Caduto a vent’anni in combattimento, alle pendici
del Monte San Michele
di Agide Vandini
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Lo zio Sintùla, ovvero Sante Toschi, fratello
maggiore di mia madre Elvira, lasciò i suoi vent’anni nei primi mesi della
Grande Guerra, al Bosco Cappuccio nei pressi del San Michele, proprio là dove
combatté in quegli stessi giorni il celebre Ungaretti[1],
fra reticolati e trincee alle pendici di un «monte» tanto remoto e lontano dalla
Bassa Romagna, la terra ove era nato e che aveva accolto la sua breve gioventù.
Alto appena 275
metri, ma considerato strategico per l’attacco a Gorizia, il Monte San Michele evoca
ancora oggi una serie di battaglie sanguinose e crudeli, un’altura ove si
fronteggiarono forze agguerritissime e che vide morire, prima e dopo quel 31
ottobre 1915, migliaia di ragazzi come il giovane Sante.
Lui era il
primogenito di Angela Berti (la dolce e premurosa nonna Angiùla) e Pasquale Toschi (Nunì
Capitèni), nato il 12 gennaio del 1895 quando la sua famiglia abitava
ancora a Conselice. Lì il nonno, faceva con sapienza e dedizione il contadino e
l’arždór nella possessione
dell’Ospedale, come già il trisnonno venuto da Campanile, terra degli avi e borgata
a pochi passi da Conselice, sia pure amministrativamente sotto la Brušê, ovvero Santa Maria di Fabriago.
Pochi mesi prima
della sua nascita, Pascvalèñ aveva
sposato l’Angiùla, dolce ventenne di Barizèt (Belricetto), nella Chiesa di
San Bernardino (23.2.1894), una cerimonia poi ripetuta in Comune (1.3.1894)
come allora era necessario fare. In chiesa ed all’anagrafe i due freschi sposi vollero
dare al primo della loro cospicua nidiata di figli il nome di Sante, appartenuto
al padre di Angiùla, un uomo scomparso
assai giovane nel ’77 quando lei aveva appena tre anni. In famiglia tuttavia l’appellativo
del ragazzo divenne l’affettuoso diminutivo dialettale: Sintùla. Quel nome fu del resto ripreso più volte, nella
discendenza dei Toschi (I Capitèni),
come in quella dei Berti (I Caróz)
con alterna fortuna. A Filo dove vennero a stabilirsi alcuni rami di queste famiglie,
fra i tanti «Sante» ne abbiamo conosciuti due: Sante Toschi detto Baréra e Sante Berti detto Sintòñ, entrambi personaggi pittoreschi
di cui ho avuto il piacere di narrare alcuni gustosi aneddoti pochi anni fa, nei
libri dedicati ai racconti e personaggi di casa nostra.
Aveva circa
quattro anni Sintùla, quando (1899) coi
miei nonni e col fratellino minore Antonio (Tugnéñ)
si spostò da Conselice a San Patrizio, in un podere che stava in fondo alla Via
Guberta, a poca distanza dallo scolo Contina Tagliata.
Un altro suo
fratellino (Giuseppe Salvatore) era nato e vissuto per pochi giorni all’inizio
del 1897, ma poi, in quel fondo di San
Patrèzi, Sante vide nascere, un dopo l’altro, una folta scuderia di
fratelli e sorelle: Patrizio (1900), Pia Norma (1901, persa l’anno dopo), Maria
(1903), Pia Ida (1905), Giuseppina (1906), Benilde detta Serena (1908), Giuseppe detto Pipèñ
(1911) ed infine Elvira (1913), la mia mamma, che però non fu l’ultima nata. A
San Lorenzo di Lugo infatti, nella casa contadina di via Pollarola dove la
famiglia si trasferì alla fine del ’13, la nonna, allora quarantenne (1914), partorì
per la dodicesima volta. Alla piccola fu dato il nome di Tisa, ma sopravvisse purtroppo
appena poche ore.
Sintùla, in quel 1914 che stava infiammando
l’Europa, aveva diciannove anni e la sua famiglia, che includeva anche la nonna
paterna Clelia, si componeva di ben dodici persone: padre, madre, nonna e nove fra
fratelli e sorelle. Prima o poi, Sante sarebbe stato anche lui l’arždór di una famiglia contadina con tante buone braccia, di
quelle che, a quell’epoca, lavorando un buon appezzamento di terra, sia pure a
prezzo di immani fatiche e sacrifici, difficilmente facevano la fame. Di certo
ne soffrivano meno di altre, anche se i nostri contadini, forse ancor più di
chi faceva il bracciante a giornata, pativano nel profondo del cuore
l’ingiustizia e la rabbia secolare di chi lavorava ogni giorno la terra col
proprio sudore e doveva poi lasciare la maggior parte dei frutti a chi la terra
non la toccava, ma la possedeva.
Anche per questo
c’erano stati nella nostra Bassa i grandi e duri scioperi di inizio Novecento e,
proprio in quello stesso 1914, fra l’8 ed il 12 giugno, a ridosso del primo
conflitto mondiale (il 28 luglio 1914 l’Austria dichiarò guerra alla Serbia),
la Romagna ebbe un fremito di ribellione, nei moti che presero il nome di
«settimana rossa»[2].
Di certo non
immaginava di andare in guerra il diciannovenne Sintùla, quando, pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto (3
agosto 1914), l’Italia, fino ad allora parte della “Triplice” e dunque alleata
dell’Austria, si era dichiarata neutrale. Una guerra che non volevano molti
industriali italiani (quelli che avrebbero preferito vendere armi a tutti i
contendenti), né gran parte del mondo politico, dai liberal-giolittiani, ai
cattolici di Benedetto XV, fino alla maggioranza del Partito Socialista che, assai
dibattuto al suo interno in Italia ed in Europa, si risolse nell’ambigua
formula «né aderire, né sabotare».
Nel giro di
pochi mesi, però, ebbero la meglio i liberal-conservatori di Salandra e Sonnino,
nonché quei settori dell’industria che aspiravano ai superprofitti di guerra, magari
propugnando l’intervento a fianco dell’«Intesa» in nome delle terre irredente e
dell’eredità storica del Risorgimento. Fra i Socialisti si dichiararono
«interventisti» i riformisti di Bissolati e ad essi si aggiunse il
social-massimalista Benito Mussolini che, finanziato dal governo francese, nel
novembre del ’14 passò dal campo neutralista a quello
interventista-nazionalista e fu di conseguenza espulso dal PSI. A nulla valse
la tardiva disponibilità dell’Austria espressa alle concessioni territoriali cui
mirava l’Italia. Il 26 aprile 1915, col Patto di Londra, il nostro paese si
impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’«Intesa».
Fu per questo
che a Sante Toschi detto Sintùla pervenne,
come a tanti altri giovani romagnoli ed italiani della sua età, la tanto temuta
cartolina. Lui fu arruolato nel 147° Fanteria, un Reggimento da poco costituito
(20 aprile 1915) e inquadrato nella Brigata Caltanissetta.
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Cartolina (Fronte
e Retro) del 147° Rgt. Fanteria che assieme al 148° compone la Brigata
Caltanissetta, con indicazione delle battaglie combattute nel corso del
conflitto. La vignetta centrale raffigura i combattimenti della Seconda
Battaglia dell’Isonzo.
Quando il figlio
maggiore partì per la guerra, la famiglia di Nunì Capitèni stava ancora a San
Lurénz, nel lughese, ma era in procinto di trasferirsi in altro sito a poca
distanza da Conselice, a Portonovo di Medicina; lì la famiglia rimase dal 1
Giugno del ‘15 al 14 novembre del ‘16.
Le vicende dello
zio Sante, partito per la guerra quando mia madre, sua sorellina più piccola,
aveva poco più di due anni, le conosciamo grazie al diario della sua Brigata, una
storia che ho ritrovato sul web, scritta in classico stile militaresco. Sono
brevi note, quelle relative all’anno 1915, da cui traggo un primo brano:
Partita da varie sedi della Sicilia, la
brigata il 9 giugno è a Cusignacco (26° Divisione).
Destinata nella zona Carnica, il 29 è
inviata fra Caneva, Resiutta e Moggio Udinese, ma vi permane poco tempo,
poiché, il 30 luglio, è trasferita fra Brazzano e Cormons ed il 2 Agosto a
Romans, quale riserva del XIV° Corpo d’Armata.
Posizioni al 4 luglio 1915, alla fine
della Prima battaglia dell'Isonzo. Si nota come l'Esercito italiano era stato
in grado di conquistare due posizioni importanti come Bosco Lancia e Bosco
Cappuccio, trampolini per la seconda battaglia dell'Isonzo che inizierà solo
qualche giorno dopo la chiusura della prima. Gli italiani non riuscirono
comunque a conquistare un'altra posizione favorevole come il Bosco Triangolare
che rimase saldamente in mano austriaca.
L’11 agosto [la Brigata] raggiunge il
Bosco Cappuccio (28° Divisione) ove schiera il 147° in prima linea e disloca a
Sdraussina [oggi
Peteano] il 148°, il quale, il 21, è
anch’esso in prima linea.
Fino al 17 settembre la brigata sostiene
nel tormentato settore una lotta continua, snervante, nella quale i suoi
reparti, alternando le azioni ai lavori di zappa, riescono a guadagnare palmo a
palmo l’insidioso terreno, serrando molto sotto alle posizioni avversarie dalle
quali in qualche punto distano appena venti metri.
E’ un battesimo duro di fuoco che la
«Caltanissetta» ha sostenuto molto bene, ricevendo ripetuti elogi dalle
superiori autorità. Essa ha perduto in questo periodo di lotta, 29 ufficiali e
1358 gregari.
Il 18 settembre, sostituito in linea, è
inviato nei pressi di Versa per il meritato riposo e per il necessario
riordinamento[3].
Il fante Sante
Toschi, col suo 147 Rgt. Fanteria, rimase perciò ininterrottamente in prima
linea per una quarantina di giorni, fra l’11 agosto ed il 18 settembre, durante
la cosiddetta «seconda battaglia dell’Isonzo» scatenata nei primi mesi di
guerra, attraverso la quale il generale Cadorna credette di poter conquistare
Lubiana in poche settimane e di lì puntare su Vienna. Borgo Cappuccio, come
Bosco Lancia e Bosco Triangolare nei pressi del Monte San Michele, erano i punti
in cui era dispiegata l’agguerrita prima linea austriaca. Dopo una Prima
battaglia in cui si fu costretti a rientrare alle linee di partenza, nel luglio
del ’15, si reiterò il tentativo di sfondamento delle difese nemiche, in
particolare a Bosco Cappuccio, vera chiave di volta per la conquista del paese
di San Martino del Carso. Le difese austro ungariche, su due linee protette da
quadruplice fila di reticolati, con decine e decine di nidi di mitragliatrici,
non cedettero[4].
Quella Seconda
battaglia dell'Isonzo segnò per l’Italia, nell'estate del 1915, il massimo dello
sforzo; quasi tutte le riserve furono impiegate, con un consumo enorme di
munizioni e mezzi di trasporto; si esaurirono le scorte di benzina e di cibo.
Si rese necessaria una sosta, per colmare le file dei reggimenti con nuovi
rincalzi ed attendere l'arrivo di altra artiglieria campale, dal momento che
quella utilizzata si era dimostrata largamente insufficiente a coprire il
fronte degli attacchi della nostra fanteria[5].
Il 21 ottobre
1915, ebbe così inizio la furiosa Terza battaglia dell'Isonzo. Alternate le
truppe italiane in linea, di fronte al Bosco Cappuccio fu schierata la Brigata
Catanzaro cui si aggiunse la Caltanissetta. Nonostante l'eroismo dei fanti,
furono conquistate solo modeste posizioni ed avamposti nemici, senza che la
difesa fosse minimamente intaccata. La cattiva stagione e l'esaurimento delle
Brigate italiane, dissanguate da mesi di inutili assalti, consigliò al nostro
Comando Supremo una sospensione delle operazioni[6].
Bosco Cappuccio -- Linea delle trincee
italiane da cui muove l'offensiva del novembre 1915 verso Bosco Cappuccio, in
fondo.(Dalla rivista L'Illustrazione italiana, 20 febbraio 1916).
Carso, trincee italiane costruite con sacchi di terra e
sassi.
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Ripercorriamo comunque
i terribili giorni e i movimenti di truppe che interessarono lo zio Sintùla nel Diario di guerra della sua
Brigata:
Il 26 Ottobre [la Brigata
Caltanissetta] è schierata col 148° nelle posizioni del Bosco Lancia, mentre
il 147° fin dal 22 combatte al Bosco Cappuccio [comandante il Col. Polver
Gaetano], riportando qualche vantaggio territoriale. Ripresasi l’azione, la
brigata fino al 2 novembre s’impegna in una lotta accanita nella quale i
reparti gareggiano in eroismo. Le posizioni avversarie sono più volte
conquistate e perdute data la tenace ed attiva reazione dei difensori, ma
finiscono per cadere la maggior parte in possesso dei nostri che le
rafforzano e le mantengono, catturando prigionieri, armi e materiali. Le
perdite della brigata sono un indice sicuro della strenua lotta: 95 ufficiali
e 3946 uomini di truppa. Il 7 novembre la Caltanissetta scende nei pressi di
Versa per riposare e riordinarsi.
Le perdite del
solo 147° Fanteria, fra il 22 ottobre ed il 6 novembre, nell’area di Bosco
Cappuccio – Sella di San Martino del Carso – Q. 441 – Bosco Lancia furono:
Ufficiali: 15 morti, 12
feriti, 6 dispersi ; Truppa: 124
morti, 545 feriti, 730 dispersi.
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Fra quelle
perdite di orribili proporzioni e fra quei 124 morti e 545 feriti, va purtroppo
annoverato anche lo zio Sante “morto nell’ospedaletto da campo n. 98 il 31
ottobre 1915”.
Nella casa dei Capitèni, così mi diceva mia madre, si è
sempre tramandato che, alla notizia della perdita di Sintùla, la nonna, affranta dal dolore, ebbe quasi a morirne, tanto
la gettò nello sconforto e nella disperazione il pensiero del figliolo caduto
chissà dove, per una guerra di cui non riusciva
a darsi ragione.
Sante ebbe in un
primo momento, a spese dei familiari, una bella ed ordinata tomba nel cimitero
di Romans d’Isonzo.
La sua famiglia invece
si spostò ancora. Da Portonovo di Medicina, poco più di un anno dopo, il 16
novembre del 1916, il nonno venne a stabilirsi nell’argentano, a pochi passi da
Filo, alla Campagnona in terra di San Biagio. In quegli anni, nel cimitero sanbiagese
fu eretto un elegante cippo a ricordo dei caduti di guerra. Le pareti laterali ospitarono
le fotografie e i nomi, rispettivamente, dei Morti per Malattia, dei Dispersi e
dei Caduti in Combattimento. Sante si trova ancora lì, presente, fra quest’ultimo
gruppo.
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Il cippo di san
Biagio – Sante Toschi è il penultimo della colonna più a destra.
Durante il turbolento
dopoguerra la nonna Angiùla andò in
treno più volte fino a Romans d’Isonzo sulla tomba del figlio. Intorno al
1926, quando ormai la famiglia si era spostata a Filo, alla Casetta (dove mia madre conobbe
giovanissima mio padre Guerriero), fu finalmente possibile trasferire la
salma al cimitero di Filo. Qui Sintùla
riposa ancora oggi, raggiunto negli anni ‘50 dagli amati genitori, morti
serenamente in vecchiaia. Da loro, Sante ora non può staccarsi mai più.
Nel centenario
dell’entrata in guerra dell’Italia e della morte dello zio Sante, il pensiero
mio, dei nipoti e dei discendenti di Nunì
e dell’Angiùla va perciò, non senza
una punta di fierezza e di orgoglio, soprattutto a quel dolore, a quella vita
stroncata, a quella bella gioventù straziata e perduta sul Carso, quando, fra
grida, stenti e colpi di mitraglia, la morte falciò senza pietà, ai margini
di un Bosco, alle pendici di un’altura come tante, chiamata Monte San Michele.
A
fianco:
mia nonna Angiùla (Angela Berti) in
visita alla tomba del figlio Sante a Romans d’Isonzo, negli anni ’20 del ‘900
(dal mio album di famiglia).
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[1] In piena guerra
il poeta, per un improvviso mutamento
del paesaggio, trova uno spiraglio di evasione e di sogno. Bosco Cappuccio, il colle che offre al poeta lo spunto ed il
pendio di erba verde come il velluto, diventa una riposante poltrona. L’immagine
porta il poeta lontano, non più al Carso
straziato dalla guerra, ma ad un caffè di Parigi dove riposa alla luce di una lampada, una luce
fioca come quella della luna che imbianca
Bosco Cappuccio. Il caffè più di una speranza per il futuro è un dolce ricordo
del passato. (http://balbruno.altervista.org/index-1180.html). Il dipinto
raffigurante Bosco Cappuccio è di Andrea Palermo da Padova.
[2] Per le notizie
di Storia generale relative al primo conflitto mondiale, si fa riferimento alla Grande Enciclopedia
Agostini, vol. X, pp.146 ss.
2 commenti:
Ciao Agide,
Ho letto il tuo bel racconto sul centenario della prima guerra mondiale,e mi ha particolarmente colpito la tua esposizione cosi'spontanea e liricamente perfetta , come solamente tu sai fare. Anche questo tuo scritto l'ho letto tutto d'un fiato e mi ha colpito, se mai ce ne era bisogno,la giovane eta' del tuo Carissimo ,che si e'IMMOLATO per la Patria ed il dolore che si scorge in quella bellissima immagine di tua Nonna che depone fiori sulla tomba dell'adorato figlio.Anche mia moglie ha perso il nonno sul carso,e la nonna era rimasta vedova con 2 bambini.Ti mando un forte abbraccio. Pippi
Grazie Pippi per l'apprezzamento. E' una ricerca che mi ha preso molto, mano a mano che riuscivo a trovare le tracce della breve e drammatica guerra dello zio Sintùla. Non mi sono staccato dal computer, per ore ed ore, giorno e notte, fino a che, partito dalle cose che mi raccontava mia madre, non sono riuscito a comporre la sua storia familiare e militare. Via via si è arricchita di particolari e di immagini importanti e preziose che ora permettono di capire il contesto, l'azione di guerra, che tolse la vita allo zio Sante a poco più di vent'anni.
Un grande abbraccio anche a te.
Agide
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