mercoledì 26 agosto 2009

Cosa mi disse l’Ing. Gualandi


Particolari inediti intorno all’edificazione della chiesa attuale di Filo (1929-1931)

di Giovanni (Vanni) Geminiani


Intorno all’abbattimento della cinquecentesca chiesa di S.Agata in Filo col suo campanile, nonché della parziale quanto incompleta ricostruzione avvenuta fra il 1929 ed il 1931, ho scritto su questo blog lo scorso febbraio (si veda in data 11 febbraio 2009 l’articolo “Il campanile che non c’è più”). Riportai immagini di quanto andato perduto [si veda in proposito anche l’articolo da poco pubblicato “Filo com’era (1), via Chiesa nel primo ‘900”], sia del progetto dell’epoca, mai completamente realizzato, curato dall’Ing. Francesco Gualandi.

In questa lettera Vanni Geminiani, che ringrazio vivamente a nome dei lettori del blog, riporta molti particolari appresi tempo fa direttamente dal progettista e costruttore bolognese, alcuni dei quali inediti e perciò certamente interessanti per chi ha a cuore la storia del nostro vecchio paese (agide vandini).


caro Agide,

non ti ho mai detto del lungo incontro che ebbi, nel 1990 circa, con l'ing. Francesco Gualandi (Bologna 1895 - 1992), a casa sua, in via Francesco Acri n. 9, a Bologna. In quell’occasione mi disse che l’attuale chiesa di Filo (costruita dal 1929 al 1931) aveva una sua "quasi gemella" a Sala di Cesenatico [il paese dove ha una villa Dario Fo]. Questa chiesa però, a differenza della nostra, è stata ultimata ed è tenuta perfettamente.

Devo dirti che entrando, per un attimo si fa fatica a collegarla alla chiesa di Filo. Tanto è disadorna e povera la nostra, tanto quella è, invece, ricca di rifiniture e abbellimenti.

Mi disse che il campanile a Filo non era nemmeno in progetto perché non c'erano i soldi, anzi, una parte di quelli stanziati finì in spese impreviste. Quando iniziarono, infatti, gli scavi, l'ingegnere s’accorse degli strati di torba presenti. Furono fatti allora dei saggi con un apparecchio speciale che misurava il cedimento che subiva il terreno e quindi sacrificò una parte dei soldi a disposizione per ingrandire le fondamenta e superare il problema della torba.

Grande fu, proprio per questo, la sua meraviglia quando gli dissi che, poco lontano, nell'odierna via C. Pavese, una fila di 12 appartamenti a schiera costruiti dalla CMR (subappaltati alla ditta Baraldi di FE) e terminati nel 1978, avevano iniziato cedere e ad inclinarsi.

Tornando alla costruzione della chiesa, mi disse che il preventivo di spesa era di £ 200.000, il cancelliere Zumaglini lo presentò al vescovo di Ravenna monsignor Lega che lo approvò. C'erano però a disposizione della chiesa di Filo solo £. 100.000 e per le altre 99.000 si accese un mutuo della durata di 40 anni al 6 % (6 mila lire l'anno). In questo 6% era compreso anche l'ammortamento. Si trattava cioè di pagare in 40 anni £240.000 su 99.000 chieste in prestito. Il 20 ottobre del 1929 si fece la cerimonia della prima pietra e il 5 agosto del 1931 si celebrò la prima messa nella chiesa quasi finita.

I lavori si eseguivano in economia ed era l'ingegnere stesso a pagare gli operai. Egli era alle dirette dipendenze della Curia, quindi ascoltava solo i suggerimenti che da essa provenivano, senza badare alle esigenze del parroco don Bezzi col quale aveva perciò un rapporto non buono.

Nel prezzo della chiesa era compreso anche il restauro del quadro e dell'ancona lignea della Madonna sopra l'altare, fatti restaurare dal laboratorio dell'Istituto Gualandi di Bologna. Il pittore Rinaldi restaurò il dipinto della Madonna con le sante Agata e Apollonia e il doratore e restauratore Nanni restaurò l'ancona.

Eccoti qualche altra notizia intorno all’ing. Francesco Gualandi.

Si era laureato nel 1922 a Bologna ed anche suo padre Giuseppe e suo nonno costruivano chiese. Fra i suoi antenati il servo di Dio don Giuseppe Gualandi (Bologna 1826-1907) fondatore assieme al fratello don Cesare dell'Istituto Gualandi per i sordomuti di Bologna e dell’annessa tipografia.

Uno dei suoi primi incarichi (1930) fu il restauro con le pitture di Guido Reni nel duomo di Ravenna. Rifece anche la facciata del seminario inglobando in questa una vecchia chiesa non più in uso. A Forlì costruì tre chiese e il seminario. Nel dopoguerra costruì la chiesa di Boccaleone e l'Istituto di S. Teresa a Ravenna, ricostruì la chiesa di Gatteo e di S. Angelo di Gatteo e terminò, infine, la bellissima chiesa a Guasto di Castelpetroso (Isernia), iniziata dal nonno, continuata dal padre e terminata da lui.

Altre sue opere furono le chiese di Alba di Riccione, di S. Maria Goretti di Bologna, di Lama di Setta. Finì la chiesa di Lizzano in Belvedere iniziata dal padre e ne progettò il campanile. Fece la facciata della chiesa di Cesta dei padri passionisti (allora in diocesi di Ravenna) e in questa sollevò anche la guglia del campanile.

Di tutte queste opere, però, quella che più assomiglia alla chiesa di Filo è, come ho detto all'inizio, quella di Sala di Cesenatico.

Ti ricordo poi che la grande croce in ferro battuto posta nel dopoguerra sulla sommità della chiesa è opera dei Gennari di Molino di Filo.


ciao

Vanni (Geminiani Giovanni )

martedì 18 agosto 2009

Filo com’era: «Via Chiesa» nel primo ‘900


Note intorno a foto panoramiche e cartoline d’epoca(1)

di Agide Vandini


Capita di buttare l’occhio su vecchie foto o cartoline del primo Novecento filese e di non riuscire a raccapezzarsi a causa dei tanti e importanti mutamenti intervenuti. A Filo disponiamo poi di fotografi, cercatori e collezionisti di assoluto valore, sicché di tanto in tanto si scova in qualche cassetto un’immagine inedita su cui porre l’attenzione.



In questo primo approfondimento prenderò in esame alcune vecchie foto avute in gran parte dall’amico ed appassionato ricercatore Giovanni Geminiani (Vanni per noi filesi), che riguardano uno dei punti nevralgici di Filo, ossia la «Via Chiesa» (che vediamo ai nostri giorni nella prima foto a fianco a colori), e che ci consentono di rivedere nei primi decenni del secolo, uno scorcio di paese che fu successivamente sconvolto dall’abbattimento-ricostruzione della parrocchiale e del campanile (1929-1931) e dalle terribili devastazioni della seconda Guerra Mondiale (1945).

Le preziose foto-cartolina d’epoca in bianco e nero, che riporto a fianco in successione temporale, in versione ottimizzata e restaurata dal sottoscritto, risalgono all’arco di anni che va dalla metà degli anni ’10, fino alla fine degli anni ’20 del Novecento. Su di esse basterà cliccare, come al solito, per vederle ingrandite.


La prima foto d’epoca risale ai primi decenni del Novecento. E’ un’immagine ad uso postale, reca la scritta in alto «Un saluto da Filo di Argenta», ma è purtroppo a bassa definizione e coperta in buona parte da una vistosa soprascritta (Iride Project) che ne impedisce la piena fruizione. Di essa, peraltro, si è persa ogni traccia dopo averla osservata in vendita su internet[1].

La strada all’epoca denominata “Via Chiesa”, divenuta, negli anni ’70 un prolungamento di “Via Oca-Pisana”, vi è ritratta, come nella foto dei giorni nostri, di fronte, dall’incrocio della Provinciale. La sede stradale, come si vede, è molto più larga dell’attuale; lambisce la centrale cà dla Nuziadina (casa di Bosi Annunziata abbattuta a fine Novecento) e le costruzioni ad essa allineate: muretto ed abitazione di casa Tamba, la «nuova» sezione delle scuole (edifici, questi ultimi, distrutti dalla guerra) e la vecchia chiesa.

Sulla sinistra si intravede l’edificio delle «vecchie» scuole elementari, oggi Casa del Popolo, tutto il campicello (ora Piazza Agida Cavalli e monumento ai Caduti) che pare in corso di mietitura; più oltre, la casa Minguzzi tuttora esistente (la cà dla Mingóna). Al centro del campicello ed ai bordi della strada l’antica fontana (1912) con la classica fila di persone davanti agli scalini che scendono fino all’acqua zampillante che scorre a quota più bassa rispetto al piano stradale. In fondo agli scalini una pompa a pressione verticale permette di riempire il secchio più rapidamente, ma con acqua meno limpida[2].

Al centro della foto e in primo piano un uomo dedica la sua attenzione alle spighe distese al sole. I vestiti indossati e gli atteggiamenti della gente a passeggio, paiono indicare il trattarsi di giorno di festa. Sullo sfondo la residenza parrocchiale, caduta anch’essa coi bombardamenti, che pare quasi sbarrare la strada e chiudere il centro del paese.


La seconda foto d’epoca, piuttosto nota, risale ad alcuni anni dopo, ai primi anni ’20 del Novecento. E’ stata scattata da qualche metro più avanti e da posizione più decentrata, forse da una finestra della scuola che, nella ricostruzione del dopoguerra, lasciò il posto alla Casa del Popolo. L’angolazione esclude il campicello, la cà dla Mingóna, e anche la dla Nuziadina; include invece la fontana dove, come sempre, si raggruppano parecchie persone. Si nota meglio la pendenza dla rata d Fìl, mentre la sede stradale non è più larga come prima: è stata ridotta di parecchio e delimitata con robusti paracarri che s’infittiscono presso le scuole «nuove» e la chiesa. Sulla destra e in primo piano un parapetto innalzato a protezione della scarpata che dà verso le scuole «vecchie». Il giardino che sta dietro al muretto dei Tamba non è più così nudo; la crescita dell’alberello denota il tempo necessariamente trascorso dalla foto precedente. Dietro casa Tamba, s’ intravvede un’abitazione, fuori quadro nella precedente fotografia.


La terza e la quarta foto d’epoca, ragionevolmente scattate nello stesso giorno[3], risalgono a qualche anno dopo, ossia all’incirca alla fine degli anni ’20. La vecchia chiesa abbattuta nel 1931 qui è ancora ritratta, non ci sono segni della nuova chiesa costruita a partire dal 1929 e la linea elettrica, di cui si vedono per la prima volta i lampioni, i pali ed i fili decorrenti, è giunta da poco e permette, proprio in quegli anni (1929) l’edificazione del molino elettrico dei Barabani[4].

La terza foto, scattata dal campicello, inquadra da vicino la vecchia fontana incavata nel terreno e vi si notano i leggeri parapetti al fianco degli scalini che conducono alla quota più bassa. Vi si contano almeno undici persone nei pressi, venute a piedi (biciclette proprio non se ne vedono …)con uno o due fiaschi a testa. La bimba più a destra, già rifornita, sembra trasportare il suo carico con fatica. Dal vestiario si direbbe trattarsi di un giorno di tarda primavera. Si noti la facciata di casa Tamba, abbellita con cornicioni e losanghe assenti nella foto di qualche anno prima.

La quarta ed ultima foto, avuta poche settimane fa da Vanni, è importantissima, poiché consente l’osservazione della vecchia chiesa da posizione quasi frontale. L’immagine autentica non pare molto dissimile dalla ricostruzione sommaria al computer da me pubblicata qualche mese fa in questo stesso blog, esattamente l’11 febbraio 2009, in un articolo dal titolo “Il campanile che non c’è più”.

Dall’immagine si percepisce lo stato di incuria in cui versava la chiesa e si notano bene alcuni particolari: il grande portone ad arco con porticina per l’uso ordinario, la grande croce incavata nel muro, il finestrone ad arco, il rosone, le tre guglie, i bei motivi cinquecenteschi.

Anche questa foto, come la precedente, pare scattata di sorpresa. Ognuna delle persone ivi ritratte è dedita a qualcosa, chi a giocare (i bambini che corrono), chi a conversare (l’anziano col bastone appoggiato al muretto della Mingóna e i due avventori), chi, infine, sta forse lavorando, ossia l’uomo di spalle che si dirige verso la vigna del parroco, parzialmente coperto da un altro bimbo che guarda nella direzione opposta. Quasi tutti hanno un copricapo, fazzoletti tradizionali, berretti con visiera, ma più di tutti meravigliano le bimbe, col loro vezzoso cappellino a mo’ di pompiere, forse in voga a quel tempo.


Di questo scorcio di paese non è stato ancora possibile reperire immagini anteguerra (anni ’30 o primi anni ’40), che ritraggano la chiesa attuale assieme agli edifici poi distrutti dai bombardamenti. Su quest’ultima, tuttavia, e sulla sua storia tormentata, si tornerà ben presto con un interessante articolo di Vanni Geminiani che ci racconterà interessanti retroscena intorno alla sua edificazione e riporterà molte informazioni raccolte a suo tempo direttamente dal progettista e costruttore Ing. Gualandi di Bologna.



[1] Nel sito www.iride-project.com è dichiarata «non più disponbile» la cartolina seguente: Numero inventario: PARMCART04583, Soggetto: Veduta di Filo di Argenta, Datazione: 1916ca. - 1916ca., Autore: Anonimo, Materia e tecnica: stampa fotomeccanica - collotipia. Se qualcuno, in possesso dell’originale fosse disposto a fornire l’immagine completa, anche a pagamento, può contattare questo blog scrivendo a: agide.vandini@gmail.com

[2] Scriveva Libero Ricci Maccarini: «sul marmo riquadrato della fonte, poi abbattuto per seguire la continua depressione del debole zampillo, si leggeva la data del 1912, che indicava l’agognata conquista dell’acqua di sorgente, e, più sotto, recava la quota di perforazione: metri 96» (L.R.Maccarini, Dal palazzone, Argenta, C.S.Offset, 1983, pp.79-80).

[3] Lo si deduce dall’identica posizione delle coperte appese alla recinzione fra la chiesa e le scuole «nuove».

[4] A quell’epoca abbandonarono infatti l’opificio a vapore sito al «Molino di Filo» (e’ mulinàz), la cosiddetta «fabbrica nuova» che pochi decenni prima (1885), aveva preso il posto del predecessore più antico, quello protagonista di una storia tormentata di chiusure e riaperture, di assalti, demolizioni e ricostruzioni dovuti all’ostilità comacchiese e che, per secoli, aveva macinato con l’acqua di Po vecchio (si veda la storia completa dei «molini di Filvecchio» in A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, pp.327-350).

martedì 11 agosto 2009

L’acqua buona del Trumbòñ

Una poesia «Pane e Olio»

di Orazio Pezzi


La casa contadina dei Brandulẹñ sta lungo la strada oggi chiamata «Lodigiana». Andando in direzione del ristorante "Il Cavallino" precede sulla sinistra la storica Risarôla (o Cašèta). Nelle moderne carte topografiche compare tuttora come Cà dei Bovi, ma il popolo di Filo l’ha sempre chiamata la cà de’ Trumbòñ.

E’ un nomignolo che le deriva dal pozzo artesiano ivi scavato, forse al momento stesso della costruzione della casa colonica,  a spese dell’allora proprietario Duca Massari. L'escavazione avvenne presumibilmente a fine Ottocento, poiché, della casa non si trova alcuna traccia nel catasto napoleonico di inizio ‘800.

Da quel pozzo artesiano sgorgava di continuo, e senza bisogno di pompe, un’acqua buona, fresca ed inesauribile. Quel tipo di prelievo dal sottosuolo dovette ricordare, ai nostri paesani dell’epoca, proprio quello della «tromba», ossia del tubo flessibile utilizzato per calare nei fiaschi il vino contenuto nelle damigiane.

E’ Trumbòñ, quindi, divenne il nome di quella fonte, un termine dialettale già in uso ai tempi del Morri (1840) che nel suo dizionario Romagnolo - Italiano specifica: Tromba da aqua - Tromba aspirante, Tromba da attingere, o cavar acqua. L’etimo, secondo il Dizionario etimologico on line, risale addirittura al provenzale trumpa. L’accrescitivo che gli si appiccicò (trumbòñ) voleva evidentemente indicare la grande profondità e l’eccezionale lunghezza del tubo che faceva salire l’acqua dal sottosuolo mediante il vuoto.

L’aqua bóna de’ Trumbòñ divenne subito una grande risorsa per tutto il paese e, gli eredi dei Brandolini, ricordano ancora oggi gli usuali assembramenti, i carri e carretti in fila per approvvigionarsi di quell’acqua limpida e preziosa, tanto desiderata, cercata ed ambita nelle sparse, e in alcuni casi lontane, borgate di Filo.

Di quel pozzo andato perduto, reso quasi inutile dall’acquedotto giunto negli anni Sessanta del Novecento, c’è traccia in poche fotografie. Una di queste, è quella che mi è stata gentilmente offerta dalla famiglia di Paolina Brandolini ove la fonte si intravvede in lontananza[1].

A ricreare  un’immagine nitida del luogo e di quei tempi andati ci ha pensato, però, con la sua poesia, il nostro ispiratissimo Orazio. Non sarà difficile, dopo aver letto le sue note e i suoi versi dialettali romagnoli, rivedere, nella nostra fantasia, quella gente, quei tempi, quella fonte assiepata di gente. Io li ho semplicemente tradotti e trascritti, cercando di rispettare la fonetica del «dialetto tipico filese», nella nuova grafia adottata dal blog.

E’ un altro tuffo nel passato di cui Orazio, con la dolcezza poetica che lo contraddistingue, ha voluto e saputo farci dono (agide vandini).

***

Ai tempi non c’era l’acquedotto, ed il territorio era disseminato di pozzi artesiani. Il nostro pozzo di casa aveva, anzi ha ancora, l’acqua leggermente salata, per cui si andava al pozzo dei Brandolini, chiamato dal popolo di Filo “e’ Trumbòñ”. Aveva un’acqua eccezionale che saliva di continuo e che fuorusciva da un beccuccio a forma di manina. C’erano anche pozzi più vicini, uno di questi era ae’ Stalòñ , ma l’acqua non reggeva il confronto. Noi ci andavamo coi fiaschi e, d’estate, il nostro era un via vai continuo, per portare da bere a genitori e zii che lavoravano nei campi.

Era insomma un’acqua importante e fonte di vita (Orazio Pezzi).

E’ Trumbòñ (L’aqua l’è la vita)


U j éra una funtêna

A cà d Brandulẹñ

Cun un bëch d utòñ

Fàt coma ‘na manéna

Mej cgnusuda coma «e’ Trumbòñ»

L’aqua l’éra un quël ch’u n s pö dì

La fašéva digerì, e incóra mej pisê

Nenca e’ dutór u t l’urdinéva pr al malatìi

Döp un bichìr t’a t sintìv rigenerê

Tọt i mél e i dulùr i éra sparì

L’éra ciêra, frësca e pura

S t’a t la dbìv u t paséva la paura

A pinsej pröpi bèñ

L’éra un miràcul dla natura

Fàt a cà d un cuntadẹñ

L’éra l’aqua dla nöstra vita

Da piọ d zènt métar la šgurghéva

La vnéva sọ nöt e’ dẹ

Ch’e’ fọs tẹmp catìv o tẹmp bòñ

D invéran o d istê

Nọñ avèñ dbù pr ögni stašòñ

L’aqua banadeta de’ Trumbòñ

Se a sö a quẹ ch’a l pọs cuntê

La fašéva pröpi bèñ, cardìm a mẹ.

Il «Trombone» (L’acqua è vita)


C’era una fontana

A casa di Brandolini

Con un beccuccio d’ottone

Che pareva una piccola mano

Meglio conosciuta come «il Trombone»

L’acqua era una cosa che non si può dire

Faceva digerire, e ancor meglio urinare

Anche il dottore te la ordinava per le malattie

Dopo un bicchiere ti sentivi rigenerato

Tutti i mali ed i dolori erano spariti

Era limpida, fresca e pura

Se la bevevi ti passava la paura

A pensarci meglio

Era un miracolo della natura

Avvenuto a casa di un contadino

Era l’acqua della nostra vita

Sgorgava da oltre cento metri

Usciva notte e giorno

Col tempo cattivo come col tempo buono

D’inverno come d’estate

Noi abbiamo bevuto in ogni stagione

L’acqua benedetta del «Trombone»

Se son qui che ve lo posso raccontare

Faceva proprio bene, credetemi.


[1] La foto ritrae alcuni cliclisti in arrivo nel cortile dei Brandolini. In testa al gruppetto Aurelio Brandolini. La fonte è sullo sfondo, in alto a sinistra.