Memorie
dal «Quaderno» (2)
di
Giovanni Pulini – Introduzione di Agide Vandini
1945
- Agro filese. Desolazione, ordigni bellici e campagne incolte è quanto la
guerra ha lasciato dietro di sé.
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E’ una foto assai emblematica quella con cui ho scelto di introdurre il tema; la scelsi già come copertina per la mostra fotografica del 1996 di cui fui coordinatore[1]. Ci racconta, col realismo e la durezza che possono avere solo certe immagini, da dove dovettero ripartire i nostri padri all’indomani della Liberazione.
Cessato
il crepitare delle armi, a Filo forse più che altrove, si contarono morti, rovine
e distruzioni. Ed una economia che doveva ripartire dal nulla.
Si
realizzava finalmente il grande sogno di Libertà, ma si annunciava una
democrazia tutta da ricostruire, proprio come il nostro piccolo paese
devastato.
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I
filesi, forti di un carattere caparbio e combattivo, cercarono di lasciarsi
alle spalle gli orrori della guerra, rimboccandosi le maniche fin dai
primissimi momenti. Gettarono ogni energia morale e materiale nella
ricostruzione. Rifondarono Collettivi e Cooperative, liberarono i campi dalle
mine, distribuirono quel poco che c’era in modo che nessuno facesse la fame ed
ararono seminarono anche laddove i padroni latitavano. La vita poco a poco
ripartì.
Non
tutte le attese però furono soddisfatte, molti sogni svanirono.
Quanto
ci racconta l’ex partigiano Giovanni, tratto dal suo Quaderno dei Ricordi ne è
una fedele e preziosa testimonianza (Agide Vandini).
°°°
Le persone, quanto più avanzano
gli anni, più sono smemorate.
Spesso mi capita di non ricordare le cose
banali del giorno precedente, ma non ho mai dimenticato il periodo che ho
trascorso nel dopoguerra: mi sembra un vissuto di ieri e sono passati, invece,
settanta anni.
Ricordo gli amici di quel tempo legati ad innumerevoli
episodi.
Mi sembra di alleggerire il peso degli anni
raccontando ciò che è sempre vivido nella mia mente.
Alla fine della guerra, nella quale molti
della mia generazione erano stati coinvolti, ci si aspettava una vita migliore,
ma non fu così.
Sono nato in un paese prettamente agricolo,
Filo; gli abitanti erano per lo più braccianti, ma i terreni adatti al lavoro
erano pochi poiché la maggior parte di essi erano minati o allagati quindi
c’era scarsità di richiesta nel settore agricolo.
Le case, in buona parte
distrutte, andavano ricostruite e si richiedevano muratori così che anch’io
lavorai saltuariamente come manovale muratore.
Cercai anche di lavorare in
proprio, ma, non avendo soldi da investire, non ebbi fortuna.
In quegli anni venne votata una
Legge che permetteva agli ex combattenti di avere la precedenza nei concorsi di
lavoro.
A Ravenna si stava costruendo uno stabilimento
petrolchimico di Stato, l’ANIC, e, messo
a conoscenza del fatto che si erano aperte le domande per un posto di lavoro,
feci richiesta di un posto come autista. Dopo un breve periodo venni convocato
per un test psicotecnico, e, superandolo, mi si disse di portare il libretto di
lavoro, cosa che feci l’indomani stesso. Nell’occasione mi fu detto che entro
pochi giorni sarei stato chiamato per iniziare il lavoro di autista.
Cominciarono giorni di attesa ed invece della convocazione mi arrivò una busta
con all’interno il mio libretto di lavoro accompagnato da una lettera nella
quale mi si diceva che la mia assunzione era stata annullata per un cambio di
programma dello Stabilimento.
Anni dopo seppi, da un ex
funzionario dell’ANIC addetto alle assunzioni proprio di quel periodo, che la
vera ragione della mia esclusione la si poteva trovare proprio nel mio libretto
di lavoro dove, insieme alle generalità,
era messa in evidenza la mia
attività di ex partigiano combattente, quindi per l’Azienda potevo
essere un probabile “seminatore di zizzania”! Uno stabilimento di Stato mi
aveva chiuso le porte in faccia, nonostante la Legge me le avesse spalancate!.
Agli inizi degli anni Cinquanta ero già
sposato, avevo una figlia e, nonostante avessi bisogno di aiuto e lavoro, non
mi rivolsi mai alle Associazioni degli ex combattenti, forse per orgoglio.
Saltuariamente lavoravo nella grande “Cooperativa Terra e Lavoro” di Filo,
insoddisfatto per la precarietà del lavoro e la mancanza di garanzie per il
futuro.
Mia moglie ed io decidemmo di
emigrare a Bologna: a quei tempi le distanze brevi diventavano grandi distanze.
Ci stabilimmo in un condominio abitato da venti famiglie e per noi, che
venivamo da un paese dove raramente nella stessa casa abitavano due famiglie,
l’impatto psicologico fu forte.
A mio parere, Bologna era una
città non abituata all’immigrazione, la
città non necessitava di lavoratori generici, ma di lavoratori specializzati:
io ero un generico e non trovavo un’occupazione. Anche la Legge non mi aiutava
molto in tal senso in quanto per avere diritto al lavoro bisognava essere
residenti e per essere residenti era necessario dimostrare di avere un lavoro.
Sapevo fare l’autista.
Seppi che il “mercato” degli
autisti si svolgeva nella vecchia Sala Borsa della città; lì un gran numero di
autisti si radunavano in cerca di qualche ora d’ingaggio, ma poiché l’offerta
superava la richiesta va da sé che la paga era al ribasso e “in nero”.
Mi fu suggerito di mettere un
annuncio sul giornale locale come “autista patentato di lunga esperienza,
tuttofare”. La risposta venne da un signore proprietario di un magazzino di
carta. Fra le tante cose che mi elencò, nei miei compiti rientrava anche quello
di accudire due cani barboncini facenti parte del nucleo familiare: avevo già
capito che non era un posto di lavoro adatto al mio temperamento, inoltre,
secondo il mio parere, il Commendatore, come voleva essere chiamato, non
necessitava di un dipendente, ma di una persona da sottomettere a suo
piacimento.
Avevo rischiato la vita per difendere la
dignità della persona e la libertà come uomo, difficilmente avrei sopportato la
sottomissione!
Quando il Commendatore aveva bisogno del mio
operato, a voce alta, nei corridoi, chiedeva al
magazziniere, che chiamava Maresciallo, dove fosse “l’uomo”: un giorno,
gli ricordai che il mio nome era Giovanni, ma il Commendatore continuò a
chiamarmi “l’uomo”!
Una sera, poco prima della
chiusura del magazzino, mi convocò, mi
disse di prendere l’automobile, recarmi dalla moglie e mettermi a disposizione
della stessa: ciò non rientrava nei patti di lavoro, tanto meno fuori orario;
la paga era settimanale e nella busta
trovai una cifra, oltre lo stipendio pattuito, che potrei definire solo una
mancia. Commentai il fatto col magazziniere e mi spiegò che lo stesso
trattamento era stato riservato ai miei predecessori: se mi fossi lagnato, come
loro sarei stato licenziato!
Avevo un gran bisogno di lavorare, ma non
avrei mai potuto vivere a lungo una situazione di tale sottomissione. Il lavoro
continuò per qualche mese, venivo ancora chiamato “l’uomo”, continuavo a fare
orario extra.
Finalmente un giorno, un bel giorno, trovai
un’altra occupazione. Al commendatore dissi che mi licenziavo senza preavviso,
ben sapendo che avrei dovuto rinunciare all’indennità di licenziamento; uscii
dall’ufficio, e dal magazzino, soddisfatto nell’animo, mentre il Commendatore
urlava come una bestia per l’affronto: non gli avevo permesso di decidere la
sorte de “l’uomo”!
Giovanni
Pulini, Maggio 2015
[1] Festa Unità Luglio
1996. «Filo 1945-1960: Gli anni della ricostruzione» (Coordinamento e testi guida: Agide Vandini, Servizio fotografico: Giovanni Montanari, Documentazione fotografica: Giovanni Principale, Carla Vandini,
Foletti Bruno)
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