Gli «Amarcord» di un partigiano filese (IV)
di Giovanni Pulini
[Edizione
e Note a cura di Agide Vandini]
Il mio ricordo di Mario Babini
Ero poco più di
un ragazzo quando un mio compagno, che come me aveva interrotto la scuola per
imparare dallo zio il mestiere di falegname, mi chiese di andare a trovarlo sul
luogo del lavoro. Lo zio, falegname già affermato, aveva un piccolo capannone,
vicino all’abitazione, utilizzato come laboratorio: il mio amico lavorava lì.
Nell’officina una radio sempre accesa veniva ascoltata da tutti, occasionali
frequentatori e amici dello zio. Un giorno ci andai e trovai il mio compagno con
lo zio che stavano lavorando su di un banco alla presenza di tre persone.
Queste stavano accanto ad una stufetta addossata alla parete; lungo il muro
c’erano alcune mensole e sopra di esse la radio accesa. Con una certa
animazione i presenti commentavano negativamente le notizie che stavano
ascoltando. Appresi proprio in quel luogo e in quella occasione le prime
lezioni di antifascismo; se ben ricordo correva l’anno 1939, ed erano i mesi in
cui la Germania occupava la Cecoslovacchia e minacciava la Polonia.
Gli argomenti di
discussione non mancavano ed io ascoltavo con grande attenzione: era un
linguaggio che mi appassionava. Si parlava della guerra di Spagna che stava per
concludersi lasciando una scia di morti tale da non potersi neppure
quantificare: era stata una guerra fratricida.
Ogni giorno,
quando gli impegni di lavoro mi lasciavano libero, mi recavo alla falegnameria:
mi piaceva l’ambiente ed ero anche ben accetto dai frequentatori abituali che a
volte mi ponevano alcune domande. Uno di loro mi chiese perché avessi
interrotto la scuola e quando gli spiegai che la mia famiglia necessitava del contributo
lavorativo, mi disse che non era giusto interrompere gli studi per necessità
contingenti.
Un giorno il
falegname, Giovanni Matulli, per i filesi Gianël,
mi chiese se avessi trovato giusto che soldati tedeschi, in Polonia,
intimassero armi alla mano a donne e bambini di lasciare le loro case asserendo
che loro erano i padroni.
Un giorno entrò
un signore che non avevo mai visto prima, le persone che stavano ascoltando la
radio si alzarono e gli andarono incontro per salutarlo, da questo capii che
doveva essere una persona importante, dopodiché, fatti i saluti di circostanza,
si mise a parlottare con Gianël.
Chiesi chi fosse quel signore: era Mario Babini, un radiotecnico che costruiva
radio per un negozio di Ravenna, mentre Matulli ne preparava il mobiletto
esterno. Ricordo che prima di uscire, avvicinandosi a noi ci chiese come fosse
la ricezione. Va ricordato che nel periodo fascista non era possibile ricevere
le stazioni trasmittenti estere a causa di uno schermo di disturbo che ne
rendeva difficoltoso l’ascolto. Babini
prese la radio dalla mensola e, con alcuni strumenti che aveva con sé in borsa,
si sintonizzò su Radio Londra. «Avrete più materiale di discussione!» disse
poi, andandosene.
Mario Babini
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Babini era un
romagnolo di Giovecca, ma avendo sposato una ragazza di Filo, viveva lì in
modo quasi permanente. Era un fondatore della cellula comunista di Filo ed
era un uomo di grande capacità organizzativa. In particolare ricordo che,
alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943, lo vidi seduto davanti alla
bottega del barbiere intento a leggere il giornale, mentre giungeva dai paesi
vicini un rumoroso corteo che inneggiava all’avvenimento. Lui disse: «Non
facciamoci illusioni, la Libertà, forse, è ancora lontana».
L’uomo, di
consolidata formazione politica, non smetteva mai di organizzare, attività
che era in tutta evidenza nella sua natura. Aveva un modo particolare di
esporre le sue ragioni e lasciava percepire con immediatezza la classe di un
comandante. Ricordo un incontro a casa degli suoceri, al quale anch’io
partecipai, che aveva come ordine del giorno il reclutamento di partigiani
combattenti.
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Sei dei
partecipanti si unirono alla Brigata che operava sulle colline tosco-emiliane
ed io, dopo qualche mese di latitanza, dopo che Babini fu barbaramente ucciso a
tradimento sulla porta di casa dei genitori, mi unii ad una formazione
partigiana operante nella Valle di Comacchio. Quella formazione era la 35°
brigata Garibaldi che poi prese proprio il nome di “35a Brigata Mario Babini”.
Antonio
Meluschi, il «Dottore»
“Il Dottore” era il nome di battaglia del
Comandante della 35° Brigata partigiana “Mario Babini”, Antonio Meluschi. Arrivò
nel tardo autunno al mio paese, Filo, e prese alloggio in una casa vicino alla
valle; con sé aveva la famiglia composta dalla moglie, Renata Viganò, e dal
figlio Agostino, un bimbo, di quattro o cinque anni, da tutti chiamato Bù. Nessuno poteva immaginare che questa
famiglia nascondesse la sua vera attività: Il
Dottore era il comandante della Brigata e l’infermiera Renata era il
Commissario Politico della stessa. Per la gente che lo vedeva ogni tanto e di
passaggio, erano semplicemente sfollati dalla città.
Antonio Meluschi
(Il Dottore)
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Il Dottore si distinse subito per la grande
bravura e ciò determinò l’ammirazione di tutti gli antifascisti del paese. Vorrei
dare la giusta memoria al personaggio, del quale a mio parere si è parlato
poco, inquadrando meglio questo Comandante così chiacchierato nel bene e nel
male. Meluschi era un uomo d’azione, con modi molto spicci e molto militari, e
come tale non apprezzato da tutti, specialmente dalla popolazione che non
amava le maniere forti.
Nel periodo
della mia clandestinità non ricordo di averlo mai visto, perciò mi limito al
racconto di episodi che ho saputo indirettamente. Lo conobbi soltanto a
guerra finita.
La zona valliva
da noi controllata era sulla rotta degli aerei che bombardavano l’Europa e
rientravano alle loro basi. Qualche aereo veniva colpito e l’equipaggio si
paracadutava nella nostra zona: questi aviatori erano stati informati che, in
caso di atterraggio o ammaraggio in quel territorio, i partigiani li
avrebbero raccolti e, in qualche modo, portati in salvo nelle loro retrovie.
Non era semplice. Il percorso veniva effettuato in acque non sempre calme, le
operazioni erano complesse ed io ero uno degli addetti a questo servizio.
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Nei primi mesi
del 1945 accadde un incidente. In una casa allagata cinque aviatori attendevano
il trasbordo, reso impossibile a causa del mare grosso e ciò li innervosì al
punto da disarmare due partigiani e di minacciarli chiedendo di essere
immediatamente imbarcati. Ne fu informato, non so come, Il Dottore che si precipitò sul posto accompagnato dal Luogotenente
Armando Montanari, detto “e’ Desk”, e
riuscirono, in qualche modo che non fu riferito, a dissuadere gli ammutinati.
Ho voluto
raccontare questo episodio poiché negli anni ’70 la RAI fece proprio un
servizio a tal proposito, “Uomini in guerra” nel quale furono intervistati
alcuni superstiti che riportarono il fatto.
Un altro
episodio che mi fu raccontato mette in risalto la forte personalità di
Meluschi.
Terminato il
conflitto, dopo aver seppellito i morti, bisognava fare i conti con la fame.
Chi possedeva una barca si dedicava alla pesca delle anguille nella Valle di
Comacchio, attività che sconfinava nell’illegalità in quanto le valli erano di
proprietà del Comune di Comacchio. Tuttavia, date le circostanze, vigeva ancora
in quei primi mesi di Libertà la legge dell’arrangiarsi. I possessori delle
barche, e io fra loro, erano quasi tutti ex combattenti, abituati ad infrangere
le leggi. La pesca rendeva bene, il pescato permetteva di dare il necessario
per la casa ed il rimanente veniva venduto.
Un giorno il locale
Comitato di Liberazione intervenne asserendo che la risorsa della pesca doveva
essere ripartita anche con coloro che non possedevano un’imbarcazione. Il
Comitato fece intervenire a tale proposito Il
Dottore. Questi convocò
immediatamente gli interessati dicendo loro che da quel giorno le regole le
avrebbe dettate lui: al mattino avremmo dovuto essere tutti a terra ad orario prestabilito,
mentre il pescato avremmo dovuto consegnarlo ad una persona da lui designata. Il
prezzo lo avrebbe stabilito lui stesso. Aggiunse infine che avrebbe predisposto
una ronda per fare rispettare tutte le regole. Il mattino successivo a terra ci
fu qualche mugugno, piccoli tafferugli, forti minacce, poi la questione si
normalizzò.
Nel paese si era
venuta a creare nel tempo una certa sudditanza verso questo personaggio. Il Dottore era stato un grande Comandante,
tuttavia la guerra era finita. Usava ancora modi militareschi, era un uomo
d’azione, ma la gente aveva bisogno di pace. Dovevano cessare i rancori, doveva
cessare l’istigazione all’odio e Il
Dottore da questo orecchio ci sentiva poco.
Ricordo che ci
fu un’assemblea nel palazzone di
Filo, non ne ricordo l’ordine del giorno, ma sicuramente si trattava di una
questione che riguardava il Comandante. Lui stesso era il relatore. Quando ebbe
terminato ci fu qualche intervento di disapprovazione. Senza aspettare che gli
interventi si esaurissero, Meluschi prese allora d’autorità la parola, bacchettò
i dissenzienti e disse di avere altri impegni, sicché bisognava chiudere alla
svelta l’assemblea. Il Segretario del Partito Comunista del paese, nella
persona di Guerriero Vandini, da tutti conosciuto come Ghéo, prese a quel punto la parola e disse al “Dottore”, senza girarci troppo attorno, che se aveva tanta fretta
poteva accomodarsi, indicando la porta d’uscita.
Da quella sera
Antonio Meluschi sparì dal paese e non ricordo di averlo mai più visto.
(IV – fine)
(IV – fine)
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