sabato 15 maggio 2021

Il gioco del Beccaccino, «principe di Romagna»

 Perché si chiama così? Da quanto tempo si gioca?

di Guido Tarozzi

Presentazione di Agide Vandini

 

 

Una dozzina d’anni fa dedicai, su questo blog, un bell’articolo, molto dettagliato, al gioco di carte più amato dai romagnoli. Aveva per titolo: «E’ tempo di Tressette … - Trisët, Bëcacino (o Marafõ) e i suoi derivati in Romagna (Per chi volesse leggerlo, questo è il link per l’accesso diretto:

 

        http://filese.blogspot.com/2009/12/e-tempo-di-tressette.html

 

Guido Tarozzi, nuovo amico dell’«Irôla» che scrive per «Il Romagnolo», dopo averlo letto, mi ha mandato queste stuzzicanti e divertenti note che potrebbero toglierci qualche ulteriore curiosità. O forse no?... Lo si saprà soltanto dopo averlo letto… (a.v.)

 

° ° °



 Questa mia ricerca avrebbe l’ambizione di chiarire, una volta per tutte, perché il gioco “nazionale” della Romagna viene chiamato Marafõ (nel forlivese) e Bëcacino (nel ravennate), nonché in quale secolo si è iniziato a giocarlo. 

 I cultori e gli studiosi di tradizioni romagnole e dei giochi popolari delle carte in Romagna hanno cercato di rispondere a questi interrogativi, ma con risultati poco soddisfacenti. Io ci provo, sbarazzandomi dei soliti «si dice», «sembra», ecc, e cercando di basarmi su prove documentate e testimonianza dirette.

 Gli amici di San Varano / Vecchiazzano non me ne vogliano se io contesto, in parte, quanto hanno scritto, nella lapide in ceramica affissa nel 1995 nella facciata della loro Banca:

 

Qui, in San Varano, vuolsi prendesse vita

ai primi del 1800, il marafò o beccaccino,

gioco principe, della gente di Romagna,

invenzione democratica, nella terra degli uguali,

giocato da Galantoman,

con le sole tre parole rituali: bòss, stréss, vòl.

 

Se dovessimo prestare fede alla targa suddetta, beh, già l’incipit non appare troppo convincente: vuolsi, si presume, forse... 

Per mettere un po' d’ordine, partirei dalla consultazione dei vocabolari Romagnolo-Italiano di Antonio Morri[1], pubblicato nel 1840, e quello di Antonio Mattioli[2], pubblicato nel 1879. Si tratta di dizionari destinati “a soccorrere quei romagnoli che abbisognano di conoscere l’equivalente italiano del vocabolo in dialetto”. Questi testi riportano soltanto i termini Primiera, Trisett (Tresette), Brescula (Briscola) e Creca (Cricca), senza alcun riferimento al Marafõ / Bëcacino… Sembrerebbe quindi che, almeno a Faenza, a metà dell’Ottocento i giochi più diffusi fossero il Tresette, la Briscola e la Primiera[3].

Il primo a pubblicare nel 1975 uno studio, direi scientifico, sul gioco più amato dai romagnoli fu il faentino Alteo Dolcini, storico e pubblicista, che cercò di dare una risposta esaustiva agli interrogativi già posti. Intervistò alcuni abitanti della bassa provincia ravennate, altri dei paesi della vallata del Montone, del Savio, del Senio e del Santerno, cercando di ottenere risposte univoche. Nessuno però fornì soluzioni soddisfacenti, suffragate da fonti certe.   

Altri appassionati cultori di questo gioco tradizionale hanno scritto del Marafõ / Bêcacino spiegando dettagliatamente le regole del gioco (vedi Pino Melandri e Tarcisio del Gardo), ma non hanno affrontato, se non sommariamente, l’intricata matassa delle origini e del significato del termine. Se poi andiamo a sentire i pareri di due autentiche autorità nel campo del dialetto romagnolo, quali Libero Ercolani[4] e Friedrich Shurr[5] l’interrogativo si ingarbuglia ulteriormente.

Il primo, nel suo vocabolario, alla voce Marafòn ci dice che può essere “uno stampo da caccia, per appostamento in valle, costruito con erba palustre o uno zimbello di paglia, oppure, in alternativa,  un gioco che si fa con le carte romagnole”. Lo studioso Friedrich Schurr, invece, sostiene che potrebbe trattarsi di un gioco nato nell’ambito dei cacciatori. A suo dire “il beccaccino” oppure il “marafone - zimbello” potrebbero essere stati la posta in gioco fra cacciatori”.

Nel 2014, lo stesso maestro Libero Ercolani, in una sua lettera ad Alteo Dolcini, ritornando sull’argomento, dichiarava che il termine Marafõ potrebbe essere associato all’omonima voce dialettale ottocentesca “arraffone, furbacchione, imbroglione, astuto”. A tale riguardo l’ingegnere e scrittore Umberto Maioli, nato a Ravenna nel 1878, in “Ravenna e le sue piccole memorie” definisce un certo Michele Salter, veneziano, appaltatore di lavori pubblici con fama di arraffone: «uno di quelli che in gergo di affari vengono chiamati marafoni».

Fatte queste considerazioni sul significato dei due termini, resterebbe ora da stabilire l’epoca di diffusione del gioco in Romagna.

All’inizio del gennaio 1920 uscì la rivista La Pié di Forlì [6] e uno degli articoli di quel primo numero fu dedicato a “Il gioco delle carte in Romagna”. L’autore vi sosteneva che il più praticato nei circoli di campagna, nelle cameracce, nei trebbi, nelle osterie, nelle stalle, era il cosiddetto malèt [7] mentre il gioco d’azzardo più diffuso era žughê a tajê (bassetta)[8].

  Poco più tardi, nel 1924, a Ravenna, fu pubblicato un libretto di una cinquantina di pagine sui giochi di carte più popolari in Romagna. In esso furono menzionati una quindicina di giochi con l’indicazione delle le rispettive regole di base. ll Beccaccino alias Marafõ, alias Trisët cun e’ taj, come lo chiamano nel lughese, alias Piròc’ nel cervese oppure infine, Trionfo nel ferrarese, nel libretto viene totalmente ignorato.       

  Libero Ercolani, cui si è già accennato in precedenza, ricorda invece che nel 1873 il nonno materno frequentava la “Camarazza” di S. Pietro in Vincoli, ritrovo dei repubblicani, “quelli buoni, intransigenti, cioè contrari alla collaborazione con il governo del re” ove si giocava già a Marafõ, (non Beccaccino, naturalmente, perché qui gravitiamo sul forlivese: tutte le Ville Unite per questo lo chiamano Marafõ; bisogna passare il Ronco per sentirlo chiamare Beccaccino).

Quanto alla passione diffusa ed all’accanimento profuso in questo gioco negli anni più recenti, posso testimoniarne per esperienza diretta.


A partire dagli anni ‘70, del nuovo secolo, la Società del Passatore di Faenza iniziò ad organizzare Tornei di Beccaccino nei Circoli cosiddetti “dei Signori”, nelle città-sorelle romagnole. A questi tornei partecipai in diverse occasioni e debbo dire, senza tema di smentita, che i “galantǒman” (citati nella lapide di San Varano) spesso si comportavano  da Marafoni (nel significato anzi detto).

Gli organizzatori faentini si accorsero ben presto che le coppie più affiatate, spesso vincenti, riuscivano a farsi dei “segni” convenzionali (sarebbe troppo lungo spiegare le molte “malizie” possibili); essi ritennero quindi necessario collocare sul tavolo, di traverso, un “paravento” mobile, in compensato, con una apertura in basso ove venivano calate le carte, in modo che i giocatori di ogni coppia non si potessero vedere; ma i “galantǒman” continuarono ugualmente a farsi dei segni con le mani ricorrendo a sotterfugi ancora più sofisticati.

Gli instancabili e volenterosi organizzatori applicarono allora, ai paravento, degli appositi scivoli per la carta che poi slittava sul tavolo; a quel punto il gioco era ormai completamente snaturato, non era più un divertimento… Molti, e io fra questi, smisero di partecipare, sicché gli organizzatori ad un certo punto si arresero.

Questo, in fede mia, è quanto succedeva a fine Novecento nei Tornei “ufficiali” del Passatore e nessuno mi smentirà. Del resto, per quel che ne so, ora nel territorio ravennate si organizzano solo tornei di Briscola ove il gioco stesso permette, segni, ammiccamenti, insomma tutto.

Tornando alla targa di San Varano, essa ci ricorda che si tratta di un gioco «democratico» e questo è proprio vero, poiché chi siede al tavolo da gioco, sa che deve spogliarsi di ogni titolo professionale ed onorifico (dottore, avvocato, presidente, o cavaliere che sia…), diventando un “uguale”, un uomo libero, quasi al di sopra di ogni convenzione, ovvero: né proletario, né borghese, né capitalista. 

Sicuramente, come recita la lapide, il Marafõ - Bêcacino è da molto tempo il gioco principe della “Nazione Romagna”, gioco nel quale il romagnolo esprime molte sue caratteristiche: cocciuto, caparbio, arrogante, determinato e, allo stesso tempo, anche entusiasta. Egli alza la voce facilmente, sia per arrabbiarsi, sia per offendere, anche se in alcuni posti le parole «somaro» e «pataca» da tempo non sono più ritenute offensive. Altrettanto fa per gioire e compiacersi, ma si sa il romagnolo per carattere tende in politica e nel gioco ad estremizzare tutte le situazioni e... ad accendersi. 

 Anche nelle partite al bar, nei Circoli e nei Bagni al mare, dove ci si disputa, tuttalpiù, la bevuta analcolica e le partite si giocano con spirito alquanto goliardico, i galantǒman sono assai lesti nel colpire, specialmente nella fase concitata della fine della “mano”.

In quel momento gli animi diventano esagitati, le discussioni infinite e l’attenzione latita: chiamare un punto in più, in quegli attimi, può capitare (ad esempio se una coppia fa 5 punti e 2 figure, cosa sarà mai chiamare 6 punti: l’avversario disattento e concitato potrebbe cascarci…). Non a caso si è fatto largo un singolare modo di dire: “rubare un punto nella chiamata è da ladro, rubare una figura (tre figure sono un punto) l’è da galantǒman”. 

In conclusione, forse anch’io non sono riuscito a sciogliere ogni dubbio. Ho dedicato molto tempo alla ricerca di fonti certe, ma ho trovato anch’io, in molti casi, soltanto dei “si dice...”.

In ogni caso tuttavia, grazie alle ricerche di Dolcini, mi par di capire che qui nel ravennate, nel lughese e nel faentino si è iniziato a giocare il Beccaccino solo nel XX secolo.



[1] Noto studioso faentino di tradizioni popolari, letterato, glottologo, insegnante di belle lettere.

[2] Militare ed uomo politico di Castelbolognese.

[3] A meno che il gioco del Marafõ-Bëcacino, ovvero il Tressette con le briscole, all’epoca del Morri non fosse ancora nato il che pare potersi escludere. Al riguardo, avendo studiato a fondo quel vocabolario per una ricerca del gergo furbesco e maliziosi dei muratori, mi sento di affermare che il suo autore, era  ben addentro al linguaggio popolare dei romagnoli ed in particolare dei faentini.

[4] Dialettologo di Bastia di Ravenna, autore del vocabolario Romagnolo-Italiano pubblicato nel 1960.

[5] Famoso glottologo viennese ed emerito studioso del romagnolo.

[6] Rivista dedicata alla ricerca culturale e alle tradizioni popolari romagnole, diretta da Aldo Spallicci.

[7] Gioco per 4 partecipanti con 36 carte, diverso dal Tressette.

[8] Basti ricordare i versi di Olindo Guerrini nel celebre sonetto «Gita di piacere»:  « E int e’ mèntar ch’asptemia da magnê / Sovra la tavulaza dl’ustarì, / Sissignora, a zughesum a tajê…» [E mentre aspettavamo da mangiare /Sul tavolaccio dell’osteria / Sissignora, giocammo a «bassetta»…]

Nessun commento: