65 anni fa la
morte della bracciante filese
di Agide
Vandini
Maria Margotti (1915-1949) in una foto giovanile del 1934 |
Siamo in
prossimità del 17 maggio, 65mo anniversario della morte della nostra Maria
Margotti, qui ricordata nel 2009 con
un articolo dal titolo «In memoria della nostra Maria»[1]. Cinque
anni dopo, credo di far cosa gradita ai lettori dell’«Irôla» pubblicando, in
ricordo della bracciante filese, una folta documentazione composta da
articoli e fotografie in massima parte inedita. Molto
materiale importante mi è stato messo a disposizione dal nipote Renato
Margotti, figlio di Alberto detto Cinòñ,
ossia del fratello di Maria. In particolare egli mi ha fornito un giornalino
dell’epoca, gelosamente conservato, un numero speciale interamente dedicato
al tragico evento ed al suo contesto che ho integralmente trascritto, aggiungendo
altri reperti e documenti raccolti in questi anni. A margine
Renato mi ha peraltro raccontato che il 17 maggio è, da sempre, una data
particolare nella sua famiglia, ove ricorrono eventi positivi e negativi. In
quel giorno fatidico era nato infatti suo padre Alberto nel 1911 e nacque poi
suo figlio Gabriele nel 1971. |
Quasi per un
capriccio del destino dunque, la sfortunata Maria fu colpita a morte nei pressi
del remoto Ponte Stoppino, nel giorno del compleanno del fratello e molti anni
dopo, il figlio del nipote Renato, nonostante ogni auspicio della madre in
travaglio di evitare la singolare coincidenza, finì per nascere proprio in
quello stesso giorno e mese. Stranezze e singolarità di una morte, quella di
Maria Margotti, che, per le circostanze che la determinarono (come si leggerà
più oltre), lascia ancora interdetti e turbati a tanti anni di distanza.
Di quel giorno
abbiamo sentito per anni ricordi di botte, di inseguimenti degli scioperanti da
parte delle forze di polizia in motocicletta fin dentro le campagne e fra i
frutteti, di un «si salvi chi può» che determinò sconcerto, confusione, vicende
dai tratti a volte grotteschi come quelle del racconto, tratto dal mio ultimo
libro pubblicato, che riporto in Appendice. Mio padre Guerriero, quel giorno
fra i manifestanti, prese parecchie manganellate prima di riuscire a defluire
verso la strada di casa. Non sapeva che sul luogo fosse presente anche mia
madre dopo che lui le aveva sconsigliato di partecipare. Ne fu orgoglioso al
ritorno, ma anche turbato e poi sollevato al pensiero di quel che le sarebbe
potuto capitare.
Oggi Maria, proprio
come recita la toccante scritta apposta sul cippo monumentale, è davvero
rimasta «nel cuore di milioni di donne». Il suo sacrificio, la morte di una giovane
vedova, di una madre di due bambine, di una bracciante in lotta per
l’emancipazione degli oppressi, è ancora ricordato con un misto di rabbia e
cordoglio, a tanti anni da quella tragica e imperdonabile morte.
« Se non ci conoscete, guardateci negli
occhi, Noi siamo le compagne, della
Maria Margotti…»[2] Il
suo nome, legato indissolubilmente alle dure lotte dei lavoratori e delle
lavoratrici del secondo dopoguerra, così come alle indicibili sofferenze
sopportate dal bracciantato agrario per ottenere dignità e diritti, risuona
tuttora nei canti di chi, dalle Alpi alla Sicilia, porta e porterà sempre nel
cuore il ricordo e i valori di solidarietà per i quali Maria si recò con le
compagne in quello stradone verso Molinella e vi morì.
I filesi e le
filesi, i paesani della Margotti, sessantacinque anni dopo ne ricordano ancora
con forte emozione ed intenso dolore il sacrificio; con immutata fierezza ne onorano la memoria, ne gridano ancora alto
e forte il nome, ormai divenuto - qui e altrove - simbolo del coraggio, dello
spirito di sacrificio e della capacità di lotta delle nostre donne; donne da
amare e rispettare; donne combattive a cui non si può che riservare gratitudine
e riconoscenza; donne forti, tenaci e generose come la nostra terra, dura ma feconda:
zolle oggi rigogliose, strappate palmo a palmo alle paludi con fatica e sudore e,
infine, conquistate, difese col duro lavoro e con lotte coraggiose in cui si è
dovuto versare il sangue della nostra
Maria per poterne un giorno godere, con equità e dignità, i frutti preziosi.
°°°
9 Ottobre
1949 - «La Voce di Molinella», un numero speciale per l’inaugurazione del Cippo
A fianco, recto e verso de’ «La Voce di Molinella», uscito il 9 ottobre del 1949, giorno dell’inaugurazione del cippo di
Ponte Stoppino in comune di Molinella, un numero interamente dedicato alla
tragica morte della bracciante filese Maria Margotti avvenuta pochi mesi
prima in quel luogo. Dal prezioso documento ho estrapolato
immagini e testi integralmente trascritti a beneficio dei lettori. (Dono di Renato
Margotti) |
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Come una pietra miliare
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Giorno 17 maggio: i braccianti erano
in isciopero. Gli agrari convinti che questa sarebbe stata la «volta buona»,
rifiutando espressamente ogni trattativa, li avevano obbligati a scendere sul
terreno della lotta. E i braccianti, consci della giustezza della loro causa,
avevano accettato di combattere. Agli agrari bruciava l’umiliazione di essere
costretti a trattare da pari a pari coi lavoratori; temevano la loro forte
organizzazione, domani, via via che i lavoratori, attraverso una serie di
realizzazioni e di conquiste, avessero acquistato una sempre maggiore
coscienza delle proprie possibilità e delle proprie forze, e dato al Paese
quell’impulso sociale di cui ha bisogno. Gli agrari contavano sulle loro enormi
ricchezze, sulla complicità del governo, sull’aiuto delle forze di polizia,
sul tradimento di alcuni scellerati che una volta avevano avuto posti di
direzione in seno alle organizzazioni operaie, sul favore sfacciato di una
stampa abile nella diffamazione e nel travisamento. Pensavano anche che alla
lunga i lavoratori avrebbero ceduto per fame. Gli operai erano animati da una
salda e pugnace coscienza di classe. Avevano sempre dinanzi agli occhi il
quadro dei loro compagni bastonati ed uccisi durante il fascismo; non avevano
dimenticato le loro organizzazioni disciolte e soppresse; le loro sedi
devastate e incendiate; i loro beni, frutto di lungo lavoro, asportati e
involati. |
E sapevano bene che gli autori di questi
crimini erano quegli stessi che si ripresentavano oggi contro di loro. I
lavoratori conoscevano dunque la posta del gioco, ma con quella serietà, quella
coscienza che sono le caratteristiche di una classe che è destinata a dirigere,
accettarono la lotta. Da quel momento era già scontato che l’agrario ne sarebbe
uscito col muso rotto e le ossa pestate. Contro i braccianti era il capitale,
il governo, la stampa reazionaria, la polizia, la giustizia, tutto l’apparato
statale, infine, ma essi sapevano pure che non erano più i tempi del 1921, che
oggi c’era qualcosa di nuovo in fatto di efficienza politica e organizzativa e
che, uniti, in nome della libertà e della giustizia, avrebbero potuto
affrontare e vincere qualunque battaglia.
Per
questo la mattina del 17 maggio migliaia di lavoratori lasciavano il
loro paese per recarsi a Molinella, dove alcuni scellerati venduti agli agrari
erano riusciti a reclutare alcune decine di crumiri e ad organizzarli contro la
grande Camera del Lavoro. Fra questi lavoratori era Maria Margotti, venuta da
Filo a portare anch’essa la sua
solidarietà, il suo incitamento, la sua fede ai compagni lavoratori di
Molinella. Contro di essa innocente, inerme, levò la mano armata un
carabiniere, invano additato alla giustizia da più di dieci testimoni oculari,
colpevole di assassinio. Crepitarono alcuni colpi, Maria Margotti si abbatté al
suolo.
Ed oggi un cippo sorge là dove si compì
il sacrificio supremo. Sorge come una pietra miliare sul lungo aspro cammino di
una via che vide tante e tante battaglie, talora perdute, più spesso vinte, ma
sempre eroicamente combattute dal glorioso proletariato. Esso segna una tappa
conclusasi con una delle più grandi, forse la più grande vittoria degli uomini
dei campi. Onore ai lavoratori che lottano per un ideale di libertà e di
giustizia.
Gloria a Maria Margotti che per questo
ideale immolò la sua vita.
Fotocomposizione
in ricordo di Maria Margotti |
Ascolta
viandante Attutiti dalla lontananza i rumori
della vita. Presso il declivio erboso, sulla sponda di un canale silenzioso,
emergendo dal fiume della nebbia un cippo bianco sorge improvviso davanti al
passeggero. Freddo è il marmo che sullo sconfinato
squallore della valle stilla umidore di lacrime. Ferma il passo, viandante, e ascolta. La valle non è muta. Nella precoce
sera greve di tristezza, udrai ciò che la valle dice al cuore degli uomini. |
La sua voce sale dalla terra feconda che
conosce la dura lotta delle mani tenaci dell’uomo; Scivola fra i canneti sorti
sulle ossa dei morti, si espande per gli stagni alimentati dal pianto. E’ una
voce ampia come l’orizzonte e pur leggera come un sospiro; cantante come gli
stornelli della sua gente ma forte più dell’uragano.
Ascolta, viandante, ascolta. Secoli e
secoli ti parlano, e i morti sono tutti in piedi. Levano le braccia chiedendo
ai vivi che sia resa giustizia a Lei, all’ultima vittima innocente, perché il
loro sonno eterno sia tranquillo, e chiedono pure ai vivi che alimentata sia la
luce della fede che ne coroni il martirio.
Ascolta, viandante, ascolta. Non è
l’acqua che ciangotta; sono singhiozzi di madri strappate ai loro figli. Non è
fruscio di canne; è lamento di creature che furono vive e che la valle ha inghiottito.
Toccalo, toccalo pure questo cippo; non
sono stille di nebbia; sono lacrime che hanno il sapore acre d’un tormento
senza pace. Sono le Sue lacrime per le sue due bimbe sole; sono le lacrime di
tutti i morti della valle che piangono attraverso i Suoi occhi spenti.
Oltre il confine degli argini, tu
uscirai dal fiume della nebbia, tu ritroverai la tua strada e la tua casa. Ma
non dimenticare quello che i caduti ti hanno chiesto: alimenta la fiaccola
della tua fede perché i morti dormano il loro sonno di pace.
Nel nome di Maria Margotti l'unità di tutti i
lavoratori
Sei giorni prima dell’uccisione di Maria
Margotti, la sera dell’11 maggio 1948, nel corso d’una riunione del Consiglio
delle Leghe, i rappresentanti della corrente «per la classe lavoratrice»
dichiararono che si sarebbero staccati dalla C.G.I.L. Indubbiamente i dirigenti
politici del PSDI avevano architettato
dietro le quinte questa scissione, nell’intento di rompere l’organizzazione
sindacale unitaria, alla vigilia dello sciopero generale dei braccianti.
Confidarono nella sorpresa per compiere
questo loro tentativo, che avevano in animo da alcuni anni che tornava a tutto
beneficio dell’azione padronale.
Tutto ciò naturalmente avveniva
all’insaputa degli stessi lavoratori saragattiani, che in gran parte rimasero perplessi.
Attorno all’organizzazione sindacale unitaria si raccolse il consenso di tutti
quelli che capivano il significato di una rottura in seno alla classe lavoratrice.
Fu in questo clima di provocazione che a
Molinella la agitazione nazionale dei braccianti stava per entrare nella sua
fase di sciopero generale. Immediatamente si resero «evidenti le vere ragioni
della scissione sindacale, quando infatti l’organizzazione scissionista che per
l’occasione e per motivi tattici si faceva chiamare autonoma, dichiarò di
essere contraria allo sciopero, e quel che più conta organizzò d’accordo con
gli agrari, un collocamento di parte per eseguire i lavori nelle colture dei
terreni condotti in economia, soggetti allo sciopero; la parola d’ordine
lanciata dai saragattiani era la seguente: «Chi vuole lavorare deve tesserarsi
al sindacato cosiddetto autonomo».
Se consideriamo che su oltre quattromila
braccianti solo un centinaio o poco più rispose alla chiamate dei capi crumiri,
è evidente che la coscienza di classe e l’attaccamento all’organizzazione
unitaria prevalsero nei braccianti di Molinella. Quando i dirigenti
scissionisti chiamarono la celere e fecero bastonare gli scioperanti, la
situazione che fino allora era stata improntata dall’opera di chiarimento nei
confronti dei crumiri, degenerò nell’intervento cruento della forza pubblica.
Alle 8 del mattino del 17 maggio nessun
crumiro era più al lavoro e tutto si sarebbe definitivamente accomodato, quando
ebbe inizio la fase di repressione poliziesca.
Mentre le migliaia e migliaia di
lavoratori e lavoratrici che in segno di solidarietà erano affluiti nel
territorio di Molinella, stavano ritornando a casa, incominciarono, con maggior
violenza le cariche e le bastonature da parte della celere.
Verso mezzogiorno a Ponte Stoppino, una
strada che porta alle tenute agricole più importanti del comune, da una raffica
di mitra veniva uccisa una lavoratrice di Filo d’Argenta, Maria Margotti, una
giovane madre, una vedova con due bambine, la quale insieme ad alcune altre
mondine come lei, stavano ritornandosene lungo l’argine che costeggia la
strada, a casa loro.
Quell’atto infame, causò la indignazione
delle masse lavoratrici e costrinse i dirigenti scissionisti a rimangiarsi
tutte le precedenti affermazioni di ostilità allo sciopero.
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In
occasione dell’inaugurazione del Cippo di Maria Margotti, oggi alle ore 15,
nella Piazza di Molinella, ELVIRA PAIETTA parlerà alla popolazione
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Nel nome del sacrificio di Maria
Margotti si ristabilì l’unità di tutti i braccianti nell’azione comune e gli
agrari non furono più in grado di organizzare il crumiraggio.
Ci fu il tentativo di ostacolare il
lavoro di monda, per poter sabotare la produzione del riso e darne poi la colpa
ai lavoratori, ma anche questa manovra fallì e le ore di lavoro effettuate
dalle nostre mondine stanno a testimoniare che la volontà di vittoria dei
braccianti avrebbe finito con il trionfare in qualsiasi modo.
Si giunse così al termine del vittorioso
sciopero bracciantile e in un clima di lotta unitaria, a cui aveva contribuito
il sacrificio di Maria Margotti, e la dura esperienza vissuta dai lavoratori.
Sono ancora una volta ì fatti e le cifre
a dimostrare che il sentimento di solidarietà che vige fra i lavoratori è più
forte delle manovre che gli autori della scissione e dell’autonomismo avevano
mosso dall’alto.
Oggi rispetto ai 2957 voti ottenuti
dalle correnti unitarie, vi sono 3354 organizzati alla C.d.L. con un aumento di
317 unità pari al 7,5 per cento in più. Oggi una esigua minoranza, malcontenta
di sé e del proprio operato è rimasta nel sindacato autonomo.
Costoro hanno oggi la consapevolezza di
avere sbagliato e di essere stati nelle mani di un furbo parolaio, strumenti
dell’agraria per la realizzazione di suoi fini. Non è lontano il giorno in cui
costoro scenderanno di nuovo al braccio degli altri braccianti, ristabilendo
definitivamente l’unità d’organizzazione.
Cosi è stato nel passato, così sarà per
l’avvenire, ce lo dice la storia del movimento operaio, e dalla storia del
movimento operaio noi abbiamo ancora molto da imparare. Sarà questa la più
bella vittoria di Maria Margotti.
Antonia Taglioni, madre di Maria Margotti |
A 5 mesi dal delitto - Attendono giustizia Antonia Taglioni, la mamma di Maria
Margotti e le figlie Giuseppina ed Alberta attendono da quasi cinque mesi che
sia loro resa giustizia. L’istruttoria per l’uccisione di Maria Margotti è
stata affidata al giudice Troilo del Tribunale di Bologna ed ancora non è
stata ultimata. Ognuno ricorderà come le prime indagini fossero affidate al
cap. Lugli, comandante della stazione dei CC. di Molinella, nonostante che
tutte le testimonianze concordassero nell’attribuire ad un suo subalterno
diretto la responsabilità dell’assassinio. Diciotto dei 22 lavoratori
rastrellati dallo stesso capitano Lugli nella sera del 17 e nella giornata
del 18 maggio, furono rilasciati dopo 7 giorni, mentre gli altri 4 vennero
trattenuti in arresto per due mesi, al cui termine furono essi pure
rilasciati. Benché un gruppo di operai che lavorava alla ricostruzione del ponte
Stoppino, a pochi passi dal luogo dove fu uccisa Maria Margotti, nella loro
deposizione siano stati concordi nel confermare le responsabilità del
carabiniere, non ci risulta che costui abbia patito un sol giorno di carcere.
L’onorevole Tarozzi ha già consegnato al giudice istruttore i bossoli che due
lavoratori trovarono nella stessa posizione dove sparò il carabiniere
motociclista. |
Dal canto suo il giudice ha ordinato tre
perizie: una balistica, una topografica e quella necroscopica. Vogliamo sperare
che fra breve giustizia sarà resa alla mamma e alle figlie di Maria Margotti e
a tutti i cittadini democratici che la reclamano: si dimostrerà insieme che
l’assassinio di Maria Margotti non rientra in un sistema di repressione
poliziesca.
Una mondina della nostra bassa
(corposo testo
di Renata Viganò già presente nel blog in: «In memoria della nostra Maria». Si
veda al link: http://filese.blogspot.it/2009/05/in-memoria-della-nostra-maria_07.html )
Casa di Maria Margotti
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Il defunto
marito di Maria Margotti
Il dolore delle
compagne di Maria Margotti
|
Alberta e Giuseppina, le figlie di Maria Margotti |
Alberta e Giuseppina non sono rimaste sole
A due chilometri circa da Filo
d’Argenta, tra un gruppetto dì case, si trova la vecchia e grigia abitazione
di Maria Margotti. In questa casa la triste sera del 17
maggio le due figlie, Giuseppina e Alberta, e la madre Antonia, attesero
invano il ritorno di Maria Margotti. Dal 1943, anno in cui il padre delle
due piccole morì, Maria aveva lavorato ogni giorno di più, per tirare avanti,
perché le sue bimbe crescessero sane. Alla sua tragica morte, tutti i lavoratori
si sono stretti attorno alle figlie di Maria e ad esse hanno manifestato la
loro solidarietà, ben sapendo che così facendo avrebbero soddisfatto gli
ultimi desideri della madre, se la raffica assassina le avesse lasciato il
tempo di esprimerli. |
L’espressione di questa solidarietà è
giunta alle due piccole da ogni parte d’Italia. Filo d’Argenta è rimasto in
prima linea. Tutti a Filo vogliono bene alle piccole figlie di Maria e la più
grandicella, lavora già da sartina. Quelli del collettivo agricolo hanno
corrisposto alle figlie, la parte di guadagno per il raccolto di cereali che
avrebbe percepito la madre. «Se non l’avessero uccisa sarebbe stata con noi al
taglio, quindi prendete, questa è la sua parte» Così hanno detto i lavoratori i
Filo con l’unico rammarico i non potere dare di più.
E così hanno fatto quelli della
Cooperativa Fornaciai dove la Margotti, subito dopo la Liberazione, entrò a
lavorare occupando il posto che fu un tempo del marito.
Fino al termine del 1949 continueranno a
corrispondere la quindicina, come se Maria fosse ancora al lavoro fra i suoi
compagni. Le donne dell’U.D.I. di Pesaro hanno ospitate le figlie di Maria per
un mese al mare di Fano e un mese sui colli di Urbino.
Le province di Genova, Ferrara, Bologna,
e gruppi di lavoratori isolati, l’Unità di Milano, i lavoratori d’ogni partito
hanno voluto esprimere la loro solidarietà versando somme di denaro che poi
sono state consegnate alle due bambine. Così si adoprarono tutti i lavoratori
in quei giorni che seguirono quelle tristi e memorabili giornate di dolore e di
lutto, di sofferenze, ma anche di vittoria.
Il pianto di
Giuseppina, figlia di Maria Margotti |
Uccisa da una raffica d’odio
Da Filo di’Argenta, un piccolo paese
disperso nella « bassa » ferrarese, Maria Margotti partì insieme ad altri
lavoratori, la mattina del 17 maggio, in bicicletta verso Molinella. Indossava un vestito scuro, di
cotonina. I capelli erano raccolti nel bianco fazzoletto delle mondine. Lungo
la strada cantava le vecchie e nuove « Cante » della risaia, tramandate di
madre in figlia, o nate dalle più recenti lotte per la libertà e il lavoro. La meta era Molinella, dove gli
agrari, accordatisi con alcuni dirigenti saragattiani, avevano inviato nei
campi un certo numero di crumiri. |
Ma a Molinella nuclei di polizia,
colonne di carabinieri « caricavano » i lavoratori che cercavano di avvicinare
i crumiri, sparando all’impazzata raffiche di mitra, colpendo i braccianti coi
calci dei mitra e coi caricatori, fracassando le loro biciclette con brutalità.
Un carabiniere motociclista, sulla
strada di Marmorta, sorpassato il paese, nella tenuta Lenzi, aveva sparato su
un gruppo di lavoratori, ferendo una vecchia di 62 anni.
Più avanti, in vista di Ponte Stoppino
il battistrada dei carabinieri comandati dal cap. Lugli, s’incontrò con i
lavoratori della zona di Argenta. Alle minacce del mitra, giostrato
dall’agente, essi si sparsero ai lati della strada, attraverso i campi.
Maria Margotti nello stesso istante,
assieme ad una decina di mondine e di braccianti, attraversò la passerella che
sostituisce il ponte in via di .ricostruzione e giunse sull’argine opposto.
La Margotti, cercò allora di ritornare
sui suoi passi, riattraversando di corsa la passerella per risalire l'argine e
ritornare sulla strada che porta ad Argenta. Ma il motociclista, giunto sul
ciglio della strada fece partire una raffica di 2-3 colpi in direzione del
gruppo dei braccianti. Si udì un urlo: « Oh, mamma, muoio! ». Maria Margotti
cadeva a terra mentre un rivolo di sangue le usciva dall’angolo della bocca. I
compagni le sono attorno, la sollevano per portarla dietro l’argine, al sicuro.
I lavoratori addetti ai lavori di ricostruzione del nuovo ponte assistono
sbigottiti alla scena. Più tardi, mentre viene condotta all’ospedale di
Molinella, Maria Margotti esala l’ultimo respiro all’età di 34 anni.
Altri
documenti ed immagini
Anno 1915. Dal Libro dei Battesimi della Chiesa di Filo |
La carta d’identità di Maria Margotti (tratta da * Le donne, le lotte, la memoria, Ferrara,
Globo, 1999, p. 134)
|
Anno scolastico 1922/23. Scuola di Chiavica di Legno.
Maria Margotti alunna di 2° elementare (2° a sinistra nella seconda fila)
(tratta da * Le
donne, le lotte, la memoria, Ferrara, Globo, 1999, p. 133)
|
|
Anno 1935. Il matrimonio di Maria (Archivio
Parrocchiale della chiesa di Filo)
Funerali a Molinella 21.5.1949.
Foto tratta da L.
Ricci Maccarini, Il palazzone,Argenta,
Offset, 1983, p.118.
La
morte di Maria Margotti nelle opere del maestro Angelo Biancini
Trascrivo
qui, per l’occasione, quanto già pubblicato in questo stesso blog, cinque anni
fa, il 26 ottobre del 2009 (si veda il
contesto e la biografia del grande scultore romagnolo al link: http://filese.blogspot.it/2009/10/le-opere-filesi-del-maestro-angelo.html ).
|
[…] ispirate
e toccanti appaiono le sculture dedicate alla tragica fine di Maria Margotti,
caduta il 17 maggio 1949, a 34 anni, madre, bracciante e mondina filese,
durante gli scioperi bracciantili del dopoguerra, alla quale dedicò un’opera
molto bella anche Renato Guttuso e della cui vicenda ho scritto alcune pagine
commemorative pochi mesi fa, celebrando il 60° anniversario di quei fatti (in
questo blog 7.5.2009: In memoria della
nostra Maria, 1949-2009: 60 anni fa
cadeva Maria Margotti, di Agide Vandini ). All’evento
così doloroso che emozionò tutta l’Italia, Angelo Biancini dedicò un busto in
bronzo dedicato alla figura della nostra mondina ed un trittico in gesso
raffigurante alcune donne piangenti, opere donate dal maestro alla locale
Coop. Agricola Braccianti che oggi ne è custode. Il busto è
accuratamente custodito negli uffici dell’azienda, l’opera in gesso è stata
invece, ahimè, piuttosto abbandonata e trascurata in questi anni e non ha mai
trovato degna ed adeguata collocazione, stando a quanto mi ha segnalato […]
Vanni Geminiani a cui debbo la preziosa fotografia. Si tratta di
sculture […] che, dato il loro rilievo sociale e storico, sarebbe il caso di
collocare in edificio pubblico, in
luogo cioè alla portata dei visitatori tutti, ovviamente a Filo e non
altrove. Sarebbe il modo migliore per valorizzarle ed onorarle come
meritano[…] |
°°°
Testa bassa e pedalare...
Drì la furtóna u j vô e’ curag...[3]
Un personaggio curioso, una storia che,
nella seconda parte, ci racconta di quel giorno a Ponte Stoppino…
In pochi davvero, qui in paese, ricordano la lontana storia di Armando d’e’ Cucòñ[4],
una storia curiosa che risale ai primi decenni del Novecento, ai tempi eroici
dello sport della bicicletta, mezzo di locomozione che proprio in quegli anni
cominciava a diffondersi fra i ceti popolari.
Come sarebbe avvenuto più tardi per la moto e per l’automobile, anche
la bicicletta esercitò, per un certo periodo, un fascino assoluto sui nostri
giovani. Agli esordi, quando ancora veniva chiamata «velocipede», la bici era
vista come una macchinetta un po’ insulsa e pericolosa a disposizione di pochi
privilegiati più o meno svitati, ma agli inizi del secolo già se ne subiva
l’attrazione fatale, un fascino che crebbe man mano che il mezzo divenne più
affidabile, di utilità pratica e di costo alla portata di una famiglia che se
la passasse discretamente[5].
La gente comune, per comprarsi una bicicletta, doveva fare sacrifici
enormi, tanto che ci fu chi, per acquistarsela, andò a lavorare persino nelle
colonie per un paio d’anni. Il nuovo mezzo dimostrò la sua importanza sociale
per l’uso che ne veniva fatto. Poteva essere utilizzato per recarsi al lavoro,
al mercato, per passeggiate nei paesi vicini in comitiva. Naturalmente era oggetto
di desiderio da parte di bambini e ragazzi che sognavano notte e giorno di
averne uno, sia pure sgangherato, per provare l’emozione di «andarci» e
lanciarsi a gran velocità.
Armando de’ Cucòñ [6], che era nato a cavallo del
secolo, fu, secondo le memorie che si tramandano in paese, il primo, in queste
terre assolate di bonifica poste fra il Reno e le valli di Comacchio,
attraversate in lungo ed in largo da interminabili stradoni polverosi, a subire
il fascino delle corse ciclistiche che negli anni ’20 del Novecento già si
disputavano in Romagna.
Erano gare che avevano un
notevole seguito di appassionati e fra questi
soprattutto giovani virgulti come Armando,
ansiosi di divenirne protagonisti, e che poi, presa la decisione di darsi alle
corse, faticavano sui campi per l’intera settimana senza allenamento alcuno,
per scapicollarsi, nei giorni festivi, verso la partenza di queste corse in
linea.
Le competizioni richiamavano, all’epoca, molta partecipazione di
pubblico e, particolare non trascurabile, avevano in palio premi, in denaro o
in natura, piuttosto sostanziosi.
Fatte queste premesse, va detto subito che Armando univa alla passione notevoli mezzi atletici, risorse che lo
portarono a qualche buon risultato, ma l’impresa sportiva più clamorosa, quella
che gli consentì di farsi conoscere nell’ambiente delle corse e di essere
raccontato ai posteri, avvenne in circostanze molto curiose.
La compì quasi agli esordi come corridore, allorquando, in una corsa
che si disputava nel cuore della Romagna, gli riuscì, fra la sorpresa generale,
una vittoriosa fuga solitaria.
La fuga fu certamente agevolata dalla sua poca notorietà e, quindi,
dalla poca considerazione di cui godeva
da parte degli altri corridori. Quando fu visto abbassare per la prima volta la
testa sul manubrio e spingere con veemenza sui pedali, fu in pratica lasciato
andare al suo destino, accompagnato da
qualche commento sarcastico.
Mancavano, del resto, parecchi chilometri all’arrivo della corsa ed una
fuga come quella di Armando era,
nell’opinione generale, ritenuta senza speranza.
Fra le prime fila del gruppo,
che in quel momento si trascinava stancamente prima della fase cruciale della
corsa, si mormorò: «Lasciamo pure che
vada, tanto, dove vuoi mai che corra quello lì… Fra un paio di chilometri si
sgonfierà come una piva e lo acchiapperemo come un pollastro nella stia…»
Furono queste, però, previsioni avventate, anche perché il destino ci
mise lo zampino, e fu un grosso zampino dalle fattezze di una sbuffante
locomotiva che avanzava lungo la pianura e che trascinava lentamente dietro di
sé una lunga ed interminabile processione di vagoni. Ecco come andò.
Armando de’ Cucòñ, che poi tanto piano non
doveva pedalare, aveva preso vantaggio, quel tanto che gli permettesse di
tenere lontano dalla propria visuale il gruppo guidato dai gregari dei
corridori più accreditati.
Voleva forse provare le sue forze o provare l’emozione di stare per una
volta e per qualche chilometro davanti a tutti, fatto sta che, giunto ad un
passaggio a livello con le sbarre abbassate quando non mancava moltissimo
all’arrivo, il nostro corridore ebbe la prontezza di attraversare alla svelta i
binari proprio quando stava sopraggiungendo lentamente un placido treno merci,
una nera locomotiva che si tirava dietro, sbuffando e fischiando, una
cinquantina di provvidenziali vagoni.
L’ingombrante convoglio, che non finiva più di sgranare l’infinito
rosario di contenitori dalle alte sponde e dalle pareti rossastre, finì per
inchiodare sul posto per alcuni minuti il resto dei corridori.
Il gruppo dei migliori rimase molto staccato dal fuggitivo senza
possibilità di recupero, sicché Armando
de’ Cucon, pur sfinito per la lunga fuga solitaria, poté tagliare, gioioso
e festante, il suo primo traguardo da vincitore. Per un volta, l’attendismo dei
corridori in testa al gruppo non aveva avuto successo, anzi, aveva permesso ad Armando di giungere all’arrivo con un
vantaggio enorme.
Passata la sorpresa generale, al vincitore fu tributata un’accoglienza
da grande eroe della bicicletta, quella del resto che si doveva ad uno
sconosciuto che aveva saputo vincere con tanto distacco la corsa contro ogni
pronostico.
La fama procurata da quella vittoria fu tanta e forse persino troppa. Armando, che da allora prese ad
intascare finalmente qualche soldo di ingaggio, capì ben presto che le
aspettative verso di lui erano diventate eccessive. Gli organizzatori lo
volevano praticamente a tutte le corse, con una premura che a lui metteva
persino paura. Temeva, Armando de’ Cucòñ,
di deludere i tifosi che avevano preso a seguirlo dappertutto e che chiedevano
nuove imprese ormai divenute impossibili.
La difficoltà maggiore era la diffidenza subentrata nei corridori più
forti, tipi che la sua giornata di gloria l’avevano digerita a fatica e che,
dal gruppo, non l’avrebbero lasciato andare neppure per una volata davanti a
tre capanni.
Ad Armando non restò che una
vaga speranza per rinverdire gli allori. Ad ogni iscrizione, davanti agli
incoraggiamenti degli estimatori, si schermiva un po’, alzava le spalle
sorridendo e poi chiedeva regolarmente:
«A j n’èl, da stal pêrt, di pasëg’
a livël?...»[7]
Se tuttavia Armando de’ Cucòñ,
come corridore, non ebbe altri sussulti significativi né compì nuove esaltanti
imprese, la sua esperienza agonistica e le innate doti atletiche tornarono
davvero utili parecchi anni dopo. Fu negli anni del secondo dopoguerra, nel
tormentato giorno in cui con molti compaesani si recò in bicicletta nel
molinellese, fino alle campagne del Ponte
Stoppino, per una manifestazione contro il crumiraggio.
Molti ricorderanno quel triste giorno del maggio del ’49, al tempo
delle repressioni scelbiane, in cui cadde, colpita da una raffica poliziesca,
la filese Maria Margotti, ma non tutti sanno forse che quel giorno la polizia
si scatenò, col sangue agli occhi, all’inseguimento dei manifestanti, una
caccia all’uomo durante la quale dispensò manganellate a destra e manca,
nell’intento di disperdere un corteo che osteggiava la fazione padronale.
Molte biciclette dei nostri braccianti finirono sotto le camionette,
tanti di loro fuggirono a piedi, correndo fra campi e frutteti, cercando di
tenere a distanza i poliziotti che spuntavano da ogni dove, ben saldi in sella
alle loro motociclette. Qualcuno di questi poliziotti finì per essere
disarcionato e si buscò, quando fu possibile, anche qualche sberla, ma il
panico purtroppo si diffuse fra i manifestanti, al punto che molti si persero
di vista ed in paese poi si temettero altre tragedie.
Alla fine il bilancio fu, fortunatamente, di pochi contusi da ambo le
parti, qualche ferito che venne ad aggiungersi alla perdita inaccettabile della
nostra mondina, vedova e madre di famiglia,
folgorata, come si scrisse poi, «da una raffica d’odio».
A margine di quei terribili avvenimenti, qui si vuole però ricordare il
comportamento valoroso, in quella occasione, del nostro Armando de’ Cucòñ, ormai anziano, uomo però che coi pedali aveva
ancora una certa familiarità.
Dopo aver visto coi propri occhi l’amico Giàni d’Ros piegare letteralmente le ginocchia, tramortito da una
manganellata così forte da produrgli in pochi istanti un bernoccolo mostruoso,
inforcò la bici alla svelta, si diresse lungo gli arginelli della bonifica e
cominciò a spingere sui pedali da par suo.
Fu subito inseguito da motociclette che sfrecciavano da ogni parte,
bolidi che ronzavano alle spalle dei fuggitivi come vespe inviperite, ma lui Armando de’ Cucòñ, nel breve spazio di
pochi metri ed in una strada a fondo erboso, riuscì a prodursi in uno scatto
micidiale. Tirò fuori dai propri muscoli, in quei decisivi momenti, l’antico
smalto e la naturale potenza delle sue gambe.
Il milite che, con l’istinto del predatore, lo aveva inseguito su un
terreno tanto impervio, cominciò presto a disperare; si rese conto cioè che non
avrebbe più raggiunto quel satanasso di un bracciante dall’aspetto malmesso.
Non capiva come avesse potuto, una volta saltato in corsa sulla bicicletta,
mettere praticamente le ali ai piedi.
Quando il poliziotto, accelerando al massimo, riuscì ad incalzare Armando molto da vicino, cercò di far
valere l’autorità conferitagli dalla divisa e cominciò a gridare a
squarciagola: «Ferrrmati… Ehi, tu…
Ferrrmati!»
Ovviamente Armando de’ Cucòñ non prese neppure in considerazione quella
eventualità, sentiva d’essere ormai entrato nella sua migliore trance agonistica, proprio quella che
molti anni prima gli aveva procurato tanta gloria nei pressi del famoso
«passaggio a livello».
Tenne ben ferme le mani sul
manubrio, continuò a pestare a tutta forza sui pedali, spaventato ma allo
stesso tempo rinfrancato dalla potenza della sua azione che percepiva sempre
più gagliarda; girò un attimo il capo all’indietro e urlò la sua risposta, un
perentorio invito che lasciò l’inseguitore di stucco: «Férmat bèñ te piotòst, che t’a n’é incióñ
ch’ut cŏra drì…»[8]
°°°
[2] L’intero testo del canto è qui pubblicato in data
3-3-2008: http://filese.blogspot.it/2008/03/le-mondine-di-filo-e-i-loro-canti.html
[3] La fortuna
aiuta gli audaci. Il racconto è tratto da: Agide
Vandini, La valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006, pp. 57-60.
[4] Qualcuno in paese lo ricorda come Armando dla Cucóna, riferendolo alla madre,
[5] Riportava testualmente «Il Ravennate» di sabato 15
agosto 1868 (n.67): «Il velocipede.
Il velocipede per chi nol sappia, si è una specie di macchinetta, consistente
in una sella che ha una ruota dinanzi e l'altra di dietro, chi monta a cavallo alla sella, ponendo i piedi su
certi pedali attaccati alla ruota che sta dinnanzi, spinge la macchinetta in
modo da esserne trasportato con grande celerità. Questa macchina è già da
parecchi anni conosciuta in Europa, ma pare che sia solo oggidì che stia
acquistando tutta la sua voga, e ciò forse perché fu perfezionata la
costruzione e reso più facile l’acquisto».
[6] Armando di
cognome si chiamava Toni e da scapolo, prima di spostarsi a San Biagio, abitava
nella borgata filese di Case Selvatiche.
[7] «Ce ne sono, da queste parti, dei passaggi a livello?...»
[8] «Fermati tu piuttosto, che non hai nessuno che ti
insegua…»
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