martedì 12 ottobre 2021

Professore, genio e personaggio…

 

Marco Aurelio Garani, il mio professore di Ragioneria

di Agide Vandini

 

Qualche giorno fa, rimestando fra vecchie foto, il mitico professore me lo sono rivisto in questa vecchia immagine di quasi 60 anni fa, una foto di gruppo che mi è molto cara. E’ la classe 5°A dell’anno scolastico 1963-64, quando ancora l’Istituto Tecnico Commerciale Vincenzo Monti di Ferrara si collocava in Via Borgoleoni, ove sta ora il Tribunale della città.

 



L’ indimenticabile Prof. Marco Aurelio Garani è in piedi e in doppio petto sulla sinistra. 
Questi i miei compagni (di alcuni di essi, purtroppo, ricordo appena il cognome). Nella fila in alto: Giuliani Mario, Caiati Gabriele, Zappaterra Gianni, Fioratti Vinicio, Marchesini Giordano, Govoni, Braghini Alberto, Croci Domenico, Graldi Oscar, Zanzi Marco; Nella fila centrale: Vandini Agide, Marzocchi Francesco, Bottoni, Pedretti, Orsatti, Fogli Franca, Delmonte, Orsoni Concetta, Magnani Elva, Salani e il Prof. di Tecnica: Droghetti. Sedute:  Furini Maria Grazia, Poltronieri Katia, Bortolotti, Saltarelli Sonia, Govoni Fiorella, Donzuso, Bosi Lucia, Donadello, Locatelli, Bonsi Anna, Guerzoni Carla, Tironi Anna Maria.

 

Davanti alla sua classica e distaccata espressione, e rivedendo i volti un tempo familiari dei miei compagni di classe, non ho potuto che tornare con la mente a tempi e ricordi scolastici che conservo ancora ben scolpiti nella memoria, in gran parte legati proprio a lui, al leggendario professore di ragioneria.

 

Aveva fama di insegnante atipico il prof. Garani e tale era stata anche la prima impressione avendolo visto un giorno farsi largo fra la folla degli studenti. Camminava a passo veloce e dall’alto della sua figura altera ed imponente, incalzava chiunque lo ostacolasse con voce calma e, allo stesso tempo, autorevole: «Spostati alunno…»

Prima ancora di ritrovarcelo in classe e di ascoltare qualcuna delle sue affascinanti lezioni eravamo stati messi sull’avviso dal nostro ciarliero bidello, un uomo brillante che di cognome faceva Cimatti.

Detto fra parentesi: non ci si meravigli troppo dell’aggettivo “affascinante” applicato alla ragioneria. So bene che, data la materia del professore, un’accezione simile potrebbe sembrare inappropriata, ma sono altrettanto certo che, dopo aver rievocato alcune sue celebri battute ed arguzie, nessuno avrà più dubbi sulla liceità della definizione.

Andiamo però con ordine.

«Badate che quello è un genio…» ci aveva detto Cimatti per tenerci quieti nei primi giorni di “terza”, mentre aspettavamo l’arrivo in aula del professore. «Prima di andare all’Università di Bologna, Garani ha frequentato questo Istituto e da noi era famoso per una stranezza, per una cosa mai capitata e che non capiterà mai più…»

«E quale …?», avevamo chiesto in coro con curiosità ed inquietudine.

Cimatti aveva guardato la porta, abbassato la voce e quasi con complicità aveva aggiunto: «Non dite che ve l’ho detto, per carità… Ma qui, da studente, Garani s’è messo a piangere dopo aver preso un ”otto”…»

«Eehhh…Buuum…» Fu il coro di oltre trenta voci incredule, ben consce di quanto fosse già un’impresa, almeno per noi a quei tempi, guadagnarsi una dignitosa sufficienza…

Nessuno ebbe poi l’ardire di volerne sapere di più, né in quel contesto, e neppure dopo aver visto di che genere di professore si trattava.

Alto, imponente, sui quarant’anni forse, la sua età ancor giovane veniva in gran parte trasfigurata dall’austerità degli atteggiamenti e da un eloquio che sapeva di antico, di classicheggiante, di barbute figure risorgimentali.

Indossava sempre lo stesso vestito grigio-punteggiato in doppio petto, la  sbrigativa e smunta pettinatura era quasi sempre in disordine, eppure l’eloquio di cui disponeva era di rara efficacia, nonostante una dizione, a dir poco, infelice. Egli infatti storpiava vistosamente ben tre consonanti, poiché, al rotacismo della “erre” aggiungeva l’incapacità di sibilare correttamente la “esse” e la “zeta”…

Refrattario a fronzoli ed inutili preamboli, Impiegava la prima delle due ore di ragioneria, quelle che il nostro orario settimanale prevedeva più o meno a giorni alterni, in spiegazioni di grande respiro, ove sapeva spaziare in lungo e in largo e toccare una moltitudine di materie, dimostrando una capacità di approfondimento da lasciare a bocca aperta.

Diceva in proposito la «Prof» di Geografia, la bella e dolce Cavallari: “Quando il professor Garani, conversando con me, parla di geografia, io ascolto e imparo…”»

Ovviamente egli richiedeva ai suoi studenti, durante la lezione, un’attenzione assoluta e l’incanto spontaneo che si creava all’ascolto di cotanta sapienza, faceva sì che non ci fosse quasi mai bisogno di richiami. In questi pochi casi bastava un suo piccolo cenno con la mano e poche parole in tono sommesso: «Ho detto “silenzio” subito, e non fra poco…»

A quel punto normalmente non fiatava più nessuno.

Ci fu una volta soltanto, nell’anno della “Quarta”, in cui il suo richiamo non funzionò. La “Ragioneria pubblica” era così noiosa che la seguivamo malvolentieri; nemmeno le argomentazioni più fantasiose riuscivano a tenerci quieti. Fu così che ad un certo punto il professore, percepita la nostra disattenzione, impugnò il voluminoso testo e chiamò a sé i discepoli.

 

 


Il famoso «mattone» che ancora conservo gelosamente…

 

«Voi, cari ragazzi, oggi vi disinteressate, non ascoltate, pensate ad altro… eppure vi assicuro che…» Il noioso libro dalla copertina arancione ora veniva sbandierato sopra la sua testa e tutti noi pendevamo dalle sue labbra.

«… Ci crediate o no, quando sarete vecchi… un bel giorno… col vostro nipotino sulle ginocchia… prenderete questo mattone in mano e con grande orgoglio gli direte…”Ah quelli sì che erano tempi in cui si studiava veramente”…»

Fu così che l’attenzione desiderata ricadde immediatamente su di sé e devo dire che, pur continuando ad odiare la ragioneria pubblica, a quelle sagge parole profetiche, ho poi ripensato spesso… 

Nel corso delle sue interrogazioni (ce ne toccava una sola per trimestre), dire che era esigente è dir troppo poco. Ne chiamava quattro alla cattedra, due per ogni lato e li sottoponeva ad una specie di terzo grado per circa un’ora. Non si accontentava mai di risposte, pur appropriate, derivanti da semplice applicazione, oppure da uno studio meramente mnemonico. Voleva di volta in volta accertarsi che lo studente avesse davvero afferrato la materia in questione e su questo era inflessibile, spesso anche cinico.

La scelta di chi interrogare avveniva di norma chiamando per primo alla cattedra chi corrispondeva alla data del giorno, sicché ben presto si ebbero assenze strategiche anche da parte di chi, sul registro di classe, aveva multipli o sottomultipli di quel numero.

«Oggi quanti ne abbiamo? Nove?… Chi è il Nove? Do-na-del-lo….»

A quel punto il suo dito scorreva in orizzontale per tutto il registro

«…Già interrogata… Vediamo allora il numero 18: Guer-zo-ni…»

«Assente…»

« Proviamo il 27: Sa-la-ni…»

«Assente…»

«Strano, molto strano…» Lì, Garani scuoteva la testa, mormorava un paio di ehm-ehm, ciondolava e si dondolava sulla cattedra, finché poi decideva di chiamare qualcun altro sulla base di nuove astruserie matematiche.

In effetti per raggiungere la sufficienza in orale con lui, bisognava prepararsi per tempo e studiare a fondo ogni argomento, sapendosi poi ben destreggiare alla cattedra e alla lavagna, superando qualche trabocchetto o falsa pista. Non di rado pareva suggerire risposte che poi risultavano sbagliate. Barare, o fingere di sapere le cose, sciorinando nomi o definizioni trovate sul libro, non faceva che provocare da parte sua domande su domande, verifiche implacabili che reiterava fino a che aveva ottenuto le risposte, negative o positive, che cercava da noi.

Non c’era scampo.

Io per fortuna ero fra gli ultimi del registro, in quinta poi avevo il 31, numero primo, perciò difficilmente ricevevo chiamate inaspettate, se la lezione non cadeva all’ultimo del mese venivo solitamente interrogato a fine trimestre quando non rimaneva più nessun altro; a quel punto, ero giocoforza pronto all’impatto e al check-up.

Non andò altrettanto bene invece a una mia volonterosa compagna, solitamente preparata, in un giorno in cui, forse presa alla sprovvista, non riusciva a reggere le domande del professore che si facevano via via più incalzanti. Questi, ad un certo punto, gliene pose una che parve, anche a noi tutti, alquanto strana:

«Lo sai, cara Orsoni, quanti prosciutti ci sono in un maiale?...»

«Due, professore…»

«E’ giusto il voto che intendo darti… A posto grazie…»

 

Era di norma assai abitudinario, Garani, sicché sul suo ripetitivo modo di comportarsi ci basavamo molto per prevedere l’oggetto dei suoi complicati compiti in classe, sempre imperniati su argomenti approfonditi da tempo.

Un giorno però, forse per metterci alla prova, ci volle dare, direi “a tradimento”, un compito sui «Costi standard» che, sì, aveva spiegato, ma appena il giorno prima e nella disattenzione generale.

Dettato l’esercizio, ci furono subito timide proteste di chi si confessò completamente impreparato. Nessuna lagnanza, però, e neppure le oltre trenta facce completamente allocchite, cambiò il suo intento di una virgola. «Qui si parrà la vostra nobilitate…» disse, rifacendosi ai noti versi danteschi del secondo canto dell’Inferno.

Restammo tutti a bocca aperta, capimmo che l’aveva fatto apposta. Nessuno di noi, neppure il metodico Oscar Graldi che nella sua vita di studente non aveva mai trascurato, né rimandato nulla, aveva la minima idea di come andasse svolto quell’esercizio.

Ci fu chi pianse, chi rimase per parecchi minuti a guardare nel vuoto, altri che decisero di  consegnare con sdegno il compito in bianco. Alcuni, io fra costoro, tentarono, dopo aver letto e riletto l’enigmatico testo del compito, di pastrocchiare qualcosa, di inoltrarsi nel buio di una materia e di una tecnica praticamente sconosciuta, nell’intento di limitare una disfatta scolastica che poi sarebbe stata durissima da rimediare.

Nei giorni successivi, nell’attesa della consegna dei temuti voti del «compito maledetto», ci dicemmo che, forse, di fronte allo sfacelo evidente, esso sarebbe stato annullato per decisione superiore.

Di lì a poco, tuttavia, fummo disillusi proprio dal professore stesso. Qualcuno incontrandolo nel corridoio, mentre si dirigeva all’aula di quarta, gli chiese: «Com’è andato il nostro compito professore?»

«Non proprio bene, direi… A passo di valzer… Un-due-tre…»

Alla notizia, molti rimasero basiti ed increduli, ma, il giorno dopo, alla distribuzione dei compiti puntualmente corretti e col voto a matita rossa nell’ultima pagina del foglio protocollo, i pianti furono parecchi, tanto che l’ineffabile professor Garani, volle rincuorarci alla sua maniera:

«Eh sì, cari ragazzi… Di questi tempi anche i “Quattro” bisogna meritarseli, i “Cinque” sono rari come le mosche bianche e i “Sei”… Beh, ragazzi miei, i “Sei” vanno estinguendosi come la razza dei dinosauri…»

Il mio voto, tutto sommato, era un bel 5 tondo, ed era uno dei più alti. Se ben ricordo, in tutta la classe c’era stata soltanto una sufficienza molto scarsa: un 6 meno-meno. Evidentemente i miei tentativi erano serviti a qualcosa. Tuttavia, colto da un dubbio e vista una correzione forse opinabile, volli andare dal professore a chiedere spiegazioni, con la speranza di fargli ritoccare il voto. A volte succedeva.

Garani mi ascoltò, controllò, mi guardò con una certa sorpresa, poi, senza degnarmi di una risposta, decise di rivolgersi a tutta la platea sofferente.

«Cari ragazzi, mettere in discussione questo errore, sarebbe come voler discutere sul “sesso degli angeli”…»

Di colpo il brusio di sottofondo, diffuso per tutta l’aula, svanì.

Ognuno dei miei compagni, chi più e chi meno trafitto dal dolore e dalla preoccupazione, si apprestò ad ascoltare cosa fosse mai quella strana questione evocata dal professore.

Io, col mio foglio in mano nei pressi della cattedra, non sapevo più cosa aspettarmi, né, se, vista la malaparata, dovessi restarmene lì, oppure dovessi tornare lestamente al mio banco. Nel timore di indisporlo nella spiegazione imminente me ne restai lì, pallido e immobile come uno stoccafisso.

«Dovete sapere, cari alunni, che alcuni studiosi del Seicento sostenevano che gli angeli erano di sesso femminile. Con altrettanta forza insorse un’altra schiera di studiosi che ritenevano, al contrario, che gli angeli fossero di sesso maschile… E si discusse sulla questione per circa un ventennio… Finché un giorno non si concluse che, siccome mai nessuno li aveva visti da vicino, gli angeli non avevano sesso… Vandini vai a posto…»

Tornai al mio banco ovviamente, ben felice di aver evitato disgrazie maggiori, ma, ancora oggi, mi chiedo se, nella mia perorazione, avessi ragione oppure torto…

 

Venne poi anche il giorno in cui, le loquaci e un po’ impertinenti ragazze del primo banco, la Poltronieri e la Furini, ebbero il coraggio, o l’incoscienza, di chiedere al professore se fosse vero o falso quanto ci aveva raccontato un paio d’anni prima il fantasioso bidello Cimatti, ossia, se davvero, insomma, lui si fosse mai messo a piangere per un otto sul registro…

La sua risposta, tambur battente, ci sconvolse ancora una volta.

«Certo che è vero…», disse. «Mi era stato affibbiato in inglese orale…»

Consci della personalità e della straordinaria figura di quel professore, nessuno poteva aver più dubbi su di una circostanza che, ai nostri occhi, era invece apparsa inattendibile. L’incredula Katia Poltronieri volle però insistere.

«Come?... Lei pianse per un otto? Ma come?... Ci dica che sta scherzando…»

«E perché mai? Voi che siete abituati a prendere “sei”, non piangete forse quando prendete “quattro”?... Io ero abituato a prendere “dieci”…»

 

Tante altre sarebbero le arguzie e le battute memorabili del professore, forse ancora scolpite nella memoria di chi, come me, in quegli anni lontani ebbe Garani come professore di Ragioneria[1]. Ancora oggi, quando incontro l’amico argentano Paolo Atti, che lo ebbe anch’egli come insegnante, ci facciamo qualche risata nel ricordo di quei giorni e quella bellissima età.

 In quegli anni lontani, io, sul treno degli studenti, feci spesso l’imitazione e la divertente caricatura di Garani, suscitando ogni volta le risa e l’incredulità dei compagni di viaggio.

Tanto però lo trovavo comico, il mio bizzarro professore, altrettanto ne ammiravo la capacità di infondere in noi, sia pure in un modo tutto particolare, la grande mole delle sue conoscenze. Per questo conservo tuttora verso di lui e verso la sua splendida memoria, una gratitudine immensa.

Appresi, pochissimi anni dopo il mio Diploma, da un triste articolo sul «Carlino», della sua prematura ed improvvisa scomparsa e fu una notizia che mi lasciò interdetto.

Ho sempre saputo di dovergli molto, e non solo per le efficaci lezioni di ragioneria. Credo davvero che sia stato un grande, irripetibile insegnante.

Peccato che, avendoci lasciato così giovane, non abbia potuto realizzare l’intendimento di cui ci parlò durante una delle sue memorabili lezioni, forse per infiorare, ancora una volta, una delle sue dotte spiegazioni.

«Cari ragazzi, io so bene che la materia che studiamo è spesso noiosa ed opprimente, ma è colpa anche di libri scritti male, che non invogliano a leggere… In qualunque posto voi andiate, al mare o in montagna, potete infatti vedere gente che legge, per diletto, libri delle discipline più disparate, dalla Storia, alle Lettere e alle Scienze, ma non vedrete mai nessuno leggere per diletto un libro di Ragioneria… Quando sarò vecchio, voglio scrivere un libro di ragioneria divertente… Lo chiamerò: “Alice nel paese dei bilanci”…».



[1] Come dimenticare, ad esempio, la sua definizione dei governi dell’epoca: «I governi in Italia sono come la rosa… Durano lo spazio di un mattino…», oppure la storia del «pesce vivo e del pesce morto», altra questione bizantina risolta da un plebeo che mise d’accordo un paio di dotti contendenti. Essi discutevano sul perché il pesce da morto pesasse più che da vivo. Egli lo catturò, lo pesò, lo lasciò morire, poi il contadino lo pesò di nuovo: aveva sempre lo stesso peso…

2 commenti:

Filese ha detto...

Ecco un paio di battute del Prof ricordate da Paolo Atti e riportate sulla mia pagina di FB:
1. “Ma non vi sentite ignoranti quando Atti lo sa e voi no?” ; 2. “Com'è il compito di oggi professore?" "l'ho preparato nel fresco delle 5 di questa mattina!"

Benny ha detto...

Chi non ha conservato, in una vecchia scatola, magari dimenticata, le foto di quando si andava a scuola? In molti casi - in particolare per i “meno giovani” - si tratta di fotografie in bianco e nero, spesso stropicciate o danneggiate. Ci ricordano e sottolineano, momenti belli e momenti meno belli, passati tra i banchi di scuola, ma che pur sempre, fanno parte della nostra vita, come il servizio militare, il matrimonio, la nascita dei nostri figli e tutti gli altri momenti che sono stati immortalati da una macchina fotografica. La “foto di classe”, in particolare, era (ed è ancora oggi) un rito immancabile nella vita di ciascuno di noi, rappresenta non solo uno nostro spaccato di vita, di 50/60 anni fa o anche di più, ma anche un significativo “amarcord”, un piacevole viaggio a ritroso nel tempo.