lunedì 29 dicembre 2014

Mario Babini ed Antonio Meluschi («Il Dottore»)



Gli «Amarcord» di un partigiano filese (IV)
di Giovanni Pulini
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]


Il mio ricordo di Mario Babini
Ero poco più di un ragazzo quando un mio compagno, che come me aveva interrotto la scuola per imparare dallo zio il mestiere di falegname, mi chiese di andare a trovarlo sul luogo del lavoro. Lo zio, falegname già affermato, aveva un piccolo capannone, vicino all’abitazione, utilizzato come laboratorio: il mio amico lavorava lì. Nell’officina una radio sempre accesa veniva ascoltata da tutti, occasionali frequentatori e amici dello zio. Un giorno ci andai e trovai il mio compagno con lo zio che stavano lavorando su di un banco alla presenza di tre persone. Queste stavano accanto ad una stufetta addossata alla parete; lungo il muro c’erano alcune mensole e sopra di esse la radio accesa. Con una certa animazione i presenti commentavano negativamente le notizie che stavano ascoltando. Appresi proprio in quel luogo e in quella occasione le prime lezioni di antifascismo; se ben ricordo correva l’anno 1939, ed erano i mesi in cui la Germania occupava la Cecoslovacchia e minacciava la Polonia.
Gli argomenti di discussione non mancavano ed io ascoltavo con grande attenzione: era un linguaggio che mi appassionava. Si parlava della guerra di Spagna che stava per concludersi lasciando una scia di morti tale da non potersi neppure quantificare: era stata una guerra fratricida.
Ogni giorno, quando gli impegni di lavoro mi lasciavano libero, mi recavo alla falegnameria: mi piaceva l’ambiente ed ero anche ben accetto dai frequentatori abituali che a volte mi ponevano alcune domande. Uno di loro mi chiese perché avessi interrotto la scuola e quando gli spiegai che la mia famiglia necessitava del contributo lavorativo, mi disse che non era giusto interrompere gli studi per necessità contingenti.
Un giorno il falegname, Giovanni Matulli, per i filesi Gianël, mi chiese se avessi trovato giusto che soldati tedeschi, in Polonia, intimassero armi alla mano a donne e bambini di lasciare le loro case asserendo che loro erano i padroni.
Un giorno entrò un signore che non avevo mai visto prima, le persone che stavano ascoltando la radio si alzarono e gli andarono incontro per salutarlo, da questo capii che doveva essere una persona importante, dopodiché, fatti i saluti di circostanza, si mise a parlottare con Gianël. Chiesi chi fosse quel signore: era Mario Babini, un radiotecnico che costruiva radio per un negozio di Ravenna, mentre Matulli ne preparava il mobiletto esterno. Ricordo che prima di uscire, avvicinandosi a noi ci chiese come fosse la ricezione. Va ricordato che nel periodo fascista non era possibile ricevere le stazioni trasmittenti estere a causa di uno schermo di disturbo che ne rendeva difficoltoso  l’ascolto. Babini prese la radio dalla mensola e, con alcuni strumenti che aveva con sé in borsa, si sintonizzò su Radio Londra. «Avrete più materiale di discussione!» disse poi, andandosene.

Mario Babini
Babini era un romagnolo di Giovecca, ma  avendo  sposato una ragazza di Filo, viveva lì in modo quasi permanente. Era un fondatore della cellula comunista di Filo ed era un uomo di grande capacità organizzativa. In particolare ricordo che, alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943, lo vidi seduto davanti alla bottega del barbiere intento a leggere il giornale, mentre giungeva dai paesi vicini un rumoroso corteo che inneggiava all’avvenimento. Lui disse: «Non facciamoci illusioni, la Libertà, forse, è ancora lontana».
L’uomo, di consolidata formazione politica, non smetteva mai di organizzare, attività che era in tutta evidenza nella sua natura. Aveva un modo particolare di esporre le sue ragioni e lasciava percepire con immediatezza la classe di un comandante. Ricordo un incontro a casa degli suoceri, al quale anch’io partecipai, che aveva come ordine del giorno il reclutamento di partigiani combattenti.
Sei dei partecipanti si unirono alla Brigata che operava sulle colline tosco-emiliane ed io, dopo qualche mese di latitanza, dopo che Babini fu barbaramente ucciso a tradimento sulla porta di casa dei genitori, mi unii ad una formazione partigiana operante nella Valle di Comacchio. Quella formazione era la 35° brigata Garibaldi che poi prese proprio il nome di “35a Brigata Mario Babini”.

Antonio Meluschi, il «Dottore»
Il Dottore” era il nome di battaglia del Comandante della 35° Brigata partigiana “Mario Babini”, Antonio Meluschi. Arrivò nel tardo autunno al mio paese, Filo, e prese alloggio in una casa vicino alla valle; con sé aveva la famiglia composta dalla moglie, Renata Viganò, e dal figlio Agostino, un bimbo, di quattro o cinque anni, da tutti chiamato . Nessuno poteva immaginare che questa famiglia nascondesse la sua vera attività: Il Dottore era il comandante della Brigata e l’infermiera Renata era il Commissario Politico della stessa. Per la gente che lo vedeva ogni tanto e di passaggio, erano semplicemente sfollati dalla città.

Antonio Meluschi 
(Il Dottore)
Il Dottore si distinse subito per la grande bravura e ciò determinò l’ammirazione di tutti gli antifascisti del paese. Vorrei dare la giusta memoria al personaggio, del quale a mio parere si è parlato poco, inquadrando meglio questo Comandante così chiacchierato nel bene e nel male. Meluschi era un uomo d’azione, con modi molto spicci e molto militari, e come tale non apprezzato da tutti, specialmente dalla popolazione che non amava le maniere forti.
Nel periodo della mia clandestinità non ricordo di averlo mai visto, perciò mi limito al racconto di episodi che ho saputo indirettamente. Lo conobbi soltanto a guerra finita.
La zona valliva da noi controllata era sulla rotta degli aerei che bombardavano l’Europa e rientravano alle loro basi. Qualche aereo veniva colpito e l’equipaggio si paracadutava nella nostra zona: questi aviatori erano stati informati che, in caso di atterraggio o ammaraggio in quel territorio, i partigiani li avrebbero raccolti e, in qualche modo, portati in salvo nelle loro retrovie. Non era semplice. Il percorso veniva effettuato in acque non sempre calme, le operazioni erano complesse ed io ero uno degli addetti a questo servizio.
Nei primi mesi del 1945 accadde un incidente. In una casa allagata cinque aviatori attendevano il trasbordo, reso impossibile a causa del mare grosso e ciò li innervosì al punto da disarmare due partigiani e di minacciarli chiedendo di essere immediatamente imbarcati. Ne fu informato, non so come, Il Dottore che si precipitò sul posto accompagnato dal Luogotenente Armando Montanari, detto “e’ Desk”, e riuscirono, in qualche modo che non fu riferito, a dissuadere gli ammutinati.
Ho voluto raccontare questo episodio poiché negli anni ’70 la RAI fece proprio un servizio a tal proposito, “Uomini in guerra” nel quale furono intervistati alcuni superstiti che riportarono il fatto.
Un altro episodio che mi fu raccontato mette in risalto la forte personalità di Meluschi.
Terminato il conflitto, dopo aver seppellito i morti, bisognava fare i conti con la fame. Chi possedeva una barca si dedicava alla pesca delle anguille nella Valle di Comacchio, attività che sconfinava nell’illegalità in quanto le valli erano di proprietà del Comune di Comacchio. Tuttavia, date le circostanze, vigeva ancora in quei primi mesi di Libertà la legge dell’arrangiarsi. I possessori delle barche, e io fra loro, erano quasi tutti ex combattenti, abituati ad infrangere le leggi. La pesca rendeva bene, il pescato permetteva di dare il necessario per la casa ed il rimanente veniva venduto.
Un giorno il locale Comitato di Liberazione intervenne asserendo che la risorsa della pesca doveva essere ripartita anche con coloro che non possedevano un’imbarcazione. Il Comitato fece intervenire a tale proposito Il Dottore. Questi convocò immediatamente gli interessati dicendo loro che da quel giorno le regole le avrebbe dettate lui: al mattino avremmo dovuto essere tutti a terra ad orario prestabilito, mentre il pescato avremmo dovuto consegnarlo ad una persona da lui designata. Il prezzo lo avrebbe stabilito lui stesso. Aggiunse infine che avrebbe predisposto una ronda per fare rispettare tutte le regole. Il mattino successivo a terra ci fu qualche mugugno, piccoli tafferugli, forti minacce, poi la questione si normalizzò.
Nel paese si era venuta a creare nel tempo una certa sudditanza verso questo personaggio. Il Dottore era stato un grande Comandante, tuttavia la guerra era finita. Usava ancora modi militareschi, era un uomo d’azione, ma la gente aveva bisogno di pace. Dovevano cessare i rancori, doveva cessare l’istigazione all’odio e Il Dottore da questo orecchio ci sentiva poco.
Ricordo che ci fu un’assemblea nel palazzone di Filo, non ne ricordo l’ordine del giorno, ma sicuramente si trattava di una questione che riguardava il Comandante. Lui stesso era il relatore. Quando ebbe terminato ci fu qualche intervento di disapprovazione. Senza aspettare che gli interventi si esaurissero, Meluschi prese allora d’autorità la parola, bacchettò i dissenzienti e disse di avere altri impegni, sicché bisognava chiudere alla svelta l’assemblea. Il Segretario del Partito Comunista del paese, nella persona di Guerriero Vandini, da tutti conosciuto come Ghéo, prese a quel punto la parola e disse al “Dottore”, senza girarci troppo attorno, che se aveva tanta fretta poteva accomodarsi, indicando la porta d’uscita.
Da quella sera Antonio Meluschi sparì dal paese e non ricordo di averlo mai più visto. 

                                                                                                                     (IV – fine)

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