Gli
«Amarcord» di un partigiano filese (II)
di
Giovanni Pulini
[Edizione
e Note a cura di Agide Vandini]
La
requisizione
Nelle case
allagate della valle, dove non mancavano i disagi, erano acquartierati
i distaccamenti di partigiani e fra le tante difficoltà c’era la carenza di
viveri, che non sempre coprivano le necessità.
Guerino, uomo di collegamento della Brigata[1],
fu informato un giorno che in una casa vicino al fiume Reno c’era un importante
deposito di alimentari. Il proprietario di questi beni praticava il mercato
nero nella zona ed era tristemente conosciuto dalla popolazione del luogo. Abitava
nel paese di Longastrino ed il deposito si trovava in una casa disabitata, mezzo
diroccata a causa di una bomba d’aereo.
Decidemmo di
fare un sopraluogo e notammo una porticina di ferro chiusa con un grosso
lucchetto. La sera stessa, assieme ad altri due partigiani che Guerino conosceva bene (ma che non avevo
mai visto prima), ci recammo sul posto e con un grosso palanchino aprimmo la
porta.
Una vecchia lattina d’olio d’oliva
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Accendemmo la
torcia e vedemmo tanto Bendidio: sacchi di pasta secca, latte di olio,
formaggi, farina ed una grande quantità di scatolette. Ricordo le etichette di
queste ultime con scritto “Conditutto” e “Ditta Colombani, Portomaggiore”, la
Casa che aveva evidentemente confezionato il prodotto.
Nei pressi c’erano
dei grandi cesti, quelli usati per
raccogliere l’uva; vicino alla concimaia trovammo una grossa carriola in
grado di portare i cesti, ben riempiti, nella golena del Reno, dentro ad un
capanno da caccia. Lavorammo quasi tutta la notte per trasportare tutto quel
che c’era, poi incendiammo la casa.
Dovevamo far
arrivare la merce nella valle dove erano acquartierati i nostri compagni. Non
avevamo barche per il trasporto e Guerino
si impegnò a recuperarle. Montammo di guardia giorno e notte con l’ordine
tassativo di non fare avvicinare nessuno al capanno: chiunque lo avesse fatto
doveva essere fermato e non dovevano esserci testimoni a tal proposito.
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Andò tutto bene.
Dopo due giorni arrivarono le barche lungo il fiume e portarono via tutto.
Fu un’azione
riuscita bene. Tutti noi fummo contenti di esserci liberati di una merce tanto
preziosa. Dopo una quindicina di giorni, Guerino
mi consegnò un paio di calze di lana ed un passamontagna, disse che li aveva
mandati il Comandante della base dove erano arrivate le provviste.
Era il Dicembre
1944 ed il comandante ci aveva mandato il pacco accompagnato da un biglietto con
gli auguri di tutto il distaccamento e tanti ringraziamenti per il ricevuto.
La fine della guerra
Ricordo bene
quando finì la sparatoria. Alcune persone dicevano che i partigiani si
comportavano con troppa violenza e grande accanimento verso gente che non aveva
colpe se non quella di avere avuto in tasca la tessera del Fascio. Vorrei chiedere
a costoro dov’erano quando le borgate e le piazze si riempivano di facinorosi
fascisti che terrorizzavano la popolazione ed in qualche caso lasciavano una
scia di corpi malconci, o senza vita, o donne violentate.
So bene che
c’era chi aveva la tessera del Fascio per avere un posto di lavoro, e poi c’era
chi aveva la tessera per non perdere il lavoro. So altrettanto bene che, finita
la tragedia della guerra, gruppi di malviventi, spacciandosi per partigiani,
entravano nelle case con le armi e intimavano alle famiglie di consegnare tutto
ciò che era monetizzabile. C’erano gruppi che assaltavano le Banche seminando
il terrore fra una popolazione disgustata. Si scoprì, quando furono
ripristinate le Forze dell’ordine, che non erano i partigiani che terrorizzavano,
ma vere e proprie bande di malviventi e
delinquenti: tutto fu chiarito.
Nella prima
settimana di libertà ci fu una specie di resa dei conti, non sempre giusta. Ci
fu in particolare una vendetta incruenta, seppure molto umiliante, credo, per chi
la subì; mi riferisco a quella che toccò alle donne che avevano avuto
rapporti con i Nazifascisti che furono sottoposte alla rasatura del capo,
pratica effettuata in tutta l’Europa, nei Paesi dov’era avvenuta l’occupazione
tedesca.
Su questo fatto
l’opinione pubblica si divise: da una parte si sosteneva la libertà di decidere
del proprio corpo e si condannava la pratica della rasatura, opinione sotto
questo aspetto comprensibile. Se invece si voleva vedere la cosa da un
altro punto di vista, ne usciva un’altra logica: il proclama del C.N.L. diceva
di combattere il nazifascismo in qualsiasi forma si manifestasse.
La popolazione
di Filo, del resto, in quel combattimento si era si impegnata molto. Non c’è neppure
bisogno di sottolinearlo: il paese aveva pagato fin troppo per onorare questo
impegno e lo spirito di sacrificio offerto da tanta gente non consisteva certo nell’offrire feste, né
tantomeno nell’offrire il proprio corpo ad Ufficiali che forse avevano
partecipato a rastrellamenti nelle Valli, dove la Resistenza operava con
conseguenze talvolta drammatiche.
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Alcune immagini dal film «Jovanka e le altre» (1960)
che, ambientato in Jugoslavia durante il conflitto, narra di cinque donne
sottoposte a rasatura punitiva per aver avuto rapporti col nemico tedesco. Nel
primo piano a sinistra, la bellissima
Silvana Mangano.
(II
– continua)
[1] Sulla importante
figura di Guerino si veda anche in: : http://filese.blogspot.it/2014/04/lui-il-dottore-lei-linfermiera.html il brano «La
prima missione nella Resistenza». Si tratta di Guerrino Bellagamba, della
famiglia longastrinese dei Capucì,
che all’epoca abitava nei pressi della Ciàvga
dla Gazàna (Chiavica della Gazzana) a poca distanza dal Ponte sul Reno di
Madonna Boschi.
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