Racconto di Antonio
Meluschi (trascrizione e appendice di Agide
Vandini)
da «Il Progresso d’Italia» di Bologna, domenica 11
agosto 1946
Antonio Meluschi (Il Dottore), la foto è del
1944 di ritorno
dalla detenzione a Belluno |
Antonio Meluschi (Il Dottore)(1909-1977), compagno di Renata Viganò (1900-1976) e
autore di questo racconto, è l’uomo che fu per alcuni mesi, fra la fine di ottobre
del ’44 ed il termine del conflitto nella primavera del ‘45, a capo della
«Mario Babini», la 35esima bis Brigata Garibaldi operante nel nostro
territorio, e che si articolava in tre formazioni: la «Mazzini» gravitante nell’argentano, la
«Agida Cavalli» che agiva nel filese e la «Edgardo Fogli» dislocata nel
comacchiese. Principale base operativa fu la casa colonica della Piguréra, fra il Molino di Filo e le
valli, a poca distanza da casa Micheli, ove dopo vari spostamenti, la coppia
si stabilì col figlioletto Agostino (Bù). Antonio Meluschi, pur senza raggiungere la
fama della moglie (autrice de «L’Agnese va a morire»), scrisse parecchi
racconti e romanzi, collaborando con vari quotidiani e riviste come critico
d’arte figurativa, di teatro e di cinema. Sua è l’imponente e documentata Epopea Partigiana (Bologna, S.P.E.R.,
1948). In una delle sue migliori opere del dopoguerra (L’armata in barca, Milano, Vangelista, 1976, cap. XI, pp. 81-87)
egli raccontò in chiave romanzesca la cruenta «Battaglia nelle valli» del 4
dicembre 1944 che ebbe fra i protagonisti proprio e’ Dës-c, ovvero il filese Armando Montanari, citato nel racconto
qui trascritto (a.v.)[1].
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Questa è la Romagna del tempo di guerra
C’è un cane fra
i partigiani
Anche
gli animali, talvolta, possono guadagnarsi un angolo nella leggenda: e questa
fu proprio la sorte di Böbi, il cane di un distaccamento garibaldino, che
divise per un anno le avventure e i pericoli dei partigiani e oggi è tornato a
«puntare» le folaghe che volano nel cielo immobile della valle.
L’articolo ne’ «Il Progresso d’Italia» di Bologna, di domenica
11 agosto 1946 (Collezione
Vanni Geminiani) |
(dal nostro inviato)
Questa è la
vita di Böbi, un povero cane di un
cacciatore di frodo: le bestie sono gli autori anonimi di pagine che hanno
chiare accensioni umane, e nei pericoli, davanti alla morte, la loro sostanza
terrena si trasfigura con la fedeltà, il coraggio, l’intelligenza, proprio
come in una persona. Nell’altra
guerra un mulo fu decorato di medaglia d’argento; colpito agli occhi, camminò
per due ore in mezzo alle esplosioni delle bombe, delle granate, al fischio
delle pallottole, e portò le cassette di viveri ai soldati in trincea che
erano senza mangiare da trentasei ore. Restò sempre con la sua compagnia: i
conducenti parlavano di lui come di un amico, di un fratello che si chiamava
«Rossino» e, nelle riviste, era davanti a tutti, quattro passi dietro alla
banda; quando il colonnello diceva: «at-tenti», anche lui s’irrigidiva,
alzando le zampe, che è il presentatarm
dei cavalli, dei muli e degli asini.
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E il suo nome, oggi, è ancora vivo: egli
è sepolto nel cortile della sua caserma, e la lapide dice: «Rossino, soldato –
mulo, grande invalido di guerra, dorme qui» e c’è un lume, un mazzo di fiori,
come ai morti nel camposanto.
Questa è la vita
di Böbi, un povero cane di un
cacciatore di frodo: la sua casa era nella valle, dove l’acqua odora di
anguille, di pazzetti, di folaghe, di colangeli[2],
di anitre e di nebbia: Böbi stava
nella barca, senza abbaiare, e aspettava l’urlo rosso della doppietta per
portare il vento in mezzo ai canneti. L’olfatto, come una corda, lo tirava
sugli uccelli morti; affondava i denti nella carne calda di sangue, e muoveva
il mozzicone della coda, che pareva un ramo tagliato da un colpo di scure.
Il suo padrone «e’ Dës-c»[3],
col paradello in mano, era fermo contro l’alba; da dieci ora era là, appostato,
a fianco dell’argine, e la notte e il sonno avevano scavato sul suo volto la
stanchezza. Il passaggio dei branchi riempiva l’aria d’ombre e di sussurri; ed
erano due gruppi che andavano verso il mare; uno in alto, l’altro sul pelo
della corrente. Ogni colpo scuoteva l’eco in fondo e il silenzio si rompeva in
tanti pezzi come un piatto.
I guardiani
della valle puntavano i timoni verso la direzione degli spari, e Böbi e il suo padrone si spostavano; a
volte si nascondevano fra le canne senza respirare e sentivano il battere lento
dei remi delle guardie, che sembravano coperti di stoffa. «Anche questa è già
passata» sussurrava «e’ Dës-c», e il
cane guardava verso la bonifica, quasi dicesse: «andiamo a casa»; perché forse
aveva voglia di correre, di abbaiare alle nuvole dei tordi che si abbassavano
per mangiare l’uva.
E tutti e due
sono entrati a far parte di un distaccamento partigiano: la caccia, il rischio,
continuavano ancora, soltanto si mutava la forma delle prede da colpire, che
ora erano individui inferiori alle bestie.
La storia di
questo piccolo distaccamento, ventitré uomini, nove barche e un cane, esce
dall’umile cronaca per battere all’uscio della leggenda; i suoi dimessi e
affaticati contorni perdono il grigio conturbante della valle, e restano le
azioni, i disarmi, i recuperi che sono il nutrimento vitale di ogni formazione
militare. E dietro ai passi dei partigiani, come un timbro, c’erano le impronte
di Böbi: un cane da caccia che
sognava le lepri, le quaglie, i fagiani, e lo scaldava l’odore acre della
polvere, che si spargeva nell’aria, come un soffritto bruciato.
La bonifica era stata
allagata dai tedeschi, resa ancora valle; il grano era marcito sotto l’acqua e
le spighe sembravano d’oro antico, lievitate come un pane al forno. Le baracche
dei braccianti, le case dei contadini e dei pastori furono abbandonate;
divennero le basi dei gruppi della «Mario Babini» che, come un mosaico, aveva
dentro di sé i creativi fermenti di ogni nostra regione; e sardi, siciliani,
calabresi, veneti mischiavano i loro dialetti coi comacchiesi, romagnoli,
ferraresi; ed era come se tutta l’Italia si fosse raccolta in quel verde
silenzio.
La prima
attività di Böbi fu la caccia ai
topi: di notte, mentre gli uomini dormivano, si sentiva il disperato gridìo dei
grossi topi che pendevano dalla bocca di Böbi,
come selvaggina. Li portava in un angolo e al mattino, con salti e abbaiamenti,
li mostrava al suo padrone, «e’ Dës-c»,
che divideva con lui la sua razione di pane e di salsiccia.
La pioggia
appese al cielo le sue cordelle d’acqua, e le lasciò cadere per giorni e
giorni: tutto era grigio, la terra, l’erba sugli argini, le case abbandonate
nella bonifica e l’eco dei colpi di cannone che sembravano annegarsi dentro la
valle, e i partigiani contavano le ore pulendo le armi, o raccontando vecchie
storie, proprio di quelle che sono bianche d’amore, colorate di sangue.
L’intensità
cospirativa assunse un disteso ritmo, e le azioni militari recarono ai piccoli
distaccamenti della «Mario Babini» il lume della rinomanza: si fucilavano spie,
si assalivano camion, carrette coi rifornimenti, si disarmavano carabinieri,
soldati della Decima M.A.S., e i tedeschi con le grosse barche a motore
tagliavano dall’alba al tramonto il silenzio della valle, come un paio di
forbici un enorme foglio di carta.
Tutti parlavano
dei partigiani, dicevano che erano alti, con la barba come i cappuccini, ma
nessuno li conosceva, nessuno li aveva ancora visti: stavano là e puntavano il
dito verso il mare, come frati che per meditazione lustrassero le pallottole, e
per preghiera sparassero col mitra [… o][4]
con le mitragliatrici.
E molti uomini
della resistenza andavano per i paesi, stringevano i fili del movimento
politico; Böbi e «e’ Dës-c» li accompagnavano e la loro
aria dimessa, casalinga, recava a quelli un senso quasi paesano, anche se
l’odore del forestiero si stampava in alto come un grido.
Il cane durante
questi giri ispettivi, correva alla fornace del Molino dove c’erano le cucine
dei tedeschi, e rubava la carne, grandi pezzi di carne che spesso seppelliva
per suo conto, e qualche volta portava ai partigiani. Un giorno un maresciallo
gli sparò contro: la pallottola passò da una parte all’altra della coscia
destra e Böbi, con la febbre alta,
delirò come un bambino nella sua cuccia.
Questa è la
storia di Böbi, un povero cane di un
cacciatore di frodo: era l’innocente staffetta dei partigiani, e «Nizza», «Pallino», «l’Elsa», «Caciòñ»,
«Cencio», «Bruno», «Bù», la «Terzilla», «il Dottore», «Lino»[5],
lo trattavano come un soldato, un soldato che era sempre in servizio, e che
ogni giorno portava via la carne ai tedeschi. Appena guarito, ritornò a dormire
in mezzo ai fucili, alle bombe, e quando vide per la prima volta gli inglesi,
rimase fermo un attimo e poi cominciò ad abbaiargli contro, come se fossero
anch’essi dei nemici.
E oggi Böbi è ritornato alla caccia di frodo, e
vive ancora clandestino, al di sopra e al di fuori delle leggi, e rimane
immobile nella barca ad aspettare il passaggio dei pazzetti, delle folaghe, dei
colangeli, delle anitre, che sono come gli angeli dei suoi sogni.
Antonio Meluschi e Renata Viganò al
centro della foto scattata nel dopoguerra, nei pressi della Piguréra, durante una rimpatriata
presso gli amici filesi. Il primo a sinistra è Giuseppe Leonelli (Pépi),
il ragazzo in primo piano col cannocchiale è il loro figlio Agostino Meluschi
(E’ Bù). Vicino a loro Paolo Coatti (Palóni); sulla destra, sotto
il severo cappello, Vito Geminiani, uno dei 22 perseguitati politici filesi,
processato dal Tribunale Speciale nel 1931.
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Una foto di gruppo in un giorno
d’estate alla Piguréra nel
dopoguerra, presumibilmente negli anni ‘60. Lo scatto panoramico è dedicato
alla casa colonica che fu base partigiana della 35bis «Mario Babini». Davanti
alle imponenti colonne del cascinale è raggruppata la famiglia ivi residente
assieme ad alcuni ex partigiani. Sulla destra si scorgono: Vito Geminiani,
col cappello scuro, Armando Montanari (e’
Dës-c), pantaloni scuri e berretto chiaro e, al suo fianco, Pépi Leonelli. |
°°°
Appendice - Riparlandone con Céncio
di
Agide Vandini
Lazzari Ottavio
detto Cencio, all’età di 88 anni
possiede ancora una memoria lucidissima. Mi ha ricevuto a casa sua col sorriso
di sempre poi, con a fianco l’inseparabile moglie (Enza d Panöcia), ha ascoltato attentamente la lettura del raro articolo-racconto
di cui non conosceva l’esistenza. Appena gli ho fatto il nome del cane Böbi, ha allargato il sorriso apostrofandomi
«Mo’ al sét pu ad chi ch’l’ìra che càñ?»
ed ha cominciato a raccontarmi lui, con gusto, quasi fossero storie dell’altro
ieri, le cose che stavo per leggergli.
Al termine dei
passaggi più importanti, non ha potuto contenersi: L’è pröpi e’ véra, sét…». Giunto al punto in cui il cane del Dës-c asportava la carne dalle cucine
della fornace, ha mormorato: Me a n’è sö
pu miga se la chéran i glia dašĕs i tedés-c, o se u glia purtĕs via lŏ, me a so
sól che u s’la purtéva a nòñ…» [Io non saprei dirti, poi, se la carne glie
la davano i tedeschi o se invece se la prendeva da solo, io so soltanto che la
portava a noi]. Poi mi ha detto del grave ferimento del cane per mano tedesca,
circostanza che subito dopo ha potuto ascoltare dalla bella prosa di Meluschi; ogni
tanto annuiva con leggeri movimenti del capo.
Finita
l’emozionante lettura, ‘Tavio, ha preso
a raccontarmi, quasi con dolcezza, un po’ dell’avventurosa vita di allora, lui
diciottenne e poco più di un ragazzino, allorché accompagnava e’ Dës-c a caccia di frodo, nelle sue
battute in valle. Partivano assieme dall’abitazione di quest’ultimo, a poca
distanza dai Buriòñ (Cà Buriona,
residenza dei Clumbaròñ) seguiti da Böbi, e in quei giorni di gelo invernale
s’incamminavano verso la bonifica che i tedeschi, senza rispetto alcuno,
avevano allagato a scopi difensivi. Giunti alla Böca di’ Pastùr, all’incrocio cioè, fra la strê de’ canalèñ (Via Argine Circondario) e l’attuale via Beccaria,
si apriva uno stucchevole scenario oltre l’argine di delimitazione della prima
bonifica di fine Ottocento: ettari ed
ettari di terra della novecentesca Bonifica del Mantello tornati di nuovo sotto
l’acqua azzurra della valle. Qua e là casupole, fienili e baracche abbandonati
e allagati. Lì, alla Bocca dei Pastori, dove sia Cencio che e’ Dës-c
tenevano ormeggiate le barche, i tre salivano su un solo natante poi, a forza
di paradello, si dirigevano per qualche chilometro verso l’interno dell’esteso
specchio d’acqua, ben oltre la cà dla
Mafalda, fino alla linea del Mezzano, quella che, fino alla metà degli anni
’60, noi abbiamo conosciuto come argine perimetrale delle valli prosciugate.
Lì solitamente e’ Dës-c imbracciava la doppietta, si
stendeva bocconi fino al pelo dell’argine sotto stormi di uccelli svolazzanti,
in gran parte folaghe, poi prendeva la mira, ne abbatteva qualche capo e dava
subito l’atteso comando a Böbi, fin
lì tenuto sotto il modesto tepore di un sacco di iuta, ma pronto, al minimo
cenno del padrone, ad immergersi in acqua per recuperare ogni sorta di preda.
Altre volte la
caccia di Céncio, e’ Dës-c e Böbi, si svolgeva ancor più all’interno della valle. Dopo aver
trascinato e calato la barca oltre l’argine perimetrale, si inoltravano verso
postazioni di fortuna da loro stessi predisposte all’asciutto, nei dossi, ossia
negli isolotti di valle che i nostri avi identificavano coi loro caratteristici
nomi dialettali, da tempo finiti nel dimenticatoio: la Rivalonga (Ripalunga), Cô
dl’Êržan (Capo dell’Argine), I Trì
Chësp (I Tre Caspi), e’ Lŏz (Il
Luccio). Lì il cane Böbi se ne stava
accucciato e riparato sotto il sacco di iuta ai piedi del Dës-c, pronto ad entrare in azione al secco comando del padrone.
Era questa la
carne che serviva a sfamare i partigiani nascosti nelle case allagate. Peraltro,
le guardie comacchiesi che abitavano il casone a poca distanza dalla Cà dla Mafalda, in quel periodo di
occupazione tedesca non si sentivano neppure più in conflitto coi bracconieri,
ammesso che prima lo fossero davvero. Stando ai racconti di Céncio che li conosceva assai bene,
infatti, non era difficile stringere amicizia con loro anche in tempo di pace,
specialmente portandosi dietro un po’ di becchime per gli animali da cortile
che questi guardiani accudivano nei pressi del Casone.
Céncio, uno dei più giovani della brigata,
veniva poi quasi sempre incaricato della faticosa spennatura degli uccelli, in
particolare allorché la valle gelò; a quel punto gli fu ordinato di starsene il
più possibile nei pressi della base della Piguréra.
Compagni d’armi che il partigiano Céncio
ama ricordare furono anche il giovane Zaga
(il maestro Ezechia Vistoli) e Fišul
Corelli; giorni lontani che, a distanza ormai di 70 anni, egli rievoca con un
misto di orgoglio e nostalgia, anche per quella spensieratezza che sempre si
accompagna alla gioventù, all’età in cui il coraggio vien quasi da sé e
permette di affrontare pericoli, disagi e sacrifici oggi neppure immaginabili.
[1] Per un’ampia
biografia della coppia Meluschi-Viganò si veda in Manuela Bonicalzi - Alfio Leoni, L’Infermiera e il comandante senza stellette, Sesto S.Giovanni, Il
Papiro, 1995. Il testo conteine un corposo contributo del sottoscritto
(pp.85-105) tratto dalle mie Letture
filesi, Antologia di scritti e
scrittori di casa nostra, Edizione dell’Autore su CD, 1995. E’ un inserto
che traccia un profilo dei personaggi ricavato da fonti bibliografiche, e
contiene le pagine più importanti dedicate dalla coppia di partigiani e
scrittori al territorio ed alla nostra gente. Fra queste anche la citata
«battaglia nelle valli» del 4 dicembre 1944 che ebbe per protagonista principale
e’ Dës-c. Per una biografia
essenziale di A.Meluschi si veda in: http://www.anpi.it/donne-e-uomini/antonio-meluschi/
[2] E’ pazèt è l’alzavola, anas crecca, mentre e’ culànz è il codone, anas
acuta.
[3] E’ Dës-c, detto anche Niéski, è il filese Armando Montanari (1911).
[4] Una piccola
abrasione sulla piegatura della pubblicazione non ha permesso la completa
trascrizione della frase.
[5] I partigiani
citati sono tutti filesi del Borgo Molino, quelli più operativamente vicini a
Meluschi ed alla Viganò. «Nizza» è Aldo Panizza (1913), papà di Giorgio, «Pallino»
indica certamente Palóni, ovvero
Coatti Paolo (classe 1927); «l’Elsa» è Elsa Minghetti (1912), moglie di «Bruno»
Natali (1911); «Caciòñ» è Cavallini Gualtiero (1915), papà di Loris
detto Piraja; «Cencio» è invece
Lazzari Ottavio (1926), unico tuttora vivente; «Terzilla» è Terzilla Toti
(1911) moglie di Armando Montanari detto e’
Dës-c; Bù (1937) è Agostino,
figlio di Renata Viganò (1900) e di Antonio Meluschi (il Dottore)(1909), mentre «Lino», è Lino d’Vis-ciòñ, all’anagrafe Minghetti Lino, all’epoca abitante nel
palazzone, poi demolito, della Rëmpia.
1 commento:
aderitto geminiani
17.3.14
ho letto con grande interesse e curiosita'le vicende che il dott. Meluschi e tu avete così minuziosamente ricordato. Il racconto del Bobi ha dell'incredibile.Io mi ricordo, ma ero tanto piccolo, che siamo sfollati dalla Mafalda ed ad un certo punto mio padre disse alla mamma: "Mentana bisogna che andiamo via perché i Tedeschi hanno intenzione di allagare tutto". In quelle casette allagate forse presero dimora i partigiani e le sofferenze patite devono essere state terribili, ma gli ideali per cui cosi tante persone si battevano, aveva il sopravvento sulle soffrenze. Nel leggere il nome di E' Des-c la mente lo ricordava, ma non lo ravvisava, alla fine hai inserito i nomi di Cencio, di Vito, di Paloni, del figlio di Canòn con relative foto, ed allora ho realizzato di chi si trattava. Sono testimonianze che fanno riflettere e parecchio. Ho letto il racconto tutto d'un fiato e speravo non si concludesse mai tanto mi intrigava, persone che meritano tutto il rispetto delle nuove generazioni ed hanno dato la vita per la liberta'. Ho conosciuto Bu il figlio della Renata e del Dottore, a Bologna ci siamo visti diverse volte perché lavorava dove lavorava mia moglie e poi anche a Filo. Poi non lo vidi piu' e mi dissero.... L'articolo del "Dottore" e' di una rara bellezza, di Renata poi ho letto l'"Agnese" che non ha bisogno di commenti. Tu come al solito sei un regista ed un genio nell'esporre degli episodi cosi' interessanti. Ti ringrazio Agide per questa bella pagina e ti mando un caro sentito abbraccio. Pippi.
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