Gli «Amarcord» di un partigiano filese (III)
di Giovanni Pulini
[Edizione
e Note a cura di Agide Vandini]
La casata dei Tamba
A Filo
d’Argenta, mio paese natale, la famiglia Tamba era proprietaria di un vasto
territorio, in parte lavorato in compartecipazione con i braccianti del paese
ed in parte lavorato a mezzadria.
Tamba era
residente a Lugo di Ravenna e a Filo possedeva la villa che affacciava sul
«campicello», un prato oggi Piazza Agida Cavalli. Il palazzo era recintato da
un possente muro dietro al quale c’era un piccolo parco con alberi giganteschi.
Durante
l’estate, quando i Tamba erano in villa, la servitù faceva le pulizie tenendo
le finestre aperte ed una radio, l’unica nel paese e specchio della loro
ricchezza, trasmetteva musica ininterrottamente: nel periodo fascista la
cronaca era proibita ed i programmi culturali erano inesistenti.
Noi ragazzi,
sdraiati sul prato della piazza, godevamo con grande piacere questi momenti
gioiosi e anche molte persone adulte si radunavano nello spiazzo per lo stesso
motivo.
A poca distanza
dalla nostra abitazione c’era una fornace di proprietà dei Tamba e vi si
fabbricavano mattoni fatti a mano, ricavandone un prodotto di pessima qualità.
Nella fornace mio padre aveva mansioni di maltarolo:
impastava la terra, un lavoro da bestia, senza un orario prefissato. La paga la
stabiliva il padrone. Così dunque nacque il rapporto fra la mia famiglia ed i
Tamba.
Un giorno il
patriarca di quella famiglia signorile morì, i tre figli ereditarono e si
divisero il patrimonio, la villa di Filo ed una cospicua quantità di terreno,
che si estendeva fino al centro urbano, furono ereditati da Antonio.
Tamba Diotallevio
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Nella
foto anni ‘20 la Via Chiesa nel centro di Filo prima delle distruzioni belliche
[ora tratto di Via Oca-Pisana]. La Villa Tamba è l’edificio più a destra nel
punto ove oggi sorgono le Scuole Elementari., il fronte della residenza Tamba è
delimitato dalla vistosa recinzione. Si notino la vecchia chiesa con l’imponente
e perduto campanile abbattuti ad inizio anni ’30. Fra essi e la Villa Tamba,
ove oggi sta il giardino dell’Asilo Parrocchiale abbandonato, le «scuole nuove»
in faccia a vista, un edificio scolastico complementare alle cosiddette «scuole
vecchie» che, con la ricostruzione del dopoguerra, lasciarono il posto alla
Casa del Popolo.
Il terreno era
molto fertile, c’erano filari di vite in piena produzione; alcuni di essi, in
compartecipazione, erano stati dati alla mia famiglia e da questi si traeva il
vino necessario al fabbisogno. In mezzo ai filari c’erano delle viti che
producevano un’uva che maturava a metà
agosto, in concomitanza con l’Assunzione della Beata Vergine, e per ciò noi
chiamavamo questo frutto “uva della Madonna”.
A casa nostra l’uva si mangiava col pane,
tanto da diventare il companatico.
Un giorno, verso
sera, una delle mie sorelle mi disse di andare con lei per raccogliere una
sporta d’uva che sarebbe servita per la nostra cena. Mi caricò sul cannone
della bicicletta e andammo. Lasciammo il
nostro mezzo ad un centinaio di metri dalla vite, raccogliemmo l’uva necessaria
e tornammo sui nostri passi, ma lì trovammo anche il fattore che ci aspettava e
che ci strappò la borsa dalle mani dicendo che l’avrebbe portata al suo padrone.
Mia sorella ed io tornammo a casa pieni di vergogna per l’accaduto. Dopo
qualche minuto arrivò il maggiordomo dei Tamba e disse a mio padre di seguirlo
che il padrone doveva parlargli. Negli anni non ho mai dimenticato la testa
bassa, segno di grande umiliazione interiore, con cui mio padre rientrò in
casa, senza commenti, senza parole; tutto questo per una sporta d’uva.
La sparatoria di Villa Tamba e l’eccidio di Filo
Allo scoppio
della guerra i Tamba si trasferirono in via permanente nella villa di Filo che
fu teatro, ai primi di settembre, di un episodio mai chiarito fino in fondo, oscuro come tanti
avvenimenti di quel periodo che non si conosceranno mai del tutto, poiché la
spietatezza della guerra ha portato via molti testimoni.
Il fatto tragico
lo esporrò così come mi fu raccontato, scusandomi per eventuali ed involontarie
imprecisioni. Una sera ai primi di settembre del 1944 un gruppo di quattro
persone bussarono alla villa dei Tamba intimando, in nome della Resistenza, di
consegnare nelle loro mani Lire Centomila, somma da destinarsi al mantenimento
dei combattenti partigiani.
Tamba rispose
che non disponeva, in quel momento, di simile somma accordandosi per la sera
seguente. La sera del giorno stabilito, i quattro bussarono alla porta, si trovarono
di fronte un Maresciallo tedesco: ne seguì una sparatoria ed il militare germanico
fu ucciso[1].
I presenti
all’Osteria, a poca distanza da casa Tamba, da cui si presume provenisse il
gruppo armato, al rumore degli spari, rincasarono immediatamente, il barista
chiuse l’esercizio e si ritirò nel suo alloggio sopra il locale. La reazione
tedesca fu però immediata. Chiamarono l’oste e si fecero condurre fino alle case
dei clienti presenti al momento della sparatoria. Dentro al bar rinchiusero una
quarantina di persone che il giorno successivo furono trasferite ad Argenta. Il
Federale indicò chi doveva pagare con la vita questa barbara esecuzione.
Durante il ritorno, a quattro chilometri dall’incrocio di Filo, cinque di
questi furono fucilati ed altri cinque furono ammazzati nel centro del paese, a
pochi passi dal luogo dell’accaduto.
In
questa foto, forse dei primi anni ’40, il passeggio domenicale lungo la Via
Provinciale [oggi Via 8 settembre 1944] nel centro di Filo. La foto è stata
scattata da un terrazzo adiacente l’Osteria, poi Bar Centrale [oggi Bar Giada].
Nello scorcio di edificio più a sinistra il caseggiato Barabani con
l’abitazione di Ivo Vandini, seguono le «scuole vecchie» poi danneggiate dai
bombardamenti e quindi abbattute [oggi Casa del Popolo]. Oltre l’incrocio con
la Via Chiesa e la strada per Bando, la Cà dla Nuziadina.
Dei Tamba poi si
persero le tracce, nella loro villa si insediò un Comando tedesco, fino a che fu
bombardata e distrutta nell’aprile del ‘45. Terminati gli scontri fra eserciti
contrapposti, le armi tacquero e si contarono i morti, ai quali si diede
pietosa sepoltura.
Filo,
14 aprile 1945, giorno della Liberazione. Come si presentava la Via Chiesa:
dov’erano le scuole supplementari e Villa Tamba, si scorgono solo macerie
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In quei giorni
si dava però anche sfogo a vent’anni di repressione. La gente del paese, suo
malgrado, era abituata a vedere morti, scoprire cadaveri e fra questi macabri
rinvenimenti fu trovato, nel greto di un canale, il corpo, completamente
nudo, di uno dei protagonisti - così
si disse - dei fatti di villa Tamba[2].
Alla notizia del ritrovamento nessuno si meravigliò, ma quei fatti rimasero per
molti versi un enigma e mai si seppe chi li avesse autorizzati. Questo dà
l’idea di quanto poco contasse la vita.
Col tempo si
seppe che Tamba dirigeva una fazenda nella pampa argentina.
Dopo qualche
anno Tamba tornò a Filo, si stabilì in località Fiorana e trasformò la casa
colonica di sua proprietà in una casa di stile spagnolo, tanto era stato
influenzato dalla sua permanenza in Argentina.
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Passarono gli
anni ed io mi trasferii a Bologna dove facevo il taxista. Un giorno risposi ad
una chiamata telefonica e, recatomi all’indirizzo, mi trovai davanti il signor
Tamba. Strada facendo gli dissi di conoscerlo e di essere il figlio di quel Zavateñ che aveva conosciuto tanti anni
prima.
Arrivammo a
destinazione e scesi dall’auto per salutarlo e dalla sua espressione capii che
il nostro incontro gli aveva fatto piacere: abbozzò un sorriso come quando si
incontra un parente non rivisto per tanto tempo. Tamba disse che si ricordava
della nostra famiglia e di quando lavoravamo nella sua proprietà, chiese di mio
padre e si commosse a tal punto che le lacrime gli scendevano lungo il viso.
Mi raccontò
della sua odissea del dopoguerra, tanti particolari di accadimenti suoi e della
sua famiglia. Quell’uomo aveva bisogno di sfogarsi con una persona che lo
capisse e secondo lui io ero la persona giusta. Anch’io mi commossi
ascoltandolo e mi sentii orgoglioso nel constatare che queste confidenze mi venivano
fatte da un uomo che aveva una cultura ed una classe ben diversa dalla mia.
Il motivo per
cui ho raccontato e scritto questa storia è dato dal ricordo frequente di
quell’incontro e penso che il Signor Tamba non raccontasse a chiunque avesse
voglia o tempo di ascoltarlo, ciò che ha raccontato a me.
Guiélum Rosetti
Rosetti
Guglielmo, un personaggio che ha lasciato il segno nella mia generazione, era
un romagnolo di Ravenna, conosciuto in città col soprannome di famiglia, i Fabroñ, mentre nel mio paese, Filo,
tutti lo conoscevano come Guiélum ed
era il proprietario della grande Azienda denominata Campeggia, con sede nel fondo agricolo che ancora oggi porta quel
nome.
La proprietà era
di dimensioni enormi e confinava col il centro urbano di Filo. Guiélum dirigeva personalmente
l’Azienda, di questa una parte era a mezzadria e una parte a compartecipazione.
Ogni contadino aveva la disponibilità di un pozzo Norton per l’abbeveraggio
degli animali e per l’uso domestico. Io abitavo in un piccolo borgo, abitato da
dodici famiglie, e l’approvvigionamento dell’acqua distava tre chilometri.
Guiélum andava in giro con una bicicletta priva
di qualunque accessorio, vestiva con indumenti logori e rattoppati; durante
l’inverno calzava zoccoli, sempre infangati, e indossava una mantella
grigioverde di tipo militare: chi lo avesse incontrato senza conoscerlo avrebbe pensato che era un
poveraccio. Non so quale titolo di studio avesse, ma si sapeva che durante la Grande
Guerra era Colonnello di Cavalleria.
Tutti noi
vedemmo i primi trattori, le seminatrici meccaniche e quant’altro di moderno
sopravveniva a Filo, proprio nella Campeggia: Guiélum anticipava i tempi dello sviluppo agricolo di almeno dieci
anni. Lui non dava confidenza a nessuno, nel paese non aveva amici, ma so con
certezza che era un uomo generoso: ai braccianti con risorse limitate che
vivevano nei pressi dei suoi terreni non ha mai fatto mancare il necessario.
Un giorno il
Maresciallo dei Carabinieri lo fermò in malo modo chiedendogli i documenti,
dove abitasse e dove lavorasse, Guiélum
rispose che era il padrone della Campeggia, che era un Colonnello della
Cavalleria in pensione e gli snocciolò le generalità. Il Maresciallo,
visibilmente imbarazzato, si mise sull’attenti, un episodio, questo, che ebbe
come testimoni due operai che stavano facendo manutenzione in strada.
Mio padre
prendeva in affitto l’argine del fiume Reno, al limitare del fondo Campeggia, e
tutta la mia famiglia, durante i mesi estivi lo percorreva per la fienagione,
sicché conoscevamo bene Guiélum.
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Filo di Alfonsine, argini del Reno, anni ‘50.
Lavoratori impegnati nella fienagione
Un giorno la
storia della Campeggia e dell’Italia cambiò. La dichiarazione di guerra
travolse i bei propositi di Guiélum. Dopo
tre anni di guerra l’Italia, con qualche vittoria e molte sconfitte, tentò di
uscire dal massacro lasciando un Esercito allo sbando, ma l’armistizio dell’8
settembre del ‘43 non fermò lo scempio, lo peggiorò, consegnando la nazione a
Tedeschi e Fascisti che sterminarono parte della popolazione italiana.
Ai primi di
marzo del 1945 mi trovavo a Ravenna, già liberata; nella Piazza era stato
sistemato un cartellone con la planimetria dell’Emilia Romagna che veniva
aggiornato a seconda degli spostamenti del fronte. Un giorno mentre osservavo
il cartellone vidi Guiélum che stava facendo
la stessa cosa; mi avvicinai e gli dissi: «Come va signor Rosetti?».
Vidi dipingersi
il terrore sul suo volto: io ero vestito da partigiano ed in quel periodo
quella divisa creava tensione, soprattutto quando ci si avvicinava ad un
civile. In questo caso era anche un civile proprietario di grandi capitali. Non
lo lasciai riflettere ed aggiunsi che ero di Filo, figlio di Zavateñ, soprannome di mio padre, come
si usa nei nostri paesi.
Guiélum
mi chiese da quanto tempo mancassi dal paese e se avessi notizie dei
suoi contadini. Gli raccontai della fucilazione di dieci civili da parte
tedesca, nomi e cognomi, Guiélum li
conosceva tutti.
Si era fatta
l’ora di pranzo e Guiélum volle a
tutti i costi portarmi a casa sua. Abitava in una grande casa fuori città e la
raggiungemmo a bordo di un calesse trainato da un cavallo pezzato; la gente
osservava il nostro passaggio con stupore, non capivo se guardavano il cavallo
o la strana coppia che formavamo.
A me pareva
sussurrassero “un partigiano vicino ad un borghese, che strano!”. Giunti a casa
sua, non appena la famiglia seppe che ero di Filo, mi bersagliò di domande, ma
io non avevo le risposte che si attendevano. Ci mettemmo seduti a tavola dove
fu servito un brodo profumatissimo con tagliolini, mai gustato prima, né dopo.
Era una famiglia gioviale, tutti parlavano il dialetto, ed io mi sentivo a mio
agio. Quando finimmo il pranzo Guiélum
propose di portarmi in città con il calesse, e così fu.
Io ero
acquartierato alla Caserma di Cavalleria e, quando arrivammo, scese anche Guiélum che mi porse la mano e mi diede
cinquanta Lire. Mi disse di tenere quei soldi perché avrebbero potuto servirmi.
Fu l’ultima
volta che lo vidi.
Quando la guerra
terminò, nell’Azienda filese si dovette procedere alla bonifica delle mine e questa
lasciò una scia sanguinosa di morti, compresi donne e bambini: motivo per cui i
Rosetti vendettero la Campeggia. Nonostante lo sviluppo dell’agricoltura che ci
fu in seguito, per molto tempo si continuò a parlare in paese della loro
azienda come modello di riferimento e modernità.
(III
– continua)
[1] Si veda una più
completa ricostruzione dell’intera vicenda, del suo contesto e dei suoi lati
oscuri, basata sulle testimonianze ritenute più attendibili in questo stesso
blog: http://filese.blogspot.it/2014/02/filo-1944-leccidio-dei-dieci-ostaggi_11.html [Filo 1944 – L’eccidio dei dieci ostaggi...].
[2] Si trattava di Piovani
Virgilio, trovato morto il 26 maggio 1945.
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