|
Non tutti avranno letto Non buttare i
ricordi[2] il libro
autobiografico di questo filese che si trasferì a Bologna alla fine degli anni
Cinquanta. E’ un testo che ci riguarda parecchio, è la narrazione di esperienze
direttamente vissute che ci permettono di capire le condizioni di vita e
l'ambiente paesano dell'anteguerra e ci aiutano ancor più a calarci, per
quanto è possibile, nei problemi affrontati dalla generazione che visse la
propria gioventù al tempo dell'ultimo terribile conflitto.
Ciò che ci racconta
Giovanni Pulini ha il crudo sapore delle cose vere e il comprensibile
turbamento che egli prova ancora oggi nel ricordarle ne sono la prova più
evidente. Romeo Rossi nella presentazione al testo ben sottolinea alcuni
aspetti fondamentali della figura dell'autore :
L'infanzia vissuta fra gli stenti e la povertà,
angosciata dalla dittatura fascista, ne ha temprato il carattere.
Giovanni, che ha sempre fatto della libertà una
ragione di vita, scrollandosi di dosso qualsiasi imposizione, si è abbeverato
alla fonte della democrazia. Questa scuola di vita ha condotto Giovanni
all'antifascismo militante portandolo ad operare, come partigiano, nelle
Valli di Comacchio[...]
La testardaggine e la cocciutaggine del carattere di
Giovanni escono in maniera vivace da queste righe autobiografiche e danno
vita ad un libro che si può collocare tra le opere della «Cultura dei Poveri»
per la sobrietà e la naturalezza dell'impostazione e per la franchezza e la
sincerità dell'esposizione.
Dall'opera di Pulini ho
pensato di trarre tre brani dai capitoli che ho maggiormente apprezzato: Adolescenza e, da I repubblicani di Salò, «La chiamata alle armi» e «La prima
missione nella Resistenza».
Nel primo brano colpiscono
le miserevoli condizioni di vita di quegli anni lontani, che appaiono, oggi,
davvero terribili ed insopportabili. Nel sofferto ricordo dell'autore le
nostre campagne nei primi decenni del secolo sono ingenerose terre di recente
bonifica, dove la sopravvivenza è esclusivamente legata alla capacità degli
umili di industriarsi e sacrificarsi. Ogni più piccola risorsa non può andare
sprecata, sicché vitale diviene la cornice di toccante, umana solidarietà quasi
impensabile ai tempi odierni.
|
ADOLESCENZA
Comincerei
dagli anni in cui posso ricordare, quindi dall'età nella quale non andavo
ancora a scuola, ma che ben ricordo in quanto c'era una condizione di vita, se
di vita si può parlare, al limite della sopravvivenza.
Sono nato e
vissuto, fino a diventare uomo, a cavallo tra due province: Ferrara, dove ero
domiciliato e Ravenna. Per la vicinanza a quest'ultima e per tradizioni ero più
romagnolo che ferrarese.
Nel nostro
comprensorio era in corso una bonifica delle acque salate, maleodoranti e
malariche della, così era chiamata, Valle Gramigna. Era tutto un acquitrino punteggiato qua e là
da dossi coperti da un tipo d'erba grassa che non era pascolabile neanche dalle
cavallette.
Anche il
terreno sommerso prometteva poco, in effetti era un terreno torboso ma che dava
la possibilità alla comunità del paese, prettamente bracciantile o salariata
fissa (boari), di riuscire a lavorare qualche giornata in più poiché vi era un
incremento demografico sempre in aumento, tipico fenomeno della gente povera.
A quei tempi
la meccanizzazione non esisteva, cosicché i canali di scolo, gli argini ed i
collettori vari venivano costruiti usando dei palozzi di legno che servivano a
scavare la poltiglia maleodorante che l'acqua, ritirandosi, aveva lasciato
scoperta; le acque così confluivano nei canali, dove, tramite idrovore,
venivano immesse nella Valle del Mezzano. Questo faceva sì che si creassero
pozzanghere di dimensioni più o meno grandi con spessori di acqua che si
assottigliavano col tempo, in parte con l'evaporazione ed in parte per
l'assorbimento del terreno stesso. Alla superficie affioravano tronchi di vario
tipo e dimensioni e la presenza di questi tronchi era dovuta al fatto che in
tempi precedenti lì vi era una foresta.
A questo punto
anche per noi bambini era venuto il momento di fare qualche cosa, una di queste
attività era la raccolta del sale che si formava in quelle pozzanghere e
costituiva una dura crosta di colore giallastro. Noi, con la melma fino al
ginocchio ed il fetore che penetrava nelle narici, facevamo scivolare la
paletta di legno fra la melma e la crosta di sale. Quest'ultima veniva riposta in
una bisaccia di tela e veniva riempita quel tanto che ci permetteva di
trasportarla fino a casa, a piedi, unico mezzo di trasporto che avevamo a
disposizione. A casa il contenuto di sale veniva steso al sole ad asciugarsi:
questo era il lavoro giornaliero per donne e bambini. Il giorno successivo si
ripeteva lo stesso rituale che però a volte riservava delle sorprese. Talvolta
infatti intervenivano la Finanza o i Carabinieri che ci prelevavano la
bisaccia. A noi non potevamo fare niente altro, in quanto eravamo bambini. La
Legge prevedeva per questo l'arresto, per frode allo Stato.
La raccolta di
sale si protrasse per qualche mese. Il terreno si solidificò e cominciò la
raccolta di rami e tronchi. Guardando dall'argine questo immenso territorio
sembrava di vedere un paesaggio appartenente ad un altro pianeta. Alla raccolta
di questo combustibile partecipavano anche uomini con carriole e birocci
trainati da asini; in qualche caso il traino veniva eseguito dalla famiglia.
L'occupazione
di braccianti fu di breve durata. Infatti il Demanio, che ne aveva la gestione,
non appena il terreno si asciugò, cominciò ad assegnare per un prezzo simbolico
alcuni lotti ai frontisti, cioè a coloro che possedevano i terreni confinanti.
Così fu dato a chi era già possidente ed i poveri braccianti si trovarono al
punto di partenza. Anche a quei tempi vigeva la legge del «non ancora»[3].
Si viveva una
vita di stenti di ogni genere: case squallide, fredde, famiglie di cinque o sei
persone vivevano in una sola stanza.
A casa nostra eravamo
in undici persone. La casa era composta da tre ambienti, questo ci permetteva
di considerarci privilegiati ed agiati rispetto agli altri. Il riscaldamento
era rappresentato dal camino, alimentato da stocchi di granoturco o al massimo
da fascine di legna provenienti dalla golena del vicino fiume Reno.
La scarsa
consistenza del combustibile rendeva sempre necessaria la presenza di un
bambino che alimentasse in continuazione il fuoco. Qui si cuoceva tutto quello
che vi era da cuocere. Si faceva la polenta, si cuoceva carne di suino, la sola
che si potesse trovare sul fuoco, gli stufati di fagioli e salsicce e nella
cenere si cuocevano patate, zucche e pannocchie di granoturco.
La legna
proveniente dalla bonifica si poté bruciare solamente l'anno successivo in
quanto pregna d'acqua. Bruciava malamente emanando un puzzo nauseante, ma
l'unico sollievo era dato dalla lenta combustione e questo dava un po' di
respiro al bambino fuochista.
Nelle case
squallide e umide regnava lo stesso sgradevole odore di muffa: il «profumo dei
poveri». Questa caratteristica derivava dal fatto che i loro vestiti si
impregnavano a tal punto che in qualche caso per deodorarli si utilizzavano
mele selvatiche, denominate «mele cotogne», che maturando erano profumatissime
e venivano riposte fra gli abiti.
Le abitazioni
erano appena illuminate da un lume a petrolio nell'ambiente dove si mangiava,
mentre nelle altre stanze, ammesso che ne esistessero, si illuminava con una
candela di cera, raschiata dal portacandele e riciclata.
I letti erano
dei veri pagliericci, quasi sempre a due piazze, poiché i bambini dormivano a
due o tre per letto. I motivi erano due: l'uno per recuperare spazio, l'altro
per stare più caldi ed utilizzare meno coperte. I letti erano in gran parte di
legno, un legno ordinario, le reti erano pressoché inesistenti, il materasso di
foglie di granoturco e gli insetti vivevano indistintamente in tutti i letti. I
più comuni di questi erano pulci, cimici ed in qualche caso pidocchi. Il
pagliericcio si riscaldava mettendo un sacchetto di cenere calda mezz'ora prima
di coricarsi : veniva posto al centro del letto, cosicché ci ammucchiavamo
tutti al centro, dopo qualche minuto non si sentiva più freddo e ci si
addormentava in un groviglio di pelle e ossa.
Molto spesso
qualcuno aveva piaghe infette, croste con pus ed inevitabilmente contagiavano
gli altri. Queste erano le condizioni di una classe bracciantile contadina, o
comunque agricola, in cui, secondo la propaganda dell'epoca, l'agricoltura era
la ricchezza della Nazione.
Scariolanti della bonifica
|
|
LA CHIAMATA ALLE ARMI
di G.Pulini
( da I repubblicani di Salò)
[...] I
Carabinieri vennero sostituiti da uomini aderenti alla Repubblica e fu loro
assegnato il compito di mantenere l'ordine. Per la maggior parte erano persone
già avanti con gli anni, padri di famiglia, poveri diavoli morti di fame e
perciò si limitavano alla ricerca di qualche cosa da mangiare, ma non mancavano
certo coloro che avevano compiti più malvagi e repressivi. Spesso dal Capoluogo
arrivavano camion carichi di giovani, i Repubblicani d'assalto, i quali armati
fino all'inverosimile facevano scorribande di ogni sorta sparando con raffiche
in aria a scopo intimidatorio. Quelle raffiche avevano anche scopo provocatorio
poiché sapevano che nel paese c'era quel gruppo di antifascisti[4]; sapevano anche che, a causa
degli avvenimenti, costoro avevano trovato molti simpatizzanti. Con lo
sfaldamento dell'esercito le armi erano un po' dovunque e speravano che qualche
antifascista uscisse allo scoperto e rispondesse al fuoco. Che fosse una
provocazione era molto evidente in quanto, oltre a sparare, provocavano con
offese verbali, prendevano a randellate chicchessia e, di notte, bussavano alla
porta di persone segnalate che avevano avuto il torto di non alzarsi in piedi
al momento del bollettino di guerra trasmesso alla radio o che dopo il 25
luglio si erano sfogate di cose represse per venti anni. Una volta durante le
notte prelevarono dal letto un uomo che era venuto a fare il fornaio nel nostro
paese : si diceva fosse un antifascista. Proveniva da un paese della Romagna e
la maggior parte delle persone lo conosceva come fornaio e basta. Lo
prelevarono, come dicevo, lo portarono vicino al terrapieno della ferrovia e,
dopo averlo percosso con calci e pugni, gli spararono un colpo di pistola alla
testa mirando, con molta probabilità alla tempia. Il proiettile invece gli
perforò la guancia uscendo dalla parte opposta. Stramazzò a terra, i
Repubblicani se ne andarono, credendolo morto, lasciando sul posto il
malcapitato seminudo, che rinvenendo andò a bussare alla casa, non molto
distante, di un contadino che gli prestò il primo soccorso. Non so come e dove
sia finito, ma seppi che da quell'avventura ne era uscito vivo.
Dalle otto di
sera fino alle sei del mattino c'era il coprifuoco. Le strade erano pattugliate
da barbari, solo così si possono definire in quanto sparavano senza la minima
ragione anche a donne e vecchi con una ferocia senza precedenti. Durante la
notte bussarono alla porta di un antifascista, aprì la madre che freddarono con
una raffica di mitra e se la dettero a gambe come dei banditi. Cercavano sempre
una reazione, ma individuale; se avessero voluto una reazione organizzata
sapevano dove trovarla. Gruppi di partigiani armati si erano già costituiti e
agivano soprattutto nelle colline vicine. La situazione si andava facendo
sempre più drammatica. Gli Alleati continuavano a scaricare bombe sui centri
abitati, mitragliavano tutto ciò che per strada si muoveva, quasi sempre si
trattava di civili: barrocciai o gente in bicicletta.
In questo
clima gli oppositori, che non avevano mai smesso di essere tali, cominciarono
ad organizzare riunioni e ad una di queste partecipai anch'io. Si tenne a casa
di Babini e così ebbi modo di sentire
parlare quell'uomo. Parlava lentissimo, con un tono di voce appena
percettibile, aveva la sottigliezza da grande filosofo ma la freddezza di un
condottiero. L'ordine del giorno era l'organizzazione dei giovani in caso di
reclutamento. Si dovevano convogliare nelle bande partigiane che operavano
nelle colline. Dopo un'ampia esposizione politica di Babini, in cui spiegò le ragioni politiche di dette bande, si passò
al problema centrale della riunione.
Dopo qualche
scambio di battute e di idee fra i partecipanti, otto o dieci in tutto, tutti
giovani ed io ero il più giovane di loro, Babini
fece la relazione di chiusura.
Egli disse che
c'erano problemi per il vettovagliamento, fatto non trascurabile in quanto si
prevedeva una lotta ancora lunga, era meglio quindi rimandare ogni decisione a
tempo opportuno, ma bisognava tenersi in contatto in caso di necessità. La
discussione ebbe termine.
Per me era la
prima volta che sentivo parlare Babini;
sarebbe stata anche l'ultima perché di lì a poco tempo lo freddarono sulla
porta di casa mentre tornava in bicicletta dal lavoro: un gruppo di brigate
nere gli sparò da dietro ad una siepe a raffiche incrociate.
Fu una grande
perdita per tutto il movimento cospirativo. Ciò che mi sorprese fu la
disapprovazione unanime di tutti coloro che lo conoscevano, sia di persona che
per la sua fama. Era un'altra prova tangibile che il popolo si era schierato
dalla parte della libertà e della democrazia.
Superato a
fatica questo choc, la vita riprese sotto una cappa di piombo, così come era il
cielo in quei freddi giorni, e si viveva nel terrore.
Le brigate
nere cercavano lo scontro in tutti i modi, provocando e umiliando, con la
speranza che qualcuno perdesse la testa e uscisse allo scoperto, fatto che
secondo i loro sistemi avrebbe rappresentato un anello di una lunga catena.
L'unica cosa che successe di lì a poco fu l'affissione di un avviso che
decretava la chiamata alle armi di molte classi dell'esercito italiano che si
era sciolto l'8 settembre; questo avviso incorporava anche la mia classe. Se non
ci fossimo presentati nei luoghi e nei tempi indicati, saremmo stati
considerati disertori e quindi passati per le armi ed inoltre chiunque avesse
dato asilo o informazioni atte alla fuga sarebbe stato giudicato da un
Tribunale militare, che significava fucilazione certa.
Era necessario
prendere una decisione in pochi giorni.
Sei delle
persone che avevano partecipato alla riunione nella casa di Babini si unirono in montagna ai
partigiani. Ne tornarono a casa tre : due morti in uno scontro e il terzo fu
preso ferito e fucilato, era quel ragazzo che frequentava assieme a me Pipò.
Io ero ancora
giovane e impreparato politicamente, decisi così per la via della diserzione,
credendo fosse meno rischiosa e seguendo il consiglio di mio padre. I motivi
per i quali decidemmo per questa soluzione erano molteplici. Innanzi tutto,
come ho già detto, non ero preparato politicamente e inoltre il rifugio era ai
Boschi, dove mi conoscevano da quando lavoravamo il fieno. In quella azienda
c'erano quattro o cinque famiglie residenti come salariati con incarico di
boari. Erano ex fascisti, ma in buona fede e su questo non c'erano dubbi e
anche i fatti lo dimostrarono in seguito, inoltre avevo una relazione amorosa
con una ragazza del posto.
Gli Alleati
stavano risalendo la penisola ed erano a meno di cento chilometri da noi.
Sembrava una decisione saggia sotto tutti i punti di vista. Mi ospitò la
famiglia Natali che non dimenticherò mai per tutte le premure che ebbe nei miei
confronti...
LA PRIMA MISSIONE NELLA RESISTENZA
di G.Pulini
( da I repubblicani di Salò)
[...] Un
pomeriggio Guerino si avvicinò in bicicletta alla casa, ci incontrammo sul
passo carraio, rallentò e senza fermarsi mi fece capire che l'appuntamento era
alle ventitre nel frutteto. Continuando a pedalare se ne andò. Alla sera, come
tutte le sere, presi il mio telo e me ne andai verso l'«albergo delle stelle».
Era una notte buia, miriadi di lucciole lampeggiavano e la grande quantità di
grilli creava un concerto. Andai al mio solito posto e verso le ventidue, dico
verso perché nessuno possedeva un orologio, vidi due ombre nere in mezzo al
filare. Una di queste era di Guerino il quale mi chiamò, mentre l'altra era di
un pilota in borghese. Dovevo accompagnarlo alla casa Gesso, una casa al limite della bonifica, a cento metri dalla
valle. Arrivati al luogo stabilito dovevo emettere un fischio, avuta la
risposta dovevo lasciarlo e ritornare da dove ero venuto.
Il fischio
convenzionale era quello dei colangeli, anatre selvatiche che volano in branchi
anche di notte, emettendo un fischio sgradevole, ma facile da imitare.
La missione
durò un paio d'ore in tutto e non ci fu il minimo ostacolo.
Il giorno
successivo ripresi la mia vita di sempre. Passavo il tempo studiando il terreno
di tutta la zona di bonifica. La bonifica è solcata da canali paralleli,
distanti un chilometro esatto l'uno dall'altro, che vanno da nord a sud.
All'estremo sud corre un canale trasversale che funge da raccordo: i terreni
sono comunicanti fra loro da ponti costruiti in punti determinati.
E' necessario
quindi conoscere bene ponti, canali, sentieri, cavedagne, sapere se ci sono cani, conoscere la composizione delle
famiglie del luogo, infine informarsi se ci sono giovani che potrebbero
rincasare più tardi. Nelle mie giornate avevo imparato a conoscere tutto del
posto, ragione per cui durante le missioni non ho mai fatti incontri imprevisti
o trovato difficoltà.
Dopo due
giorni tornai ai Fossi, incontrai
Guerino per strada, mi fece un cenno che già conoscevo: «alla sera al solito
posto». Quando arrivai lo trovai già lì, ma solo, pensai a un contrattempo,
invece doveva solamente dirmi che il pilota sarebbe arrivato dopo la mezzanotte
e nel frattempo volle portarmi a casa sua. Strada facendo mi spiegò che il
fatto di venire a cercarmi poteva destare sospetti e dal quel momento il
segnale convenzionale sarebbe stato un mazzolino di erba fresca vicino alla
pietra miliare poco distante dalla casa di Fumena.
Mi presentò
alla sua famiglia, molto numerosa, c'erano anche due ragazze ed altre donne che
mi sommersero di complimenti. Mi avevano visto un anno prima, trovavano che ero
cambiato molto ed ero diventato un bel ragazzo. Io non feci economia nel
contraccambiare il ricevuto, andando forse oltre il convenzionale. Si continuò
a parlare di niente finché Guerino, alzandosi, mi fece cenno di seguirlo.
Andammo nel frutteto dove ci raggiunse
Duerd insieme al pilota.
Guerino mi
disse che avrei dovuto portarlo a «Casa Spada» dove qualcun altro lo avrebbe
prelevato; non avrei dovuto abbandonarlo fino alla consegna. Ci aspettava una
donna che avevo già visto, ma non ricordavo dove. Durante il tragitto di
ritorno alcuni pensieri non mi abbandonavano. Guerino non mi aveva mai chiesto
nulla dei viaggi, questa donna già vista, forse per strada, il fischio
convenzionale e la necessità di attendere una risposta, tutti dati che messi
insieme mi facevano supporre di essere in mezzo ad una organizzazione
capillare, una sorta di ragnatela logistica di enormi dimensioni per il cui
funzionamento erano necessarie decine di persone. Sapevo, ad esempio, che in
una certa casa, un asciugamano disteso in un certo modo o in un certo punto
significava qualcosa, steso in un altro punto aveva un significato diverso.
Tutto ciò faceva supporre la collaborazione incondizionata di tutta la gente e
questo mi dava conforto. Per me significava non essere solo nella lotta per la
libertà.
Per quanto mi
riguarda ho vagato per un anno intero in quelle zone, tutti mi hanno aiutato,
sfamandomi, facendo la guardia al mio sonno, dandomi indicazioni per evitare
pericoli e nessuno mi ha mai chiesto di quale partito fossi.
Voglio dire
che era quella massa anonima e silenziosa, la più genuina, che proprio in virtù
dell'anonimato stava vincendo la lotta contro il nemico. I Tedeschi non hanno
subito sconfitte militari da tutta questa gente, ma sono stati da lei
moralmente distrutti. Quando, infatti, sono dovuti fuggire e ritirarsi dal
fronte, incalzati dall'Esercito Alleato, hanno colpito più la popolazione che i
soldati che li inseguivano, mettendo ordigni esplosivi in punti senza alcun
interesse militare. Sistemavano esplosivi nei mobili di casa, mine alle porte,
spesso gli ordigni avevano forme di oggetti comuni, non minavano strade o ponti
dove sarebbero passate le truppe in avanzata. Questi barbari avevano un conto
da saldare con la popolazione, quella che si era mescolata a loro senza che
potessero individuarla. Fu proprio questa l'umiliazione più grande che
l'Esercito Tedesco subì dal popolo italiano.
[1] A.Vandini, Letture Filesi, Edizione cu CD ROM dell’Autore, 1995, pp.23-25 e
38-40.
[2] G.Pulini, Non buttare i ricordi, Bologna, Labanti & Nanni, 1992.
[3] Dalla pubblicazione: L'Idea del Socialismo nella poesia popolare romagnola, 1890 : «E' canta la zighéla: Taia, taia. / E' gran a
é padròn, a e' cuntadén la paia... / E' canta la zighéla : Tula, tula, / E'
gran a e' padròn, a e' cuntadén la pula.../ E' canta la zighéla, a e' zigalén:
/ e' gran a e' padròn, la pula a e' cuntadén... ( Canta la cicala : taglia,
taglia,- Il grano al padrone, al contadino la paglia...- Canta la cicala:
prendila prendila - il grano al padrone, al contadino la pula... - Canta la
cicala al cicalino: - il grano al padrone, la pula al contadino...)
[4] In precedenza l'autore aveva ricordato la persecuzione subita da alcuni filesi che lo avevano impressionato per l'incrollabile fede antifascista.
Nessun commento:
Posta un commento