di nuove astruserie matematiche.

In effetti per raggiungere la sufficienza in orale con lui, bisognava prepararsi per tempo e studiare a fondo ogni argomento, sapendosi poi ben destreggiare alla cattedra e alla lavagna, superando qualche trabocchetto o falsa pista. Non di rado pareva suggerire risposte che poi risultavano sbagliate. Barare, o fingere di sapere le cose, sciorinando nomi o definizioni trovate sul libro, non faceva che provocare da parte sua domande su domande, verifiche implacabili che reiterava fino a che aveva ottenuto le risposte, negative o positive, che cercava da noi.

Non c’era scampo.

Io per fortuna ero fra gli ultimi del registro, in quinta poi avevo il 31, numero primo, perciò difficilmente ricevevo chiamate inaspettate, se la lezione non cadeva all’ultimo del mese venivo solitamente interrogato a fine trimestre quando non rimaneva più nessun altro; a quel punto, ero giocoforza pronto all’impatto e al check-up.

Non andò altrettanto bene invece a una mia volonterosa compagna, solitamente preparata, in un giorno in cui, forse presa alla sprovvista, non riusciva a reggere le domande del professore che si facevano via via più incalzanti. Questi, ad un certo punto, gliene pose una che parve, anche a noi tutti, alquanto strana:

«Lo sai, cara Orsoni, quanti prosciutti ci sono in un maiale?...»

«Due, professore…»

«E’ giusto il voto che intendo darti… A posto grazie…»

 

Era di norma assai abitudinario, Garani, sicché sul suo ripetitivo modo di comportarsi ci basavamo molto per prevedere l’oggetto dei suoi complicati compiti in classe, sempre imperniati su argomenti approfonditi da tempo.

Un giorno però, forse per metterci alla prova, ci volle dare, direi “a tradimento”, un compito sui «Costi standard» che, sì, aveva spiegato, ma appena il giorno prima e nella disattenzione generale.

Dettato l’esercizio, ci furono subito timide proteste di chi si confessò completamente impreparato. Nessuna lagnanza, però, e neppure le oltre trenta facce completamente allocchite, cambiò il suo intento di una virgola. «Qui si parrà la vostra nobilitate…» disse, rifacendosi ai noti versi danteschi del secondo canto dell’Inferno.

Restammo tutti a bocca aperta, capimmo che l’aveva fatto apposta. Nessuno di noi, neppure il metodico Oscar Graldi che nella sua vita di studente non aveva mai trascurato, né rimandato nulla, aveva la minima idea di come andasse svolto quell’esercizio.

Ci fu chi pianse, chi rimase per parecchi minuti a guardare nel vuoto, altri che decisero di  consegnare con sdegno il compito in bianco. Alcuni, io fra costoro, tentarono, dopo aver letto e riletto l’enigmatico testo del compito, di pastrocchiare qualcosa, di inoltrarsi nel buio di una materia e di una tecnica praticamente sconosciuta, nell’intento di limitare una disfatta scolastica che poi sarebbe stata durissima da rimediare.

Nei giorni successivi, nell’attesa della consegna dei temuti voti del «compito maledetto», ci dicemmo che, forse, di fronte allo sfacelo evidente, esso sarebbe stato annullato per decisione superiore.

Di lì a poco, tuttavia, fummo disillusi proprio dal professore stesso. Qualcuno incontrandolo nel corridoio, mentre si dirigeva all’aula di quarta, gli chiese: «Com’è andato il nostro compito professore?»

«Non proprio bene, direi… A passo di valzer… Un-due-tre…»

Alla notizia, molti rimasero basiti ed increduli, ma, il giorno dopo, alla distribuzione dei compiti puntualmente corretti e col voto a matita rossa nell’ultima pagina del foglio protocollo, i pianti furono parecchi, tanto che l’ineffabile professor Garani, volle rincuorarci alla sua maniera:

«Eh sì, cari ragazzi… Di questi tempi anche i “Quattro” bisogna meritarseli, i “Cinque” sono rari come le mosche bianche e i “Sei”… Beh, ragazzi miei, i “Sei” vanno estinguendosi come la razza dei dinosauri…»

Il mio voto, tutto sommato, era un bel 5 tondo, ed era uno dei più alti. Se ben ricordo, in tutta la classe c’era stata soltanto una sufficienza molto scarsa: un 6 meno-meno. Evidentemente i miei tentativi erano serviti a qualcosa. Tuttavia, colto da un dubbio e vista una correzione forse opinabile, volli andare dal professore a chiedere spiegazioni, con la speranza di fargli ritoccare il voto. A volte succedeva.

Garani mi ascoltò, controllò, mi guardò con una certa sorpresa, poi, senza degnarmi di una risposta, decise di rivolgersi a tutta la platea sofferente.

«Cari ragazzi, mettere in discussione questo errore, sarebbe come voler discutere sul “sesso degli angeli”…»

Di colpo il brusio di sottofondo, diffuso per tutta l’aula, svanì.

Ognuno dei miei compagni, chi più e chi meno trafitto dal dolore e dalla preoccupazione, si apprestò ad ascoltare cosa fosse mai quella strana questione evocata dal professore.

Io, col mio foglio in mano nei pressi della cattedra, non sapevo più cosa aspettarmi, né, se, vista la malaparata, dovessi restarmene lì, oppure dovessi tornare lestamente al mio banco. Nel timore di indisporlo nella spiegazione imminente me ne restai lì, pallido e immobile come uno stoccafisso.

«Dovete sapere, cari alunni, che alcuni studiosi del Seicento sostenevano che gli angeli erano di sesso femminile. Con altrettanta forza insorse un’altra schiera di studiosi che ritenevano, al contrario, che gli angeli fossero di sesso maschile… E si discusse sulla questione per circa un ventennio… Finché un giorno non si concluse che, siccome mai nessuno li aveva visti da vicino, gli angeli non avevano sesso… Vandini vai a posto…»

Tornai al mio banco ovviamente, ben felice di aver evitato disgrazie maggiori, ma, ancora oggi, mi chiedo se, nella mia perorazione, avessi ragione oppure torto…

 

Venne poi anche il giorno in cui, le loquaci e un po’ impertinenti ragazze del primo banco, la Poltronieri e la Furini, ebbero il coraggio, o l’incoscienza, di chiedere al professore se fosse vero o falso quanto ci aveva raccontato un paio d’anni prima il fantasioso bidello Cimatti, ossia, se davvero, insomma, lui si fosse mai messo a piangere per un otto sul registro…

La sua risposta, tambur battente, ci sconvolse ancora una volta.

«Certo che è vero…», disse. «Mi era stato affibbiato in inglese orale…»

Consci della personalità e della straordinaria figura di quel professore, nessuno poteva aver più dubbi su di una circostanza che, ai nostri occhi, era invece apparsa inattendibile. L’incredula Katia Poltronieri volle però insistere.

«Come?... Lei pianse per un otto? Ma come?... Ci dica che sta scherzando…»

«E perché mai? Voi che siete abituati a prendere “sei”, non piangete forse quando prendete “quattro”?... Io ero abituato a prendere “dieci”…»

 

Tante altre sarebbero le arguzie e le battute memorabili del professore, forse ancora scolpite nella memoria di chi, come me, in quegli anni lontani ebbe Garani come professore di Ragioneria[1]. Ancora oggi, quando incontro l’amico argentano Paolo Atti, che lo ebbe anch’egli come insegnante, ci facciamo qualche risata nel ricordo di quei giorni e quella bellissima età.

 In quegli anni lontani, io, sul treno degli studenti, feci spesso l’imitazione e la divertente caricatura di Garani, suscitando ogni volta le risa e l’incredulità dei compagni di viaggio.

Tanto però lo trovavo comico, il mio bizzarro professore, altrettanto ne ammiravo la capacità di infondere in noi, sia pure in un modo tutto particolare, la grande mole delle sue conoscenze. Per questo conservo tuttora verso di lui e verso la sua splendida memoria, una gratitudine immensa.

Appresi, pochissimi anni dopo il mio Diploma, da un triste articolo sul «Carlino», della sua prematura ed improvvisa scomparsa e fu una notizia che mi lasciò interdetto.

Ho sempre saputo di dovergli molto, e non solo per le efficaci lezioni di ragioneria. Credo davvero che sia stato un grande, irripetibile insegnante.

Peccato che, avendoci lasciato così giovane, non abbia potuto realizzare l’intendimento di cui ci parlò durante una delle sue memorabili lezioni, forse per infiorare, ancora una volta, una delle sue dotte spiegazioni.

«Cari ragazzi, io so bene che la materia che studiamo è spesso noiosa ed opprimente, ma è colpa anche di libri scritti male, che non invogliano a leggere… In qualunque posto voi andiate, al mare o in montagna, potete infatti vedere gente che legge, per diletto, libri delle discipline più disparate, dalla Storia, alle Lettere e alle Scienze, ma non vedrete mai nessuno leggere per diletto un libro di Ragioneria… Quando sarò vecchio, voglio scrivere un libro di ragioneria divertente… Lo chiamerò: “Alice nel paese dei bilanci”…».



[1] Come dimenticare, ad esempio, la sua definizione dei governi dell’epoca: «I governi in Italia sono come la rosa… Durano lo spazio di un mattino…», oppure la storia del «pesce vivo e del pesce morto», altra questione bizantina risolta da un plebeo che mise d’accordo un paio di dotti contendenti. Essi discutevano sul perché il pesce da morto pesasse più che da vivo. Egli lo catturò, lo pesò, lo lasciò morire, poi il contadino lo pesò di nuovo: aveva sempre lo stesso peso…