domenica 28 ottobre 2007

Personaggi filesi (1) : Cömo


(ovvero: Ricci Maccarini Mario)

Ricordare Cömo, personaggio ricco di umanità ed ancora oggi nel cuore dei filesi, significa per me ritornare ai primi anni ’50, agli anni più belli dell’infanzia ed indulgere a quel mondo incantato delle favole che egli sapeva creare e raccontare con fascino ed inventiva certamente fuori dal comune.

Di lui ho scritto in più occasioni riportando aneddoti di grande comicità[1] che ne hanno però messo in luce le doti di singolare umanità e dolcezza, ma nel mio cuore egli ha sempre avuto un posto speciale come principe dei fularen, come narratore di un’epoca ormai perduta. Chi, come lui, possedeva spiccate capacità di intrattenimento, nel tempo antico, ossia quando la TV non si sapeva neppure cosa fosse, era spesso ospite graditissimo nei treb di antica memoria, riunioni fra amici e familiari che si tenevano nelle sere d’inverno.

Cömo rallegrava con la sua presenza grandi e piccini, ma in particolare questi ultimi subivano il fascino delle sue trame mirabolanti e dei suoi mondi fiabeschi. Nella nostra “casa operaia”, ove abitavano sei famiglie piuttosto numerose, Cömo era invitato un paio di volte l’anno ed erano serate in cui anche i grandi si raggruppavano intorno al camino. Vicino ad esso egli, dopo qualche convenevole, piazzava la sua sedia impagliata e pian piano cominciava a dispensare i suoi racconti con un piede sull’iröla ed il bicchiere di vino rosso sempre a portata di mano. Gli ascoltatori facevano cerchio intorno a lui e non perdevano, del suo narrare esperto e ritmato, una sola parola.

Ricordo la festa, la frenesia che coglieva i più piccoli della casa, ovvero io, Romeo Cantelli e Luisa Matulli. «E’ ven Cömo stasira in ca dla Carlina…», sussurrava il passaparola, e già toccavamo il cielo con un dito. Praticamente si cominciava a sognare ed a contare le ore fin dal mattino…

Cömo, poi, era un narratore davvero speciale: sapeva interrompersi, distribuire le pause al punto giusto, creare ad arte apprensione e suspense, tenere altissima in ogni momento la nostra attenzione.

Dalle sue labbra, e dalle parole armoniose che ne uscivano, pendevano le sorti e le avventure di draghi, «maghi dalle sette teste», principi, re e principesse capricciose, vecchie streghe ora buone ora tremende, prodigi ed incantesimi d’ogni genere, avventure e burle di personaggi eroici e quasi mitici nei quali proiettare la nostra fantasia. Ricordo Giuani zenza paura, il cane Scudon, «Luigi il cacciatore», ma su tutti naturalmente finiva per emergere Mingon, il giovinastro semplice di campagna che, sempre in cerca di fortuna, sfoderava nelle più disparate circostanze la proverbiale astuzia contadina. Attraverso di essa si cavava dai guai, oppure si guadagnava quella gloria e quella ricchezza che i poveri, da che mondo è mondo, possono purtroppo soltanto immaginare e sognare.

A quelle serate, come ho detto, partecipavano anche i grandi, ma non tutti. Mia sorella Carla ad esempio, già una ragazzetta, non ci poteva venire. Di sera era infatti il momento di «filare» ed il «filaren» avrebbe fatto da ventilatore raffreddando l’ambiente in un epoca in cui il caldo del caminetto andava preservato il più possibile. Lei poteva partecipare ancora e soltanto ai trĕb che si tenevano nelle stalle, sicché io, in queste speciali occasioni in cui si ospitava Cömo in casa d’Cantlen o d’Matol, avevo il compito di ascoltare ogni storia per conto di entrambi. Al mio ritorno dovevo poi ripeterle a mia sorella per filo e per segno, senza dimenticare alcun particolare.

Capitava naturalmente al padrone di casa di perdere talvolta di vista il bicchiere del narratore, ma l’accortezza di Cömo consentiva di avvertire il calice vuoto senza che lui lo dicesse apertamente. Semplicemente ci si accorgeva che Mingon s’era infilato nel bosco e non ne veniva più fuori. Ad un certo punto la Carlina dava un’occhiata preoccupata all’insù e poi: «Aviv sé Cömo…?» Era quella la parola magica e l’unico modo di far uscire dal bosco Mingon

Alcune favole erano molto strutturate ed intrecciate, sicché non si raccontavano in una sera soltanto, ma in due. Fu il caso ad esempio di «Luigi il cacciatore» e di «Mingon e la principesa dj indvinel».

La prima, una storia che richiese la presenza di Bulé, formidabile ma anziano fularen che la raccontava da una vita, l’ho sempre ricordata a memoria, fino a pubblicarla nel 1994 sotto forma di racconto[2]. Quel brano l’ho persino tradotto in esperanto per fargli fare il giro mondo e credo di aver dato tanta gioia ad altri bambini.

Quanto a Mingon e la principesa dj indvinel, ne tentai una prima stesura nello stesso testo[3], ma ho poi potuto ricostruirla meglio dopo aver letto alcune versioni dialettali che, in particolare nel finale, rispecchiavano meglio la narrazione di Cömo.

Credo di fare cosa molto gradita ai filesi pubblicando, contestualmente, in lingua italiana e sotto forma di racconto, la fôla nella sua ricostruzione completa, arricchita da qualche bella suggestione dialettale, in un succedersi di dialoghi e di scene che a me fa udire ancora la suadente voce di Cömo e che, credo, a tanti filesi farà tornare in mente tempi felici, seppure assai lontani.

Collegato a questa favola ho però anche un ricordo curioso ed allo stesso tempo triste. La sera che Cömo completò la narrazione nevicava a larghe falde fin dal pomeriggio e nella prima nottata una soffice coltre bianca avvolgeva ormai il paese nel più completo silenzio. Io e Romeo eravamo scesi in cortile da poco con un paio di bicchieri da riempire di neve per farci fare, nell’occasione, con un cucchiaio di «saba», un po’ di «granatina dei poveri». I grandi stavano mangiando attorno al fuoco del camino qualche cuciarôl in compagnia, quando si sentirono, nella bianca notte d’inverno, i rintocchi a morto delle campane della chiesa. Un passante ci urlò dalla strada che se n’era andato per sempre proprio il nostro parroco, Don Giuseppe Menegatti.

Salito su di un camion, aveva perso la vita al Baruffino, oltre Bando, in uno sventurato incidente stradale. Era il 9 febbraio 1953 (Agide Vandini).


[1] Si veda in A.Vandini, Gente semplice, quand che int la porta u j éra la ramètta, Faenza, Edit, 1994, pp.51-56 e A.Vandini, Il cestello dei ranocchi, Ravenna, Longo, 1999, pp.57-58.

[2] A.Vandini, Gente semplice, cit., pp. 87-94.

[3] A.Vandini, Gente semplice, cit., pp. 95-99.

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