di Agide Vandini
In famiglia sentii parlare del leggendario Martin fin dalla prima infanzia. Me ne parlava spesso mio padre che lo ricordava come un personaggio filese di rara e proverbiale intelligenza, morto in giovinezza prima della guerra. Si chiamava in realtà Ezio Natali ed era il fratello maggiore di quel Vincenzo, da noi tutti chiamato Cencio o, ancor più affettuosamente, Cincióni.
Da ragazzo lo sentii ancora ricordare nei ritrovi (trĕb) che nelle sere d’estate si tenevano davanti a casa mia. Allora non c’era ancora né l’aria condizionata, né la televisione ad invadere la mente della gente comune, sicché di sera, dopo una giornata di lavoro in campagna o in fornace, si andava regolarmente a far due chiacchiere e prendere un po’ di fresco in cortile. Ci si ritrovava tutti, grandi e piccoli, sul ponticello di accesso al nostro condominio che tutti chiamavano «Case operaie».
Ricordo che in quegli anni di immediato dopoguerra, l’allegria faticava talvolta a farsi strada, dominava sempre su tutto l’eco di lutti e tragedie umane che avevano molto provato e coinvolto emotivamente il paese. Nonostante questo però il simpatico e geniale Martin faceva di tanto in tanto la sua comparsa nei discorsi degli anziani. I coetanei in quegli anni ’50, lo ricordavano ancora con spiccata ammirazione, ma anche una certa tenerezza la si percepiva dal toccante e' pòvar Martin che introduceva ogni accenno alla sua figura, tanto che, ad un paio di decenni dalla sua morte prematura, pareva esserci attorno a lui un alone di leggenda. Chi l’aveva conosciuto lo descriveva come un giovane di tali straordinarie qualità e talento che, senza quel crudele ed avverso destino ed in un mondo un po’ più giusto, avrebbe forse potuto diventare scrittore o giornalista, o qualcosa di simile.
Più di tutti ne parlava
Una sera riuscii finalmente a coinvolgere
Ora è bene tornare all’uomo Martin, nato a Filo il 5 dicembre 1908 da Anita e da Antonio Natali, vissuto nel suo amato paese fino alla morte che gli giunse per peritonite acuta nell’agosto 1936. Un filese suo contemporaneo, Libero Ricci Maccarini, in un testo pubblicato nel 1983, gli dedicò un ampio profilo che, sia pure in un linguaggio assai ricercato, ci fornì i tratti di una personalità davvero fuori dal comune[1].
Innanzi tutto pare fosse «piccolo di statura, magrolino e patito, tutto naso e bocca, sempre senza un soldo, attento a rapinarti la cicca che poi infilava con l’ago per usurarne l’aspirazione fino a scottarsi le labbra»; sapeva essere «accattivante, preconizzava le sapide battute a lui benevolmente rivolte, che prontamente e senz’astio ritorceva, più in particolare alle ragazze del luogo, con lui in confidenza fino all’arguzia più ardita, per quel tanto che era a quei tempi concesso ad una piacevole macchietta, e che, invece, dagli altri sarebbe stata intesa quale sconveniente licenza».
Si apprende anche di qualche mancanza di praticità, di qualche sogno irrealizzato e soprattutto della sua simpatia innata: «Sarto sbagliato, bracciante senza nerbo, sportivo senza taglia, gaudente in astinenza, innamorato disamato, sembrava essere nato per dare il senso dell’incompiutezza, meno che per la simpatia e l’affetto, di cui faceva dono a tutti e più ne riceveva, tanto da chi imparava a conoscerlo, all’istante, quanto da chi ogni giorno era con lui ed ogni volta era ancora più compiaciuto della sua presenza».
Libero ricordò anche tanti gustosi momenti che lo ebbero come protagonista in veste di grande appassionato di sport e di musica, aneddoti che darebbero certo meglio l’idea del personaggio, ma che richiederebbero molto spazio. Non può però essere sottaciuta in alcun modo la generosità innata che stava alla base di doti inconfondibili di narratore di prima grandezza.
Essendo, il suo, un altruismo fatto di «sconfinata bontà per chi era povero e buono come lui» e come la «gran parte della gente a lui eguale e che l’amava», ne conseguiva che, anche parlare, raccontare, rivivere con la sua gente le emozioni di un’impresa sportiva o l’intensità dei suoi divertenti episodi era «vivere fuori dal mondo, o, meglio, elevarsi nel mondo in cui credeva; quello per il quale sentiva di esser nato, per essere felice e donare la più lieta compagnia a chi gli era più vicino, uomini e donne, forestieri o paesani che fossero» In definitiva: «in quegli istanti di pace avulsi dai bisogni di sempre e da tutto quanto gli stava attorno, certo, lui apparteneva gioiosamente agli altri».
E’ così che Martin diventò: «Animatore di trebbi, anche fuori paese, si affidava al suo parlare sciolto e faceto ed alla prodigiosa, colorita memoria che aveva dei fatti accaduti e degli episodi appena appresi da una prima ed unica lettura» e infine «quasi a siglare la serata, si esibiva con una parodia da lui tratta da una poesia del Fusinato “Il Passatore”, e ritmata con tocco paesano, per dileggiare i nasi più vistosi, il suo compreso».
All’illustre compaesano, ho voluto dedicare nel 2002 le mie Letture Filesi. Scrissi nell’«Introduzione»:
[…] gustosa risulterà forse la famosa e comica Parodia dei nasi composta tantissimi anni fa da Martin, una manciata di memorabili strofe in rima, delle quali si era quasi persa traccia e che, attraverso la prodigiosa memoria dei miei familiari e vicini, ho potuto ricostruire e corredare di indispensabili note e commenti.
Proprio il nostro Martin, autore, intrattenitore ed indimenticato personaggio di un tempo ormai lontano, mi pare il concittadino-simbolo di una cultura «popolare» che lui stesso ebbe a definire «l’espressione di una ricchezza interiore della quale fare dono agli altri».
Soprattutto a lui, al tenero, adorabile ed indimenticato Martin che non ho mai potuto conoscere, ho pensato spesso di compiacere durante il paziente lavoro di raccolta. Alla fine ho finito per immaginarmelo davanti, circondato dal fumo denso delle consuete sigarette «popolari», assorto in queste Letture e completamente in trance come davanti al suo Meazza. Me lo sono visto alzarsi lentamente, sorridente di fronte a tanta ricchezza, allargare lo sguardo tutt’intorno e poi concedersi finalmente, lui tanto umile e generoso, un dolce sospiro di legittimo orgoglio[2].
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