Settant’anni dopo, la memoria di
un paese martoriato (4)
di Agide Vandini
Scriveva nei primi anni del dopoguerra Antonio Meluschi[1]
riferendosi alla zona di Filo: «Solo dopo i primi morti, e soprattutto dopo
l'assassinio da parte dei fascisti di un uomo che tutto aveva dato per la lotta
clandestina, Mario Babini, il paese si scosse, si risvegliò. Si poté allora
stendere l'attività militare e costituire cioè i primi gruppi partigiani
nell'argentano e nel comacchiese»[2].
Ma chi era e come morì Mario, l’uomo, l’animatore
politico più importante della storia del paese?
Mario Babini in età giovanile
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Mario Babini, marito della filese
Rosina Natali (sorella di Ezio detto Martin
e di Vincenzo detto Cencio o Cincióni) nasce a Giovecca di Lugo, da
Pio e Tozzi Olimpia, il 25 luglio 1907. Ha quindi appena 15 anni quando, il 5
marzo 1922, lo zio Francesco Babini, meccanico detto Mancina, viene ucciso di botte dai fascisti di Lavezzola.
Ha un buon grado d’istruzione per
aver conseguito la “Licenza Tecnica”. Aderisce al nascente Partito Comunista
e a 17 anni, nel 1924, è arrestato una prima volta per attività politica. A
quel tempo - così racconta nel voluminoso Giovecca,
il cugino Angelo Francesco Babini[3]
- Mario diffonde con altri compagni il
giornale «L’Unità» che ritira a Sant’Agata e Conselice. Viene catturato, col
compagno Vincenzo Giardini, e rinchiuso in una cella dai fascisti che vogliono
riempirli di botte, ma i due si difendono da leoni. Sono processati, ma senza
apprezzabili conseguenze giudiziarie, tant’è che l’anno successivo, essi sono
entrambi impegnati nell’organizzazione del Partito nel basso-lughese e
partecipano al Comitato Federale che ha sede a Faenza.
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I due decidono di fondare, nella
bassa Romagna, la Federazione Giovanile[4]; è in
rappresentanza di essa che Mario partecipa nel ’26 al congresso clandestino tenutosi
nel biellese; al suo ritorno organizza riunioni fino a Cervia, dove si ferma a
dormire nei barconi dei pescatori. La stampa che giunge da Imola viene
distribuita proprio da Giovecca e lui ne è il centro motore. La sua casa viene
perquisita per una intera giornata, ma non vi si trova nulla; la stampa è ben
nascosta in una casa vicina ed insospettata[5].
Adempiuto al servizio militare
fra l’aprile del 1927 e il settembre del 1928, Mario giunge a Filo e da lì
l’organizzazione antifascista si dilata a Boccaleone, Quartiere, Argenta, Bando
e altre località del ferrarese[6]. Nel
’29 Babini ottiene persino una macchina da stampa e questo gli permette di
incrementare l’attività di propaganda; a Filo intanto il gruppo di giovani da
lui organizzato si dà parecchio da fare: è da qui che l’opposizione al fascismo
si irradia sempre più nel ferrarese[7].
L’area geografica di influenza
faentina viene divisa in sette zone (Faenza, Bagnara, Massalombarda, Lavezzola,
Mezzano, Modigliana, Cervia). Sono ampie zone attraverso le quali la rete
cospirativa copre le province di Ravenna, Forlì, Ferrara e parte delle province
di Rovigo, Bologna e Firenze. Mario Babini è a capo della quarta zona, quella
che, da Lavezzola, copre una grande fetta di Romagna, Conselice compreso, e poi
l’argentano, il portuense e tutto il basso ferrarese fino alla provincia di Rovigo[8].
L’intensificarsi dell’attività
clandestina porta all’ondata di arresti che, alla fine del 1930, colpisce
simultaneamente molti comunisti romagnoli e filesi. I tentacoli dell’OVRA hanno infatti raggiunto alcune maglie della rete cospirativa
dopo che in tutta la Romagna, con bandiere e volantini contrari al regime
fascista, viene celebrato, il 7 novembre 1930, l’anniversario della rivoluzione
russa[9].
Fra i numerosissimi arrestati, ben
132 componenti della federazione romagnola sono deferiti al Tribunale Speciale
(tra questi tutti e sette i capi zona). Sono processati e condannati in 89 che
prendono 307 anni e 8 mesi di galera[10]. Fra
costoro lo stesso Mario Babini e altri 21 filesi, tutti giovani, fra i quali
molti minorenni[11]:
undici condannati ed undici assolti. Sfuggono fortunatamente alla polizia
interi gruppi e paesi grazie alla strategia di difesa degli arrestati che circoscrivono
i danni tacendo altri nomi, assumendosi anche responsabilità altrui.
Mario Babini è condannato a 6
anni di prigione, ma nel novembre del ’32, in occasione del decennale del
fascismo, torna a casa e si dà subito alla riorganizzazione.
A Filo, frequenta la casa di Tugnèñ
e della ‘Nitta (Antonio Natali
e Domenica Brusi). Scriverà Libero Ricci Maccarini[12] che
Mario viene «coinvolto da quella specie di benevolenza ospitale che coglieva un
po’ tutti, al momento di salire quella gran scala esterna, entrare ed essere
piacevolmente intrattenuti da chi della famiglia era presente». Lì, in quel fitto
caseggiato abbattuto nel dopoguerra (oggi piazza e parco G. Bellini), in
quell’ampio stanzone ordinatamente stipato di letti ed armadio, di tavolo e
sedie, di attrezzi da lavoro ed ogni altra cosa necessaria alla famiglia, avviene
l’incontro di Mario coi due vecchi antifascisti e coi figli Rosina, Vincenzo (Cencio, allora un ragazzo) ed Ezio il
geniale Martìn che purtroppo morirà
di tisi, a 28 anni, nel 1936.
Ezio si adopera come uomo di
collegamento[13];
Mario si ritrova sempre più in una famiglia ove nascono vincoli d’affetto e d’amore.
A metà degli anni ’30 la Rosina diventa sua moglie e lui si persuade
dell’opportunità di risiedere a Filo.
Mario Babini, il figlio Ezio, la
moglie Rosina Natali al confino a Filadelfia di Catanzaro.
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Qui tiene mille contatti,
diffonde stampa un po’ ovunque, alle sue riunioni partecipa spesso Giovanni
Matulli (Gianêl), uno degli
arrestati del ’30 che poi, nel ’44,
finirà anch’esso nel mirino delle Brigate Nere. Mario partecipa a congressi
importanti, anche all’estero, esattamente a Bruxelles il 12 e 13 ottobre del
1935 in tempi di guerra d’Africa[14].
La moglie Rosina Natali gli dà un figlio che decidono di chiamare Ezio, come
il povero Martìn.
Il mondo è già in subbuglio. In
Spagna (1936) ci si giocano ormai i destini d’Europa in una guerra che le
forze più reazionarie e spericolate scatenano contro il governo legittimo e
democratico; lui corre ovunque a raccogliere fondi per i combattenti
spagnoli. A Filo tiene diverse riunioni presso Tarozzi Irpio, i Fratelli Zotti,
il fornaio Giacomo Rossi (Iàcum) ed
altri.
Nel dicembre del ’36 Mario
Babini viene nuovamente arrestato e, il 6 febbraio del ’37, condannato a 5
anni di confino «perché sospetto di aver fatto propaganda a Lavezzola per la
raccolta di fondi per comunisti spagnoli».
Viene spedito con la famigliola
alle Isole Tremiti, dove sconta due anni e il resto della pena in altre tre località
del catanzarese: a Filadelfia (lì, l’11 giugno del ’41, all’età di soli 5
anni muore, per scarsità di cure, il
figlioletto Ezio), Cortale e Cardinala[15].
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Scontati i 5 anni, Mario termina
la pena nel gennaio del 1942; lascia il confino e torna in Romagna. L’Italia da
poco più di un anno è entrata in guerra a fianco della Germania, una guerra
insensata, ispirata e voluta dalle folli ideologie e dalla sete di dominio del
Fuhrer. La belva nazi-fascista ha scatenato un conflitto che coinvolge tutti i
continenti. E’ una immane, quotidiana carneficina ove chi ha la peggio è come
sempre la gente comune e il ceto più debole. Mario continua a dirigere la sua
lotta clandestina in mezzo alla gente[16].
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Da uomo libero ora si sposta
ovunque, in particolare nei luoghi a lui familiari del basso-lughese. Lavora
come radioriparatore per la ditta del Cav. Acquistapace di Ravenna. Nasce nel
settembre del ‘42 la figlioletta Clara, che però muore ancora in fasce,
all’età di appena due mesi (3-11-1942).
Come molti altri filesi non più
giovanissimi viene richiamato alle armi; torna ad indossare la divisa dal
dicembre del 1942 al giugno del ’43.
A fianco: 1943. Mario Babini,
penultimo a destra con un gruppo di commilitoni. Nell’ultimo a destra si
riconosce facilmente il filese Nello Bonora.
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Il 2 maggio del 1943, mentre è a
casa in licenza, viene arrestato ancora una volta assieme ad altri compagni, e
portato a Ravenna. A lungo incatenato e interrogato, rimane in prigione 13
giorni e poi rilasciato[17].
Due mesi dopo, il 25 luglio 1943
in un’Italia militarmente alle corde, cadono il Fascismo e il suo Duce. A capo
del Governo il Re incarica il Maresciallo Badoglio. Le tante umiliazioni subite
nel ventennio sfociano in spontanee manifestazioni di giubilo che, nella bassa
Romagna e nell’argentano, le zone dirette da Babini, avvengono un po’ ovunque.
Un vecchio camioncino proveniente da Conselice fa il giro dell’argentano al
canto di Bandiera Rossa. Vengono occupate le Case del fascio e sottratte, qui
come ovunque, divise e simboli nelle case delle più note camicie nere, accesi
improvvisati falò, portati via manganelli ancora sporchi di sangue[18].
Mario, ci racconta ancora Libero
Ricci M., da uomo di singolare intelligenza associata a bontà d’animo
addirittura fanciullesca, è incline alla moderazione e, in una riunione tenuta
con gli ex gerarchi in un’aula delle scuole, riesce ad affrontare ed orientare
animi assai diversamente disposti; fa prevalere il perdono da accordarsi ai
promotori ed esecutori di tante malefatte, «traducendo in senso positivo,
almeno in quel momento, quei fermenti popolari che propendevano per soluzioni
di ben altra natura»[19].
Badoglio non riesce però a tenere
in pugno la situazione militare. Chiede maldestramente altre divisioni alla
Germania sul suolo italiano, mentre tratta con gli alleati e firma con questi
ultimi l’armistizio dell’8 settembre 1943. L’esercito italiano senza ordini
chiari e precisi svanisce in poche ore; a nord della linea del fronte militare,
le divisioni tedesche spadroneggiano e catturano, a migliaia e migliaia, i
soldati italiani che tentano di tornare alle loro case. Mussolini viene
liberato dalla prigione sul Gran Sasso dalle forze del Fuhrer e da lui messo a
capo della «repubblichina», un governo e un regime fantoccio al servizio perciò
delle armate germaniche che si impegna a combattere, in una lotta senza esclusione
di colpi, quegli italiani che «non ci stanno».
Poco a poco, mentre gli Alleati
purtroppo bloccano l’avanzata, il Re (fuggito a Brindisi) mette il suo Regno
nelle mani del figlio Umberto II; questi costituisce la Brigata Cremona e con
essa affianca gli Anglo-Americani nella guerra ai nazi-fascisti. Col fronte che
staziona lungo la linea Gustav per mesi, nell’Italia occupata dalle forze
dell’Asse si formano, fin dall’autunno del 1943, soprattutto in montagna,
gruppi di giovani decisi a battersi e fra essi molti renitenti alla leva che
non vogliono sottomettersi ai repubblichini. E’ la ribellione spontanea, è il
Secondo Risorgimento d’Italia, è la Resistenza che si allarga e si fa strada.
Mario, come sempre si dedica al
lavoro organizzativo di tessitura; sorgono nelle zone da lui dirette, in
particolare nelle Valli di Campotto, i primi Gruppi di Azione Partigiana. Nei
primi mesi del ’44 una prima pattuglia di filesi si unisce alla «Bianconcini»
che opera in Appennino. Altri se ne aggiungeranno più tardi.
Gruppi di partigiani armati [così testimonia il filese Giovanni Pulini nel suo memoriale] si
erano già costituiti e agivano soprattutto nelle colline vicine. La situazione
si andava facendo sempre più drammatica. Gli Alleati continuavano a scaricare
bombe sui centri abitati, mitragliavano tutto ciò che per strada si muoveva,
quasi sempre si trattava di civili: barrocciai o gente in bicicletta. In questo
clima gli oppositori, che non avevano mai smesso di essere tali, cominciarono
ad organizzare riunioni e ad una di queste partecipai anch'io. Si tenne a casa
di Babini e così ebbi modo di sentire
parlare quell'uomo. Parlava lentissimo, con un tono di voce appena
percettibile, aveva la sottigliezza da grande filosofo, ma la freddezza di un
condottiero. L'ordine del giorno era l'organizzazione dei giovani in caso di
reclutamento. Si dovevano convogliare nelle bande partigiane che operavano
nelle colline. Dopo un'ampia esposizione politica di Babini, in cui spiegò le
ragioni politiche di dette bande, si passò al problema centrale della riunione.
Dopo qualche scambio di battute e di idee fra i partecipanti, otto o dieci in
tutto, tutti giovani ed io ero il più giovane di loro, Babini fece la relazione
di chiusura. Egli disse che c'erano problemi per il vettovagliamento, fatto non
trascurabile in quanto si prevedeva una lotta ancora lunga, era meglio quindi
rimandare ogni decisione a tempo opportuno, ma bisognava tenersi in contatto in
caso di necessità. La discussione ebbe termine[20].
Nella bassa, antifascisti e camicie nere si
scambiano ormai colpi durissimi; i repubblichini, sull’onda dell’illusoria
strategia del “pugno duro” puntano all’eliminazione fisica delle figure più
carismatiche, sperano di decapitare il movimento di Resistenza e di fiaccarne
il morale, ma per ogni vigliaccata portata a termine, la partecipazione di
massa si fa più intensa e via via più convinta in ogni angolo del territorio.
Cade a Filo, come si è già raccontato Agida Cavalli (29 febbraio 1944) che
salva di fatto la vita al figlio, l’antifascista Vandini Guerriero (Ghéo), e al di lui compagno Matulli
Giovanni (Gianêl).
Per evitare a Mario «la continua ossessione della
vigilanza» [ci racconta Libero R.M.],
si ritenne opportuno attenuarne gli effetti, favorendone lo spostamento
temporaneo a Giovecca di Lugo presso i suoi genitori. Però le cose sarebbero
andate troppo lisce, se tutto fosse stato risolto con il ritorno alla casa
paterna. Infatti, il 6 maggio 1944, tornando da Lugo, dove lavorava quale
radiotecnico, Mario si accorse di essere stato seguito da un gruppetto di
persone armate, fra le quali poté riconoscere la tronfia figura di “un pezzo grosso”
argentano che, pure, gli doveva riconoscenza del generoso perdono accordatogli
pubblicamente, al tempo di Badoglio.
Pur forse non
volendo credere alla gravità di quanto sarebbe accaduto, Mario comprese che la
presenza di quel gruppo di fascisti in armi presentava tutti gli aspetti di una
spedizione punitiva, e nell’intento di sottrarsi a quella minacciosa imboscata,
cercò riparo oltre il cancelletto che portava al cortile di casa. Però qualcuno
degli armati non esitò ed una scarica di colpi l’investì, abbattendolo al
suolo, proprio quando stava per trovare protezione dentro casa[21].
Finiva così l’esistenza e
l’attività politica di Mario Babini.
Mario Babini (1907-1944)
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Chi fu l’uomo e il dirigente,
per i suoi paesani e conterranei, lo si capisce in particolare scorrendo le
accorate testimonianze contenute in Giovecca
di A.F. Babini. Colpisce l’affetto e
la stima incondizionata dei tanti che, in ogni parte della sua terra, hanno
avuto a che fare con lui e ne hanno apprezzato il coraggio, l’intelligenza,
le capacità organizzative, la dedizione senza pari alla causa della Libertà e
della Democrazia. Scarne ma toccanti sono le semplici parole di certo
Ballardini Ennio: «Mario non era molto loquace, ma quando parlava era oro
colato, era ascoltatissimo e l’adoravamo…». Nel testo appena citato sono
presenti anche crude testimonianze sull’uccisione di Mario davanti alla casa
paterna:
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Quando uccisero
Mario, il fascista Dalla Fina[22] di
Argenta disse ad un altro fascista, un certo Schicchio di Boccaleone: «Non lo conosci? E’ un membro del partito
comunista» [Delfa Faccani]. E Mario,
al Dalla Fina: «Io sono quel che sono e quel che sono resto»
Senza neanche
guardare i documenti di Mario un fascista disse: «Spara che è lui» [Lorenzo Babini].
E quando gli
ebbero sparato Lorenzo andò per sorreggerlo e Mario: «Questa volta mi hanno
preso» disse e i fascisti picchiarono coi calci delle pistole Lorenzo, zio di
Mario, per allontanarlo, e spararono in testa a Mario[23].
La medaglia
d’argento a Mario Babini[24]:
Capitano
BABINI Mario, Ispettore con incarichi organizzativi classe 1907, residente a
Filo d’Argenta […]
Ispettore di
Brigata, ardente propagatore della lotta partigiana fin dai primi giorni
dell’oppressione nazi - fascista. Organizzò i primi gruppi armati, li comandò
in importanti missioni ed azioni contro il tedesco invasore portandole a
termine con successo. Come membro del comando partecipò con rara competenza
all’elaborazione dei piani organizzativi ed operativi dei vari settori della
Brigata. Portò inoltre a termine con esito brillante tutti i delicati
incarichi a lui affidati. Malgrado i sospetti che si addensavano sopra di Lui
per le multiformi attività svolte, persisté con immutato slancio e sprezzo
del pericolo nella dura lotta; finché scoperto, venne affrontato dagli
sgherri fascisti dinanzi alla propria casa ed ivi trucidato per avere opposto
un fiero e deciso rifiuto alla intimidazione di abbandonare la lotta. Giovecca
di Lugo (RA), 6 Maggio 1944.
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Attestazione del 22 Aprile 1946
firmata da Vandini Guerriero, all’epoca segretario della sezione di Filo
d’Argenta del PCI
cui fu dato il nome glorioso di Mario Babini
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Del
vile assassinio di Mario Babini, Renata Viganò fece un racconto emozionante:
LA MORTE DI MARIO
Brani
da: Il ritratto di Garibaldi di Renata
Viganò
Mario
salì in bicicletta e salutò un compagno sul ponte.
[...]Mario
fermò i pedali, andò giù rapido in discesa frusciando sui copertoni frusti.
La
strada si era fatta grigia e deserta, lui guardava il colore dell'asfalto, lo
riconosceva per averlo percorso tante volte, come il pavimento della sua
stanza.
Pensava
intanto alla giornata dura che aveva passato, piena di rischi per il lavoro
clandestino, alle tante altre giornate dure che dovevano passare prima che gli
angloamericani proseguendo su per l'Italia arrivassero alle province del nord
occupate dai tedeschi e dai fascisti. Si trovò a canticchiare sul ritmo della
pedalata: - Vanno piano piano, chissà quando li vedremo -. Così distratto,
all'improvviso, vide a destra il muro di casa, frenò, mise un piede a terra.
E
proprio in quel punto lo colse un lampo e un rumore, e il pensiero gli si
spense. Cadde in avanti con le braccia tese, scaraventò per l'urto la
bicicletta quasi in mezzo alla strada. Rimase lì, immoto, con la faccia presso
il gradino della sua porta. Un momento di silenzio, pesante come il piombo. Poi
dalla casa uscirono uomini e donne; una di esse alzò un urlo acutissimo che si
perdette nell'eco, gli altri correvano piangendo, gridando, ma la strada si
riempì di armati, visi rigidi, mani pronte sul mitra, e subito ricacciarono
indietro il gruppo,...
La
morte di Mario era stata decretata ed eseguita «per l'esempio»[...]
Mario
non era soltanto un uomo giovane, buono, amato dalla famiglia, ma un capo, un
dirigente della lotta antifascista, il maggior capo e dirigente di quella zona
di valle dove si stava creando una formazione garibaldina.
[...]Mario
era lì nella bara, sollevata da parte della testa : lo stomaco e l'addome erano
gonfi e tesi, la faccia sembrava più piccola, bruna, con gli occhi chiusi dalle
ciglia scure. Pareva come nelle ore più ardenti, quando parlava ai compagni
nelle riunioni, in quattro, cinque, sei, raccolti in una stalla, o seduti alla
proda di un fosso. Nel discorso appassionato talvolta chiudeva gli occhi, cercava
la parola dentro di sé, trovava la maniera di esprimersi perché gli altri ne
fossero persuasi.
Ora
era silenzioso, immobile[...] disse Brando: «Ci sono i partigiani della
valle»[...]«Faremo una brigata garibaldina, e si chiamerà col nome di Mario».
«La nostra brigata si chiamerà col nome di Mario - continuò con voce uguale,
quasi monotona - Sarà il più bel modo per ricordarci come l'hanno ammazzato e
per seguitare quel che voleva lui».
La lapide davanti alla sua casa di
Giovecca.
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Su la «Nuova Scintilla» di
Ferrara del 5 maggio 1946 si legge:
«[…] Mario Babini, figura esemplare, semplice, onesto, predicò a tutti il
bene, sacrificò se stesso nei lunghi anni di oppressione fascista nelle
carceri, al confino, calmo, sereno, perché sapeva che ogni suo sacrificio era
un passo verso la libertà, verso il benessere dell’umanità intera. E gli anni
di carcere e di confino che duramente ha dovuto scontare non sono valsi a
domare la sua fede, ma bensì per ingigantirla, per farla più forte […]»
Il nostro paese di Filo, dopo
avergli intitolato la locale sezione del PCI, nel dopoguerra gli dedicò, per
onorarne la figura indelebile, una via al Borgo Molino.
Babini rimane tuttora, e sarà
sempre, nel cuore di questo paese che ha avuto l’onorato e l’orgoglio della
sua fattiva presenza, della sua opera ed insegnamento. Ora Mario brilla e
risplende, con straordinaria lucentezza, fra le 18 stelle d’argento che danno
lustro alla bandiera tricolore dell’ANPI di Filo: è uno dei nostri tanti,
troppi eroi, uno dei 18 Martiri della Libertà di cui andiamo fieri e verso
cui sentiamo ancora, dal più profondo di noi stessi, come filesi e come
italiani, infinita ed ammirata riconoscenza.
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La tomba di San Bernardino di
Lugo
|
Vittime
del Fascismo, voi siete con noi, nel nostro cammino, nel nostro cuore, nel
nostro sangue. Figli, fratelli, padri, caduti nell’aspra lotta, per il
conteso diritto alla vita, noi vi promettiamo, di renderci di voi degni, e
con l’opra diuturna, e col sacrificio di nostra vita, non sarà lungi il giorno,
in cui il vostro martirio, rechi il suo frutto.
|
Il conferimento della medaglia
d’argento
Ringrazio
di cuore Agnese Brunelli, nipote di Vincenzo Natali, per le amorevoli ricerche
compiute,
nonché per i preziosi documenti e ricordi di Rosina Natali da lei messi gentilmente a
disposizione. (4/5
– continua)
[1] Ad Antonio
Meluschi (Il Dottore), poi scrittore
di vaglia, fu affidato nell’autunno del ‘44
il comando partigiano di tutta l’area a sud delle Valli di Comacchio e a
nord del Reno, ossia della Brigata Garibaldi 35ma bis. Visse negli ultimi sei
mesi di guerra al Molino di Filo, con la moglie Renata Viganò, autrice de’ L’agnese va a morire, partigiana e
infermiera. Da lì diressero il movimento di Resistenza.
[2] A.Meluschi, Epopea Partigiana, 1947 .
[3] A.F.Babini, Giovecca, Bologna, Graficoop, 1980, p.185.
[6] Ibidem, p.191. Nel testo viene
anche riportato (p.278) uno scritto di Vandini Guerriero del 26 giugno 1945 in
cui si confermano gli aspetti organizzativi e i nomi degli attivisti, tutti
arrestati nel ’30.
[7] «La stampa ci
veniva dalla Romagna» dice Bruno Natali di Filo. «Da Giovecca la stampa
ripartiva e finiva come prima tappa, per il ravennate, a Voltana da Milio e
Lino Giugni e, per il ferrarese, a Filo d’Argenta da dove, un balzo fino a
Boccaleone, lo facevano fare Bruno Natali e Guerriero Vandini». Ibidem, p.196 e 208.
[8]
Ibidem, p.212. «Questi sette capi zona
formavano il comitato federale. Ogni zona era formata da sette settori, i sette
capi settori formavano il comitato di zona. Ogni settore era formato da più
gruppi di 5 cellule l’uno. Ogni cinque capi cellula uno era scelto come
fiduciario. Un gruppo di più fiduciari costituiva un comitato di settore. Le
cellule si classificavano in cellule di strada e cellule sul posto di lavoro ed
erano formate ognuna da 4 o 5 persone, una di esse era il capo cellula (Ibidem, pp.210).
[9] «Ai primi di
novembre del 1930 il gruppo dei comunisti di Filo riceve un'enorme quantità di
volantini che inneggiano all'Unione Sovietica e contemporaneamente denunciano
alla popolazione la politica del fascismo. La distribuzione avviene durante la
notte del 6 novembre : tutto il gruppo di Filo si mobilita e attraverso collegamenti
perfetti il materiale raggiunge i vicini comuni, fino in provincia di Rovigo.
Questa del 7 novembre 1930 rappresenta la più grande manifestazione del periodo
clandestino effettuata in provincia di Ferrara. L'episodio esula dal contesto
locale e assume proporzioni notevolissime anche se la stampa del regime
preferisce ignorare quanto è avvenuto. Sui pioppi che fanno da contorno alle
grandi proprietà sventola per alcune ore la bandiera rossa, mentre centinaia di
volantini sono sparsi dappertutto. La reazione dei fascisti è rabbiosa: in
alcune aziende non viene corrisposto il salario ad alcuni braccianti che
stavano commentando il contenuto di un volantino. Verso la metà di novembre la
polizia politica si impossessa dei grafici che delimitano le sette zone di
influenza del “Comitato Federale” faentino del PCI» (V.Toti, Antifascismo
e Resistenza nell'Argentano, Tesi di Laurea, pp. 51-52)
[10] A.F.Babini, op.cit., p.212.
[11] Si veda il precedente
articolo «Un paese da bastonare» (2).
[12] L.Ricci Maccarini, Il palazzone, Argenta, C.S.O. 1983, pp. 41-42.
[13] A.F.Babini, op.cit., p. 217.
[14] Ibidem, p. 221 e 224.
[15] Ibidem, p. 228 e 229.
[20] E’ la prima
volta, egli dice, in cui sente parlare Babini (G.
Pulini, Non buttare i ricordi,
«I Repubblicani di Salò», 1992, pp. 49-50).
[22] Circa la triste
e truce figura di Enrico Dalla Fina (1905-1945), argentano e segretario del
fascio a Filo, raccomando la lettura del paragrafo a lui dedicato da Egidio
Checcoli in Filo della memoria,
Prato, Ed. Consumatori, 2002, pp.112-113.
[24] Ferrara
partigiana, Albo d’oro, a cura dell’ANPI Provinciale, p. 107.
2 commenti:
Ricevo e pubblico col consenso del mittente:
aderitto geminiani
12:50 (7 ore fa)
a me
Carissimo Agide,
ho letto con grande trasporto il 4' episodio della tua splendida esposizione, degli episodi che hanno segnato cosi' profondamente una intera comunita'.Non sapevo nulla o quasi di quello che tu hai descritto e per me e' stata una novita' assoluta .Fai una descrizione cosi' meticolosa e particolareggiata che mi ha lasciato per un bel po' sbigottito, oserei dire senza parole. Sono rimasto un bel po' in silenzio, la mia mente ha vagato con mille pensieri e dentro di me ha lasciato quasi un certo smarrimento, tanto e' stato il mio stupore. Innanzi tutto mi complimento con te per la grande mole di lavoro che hai fatto e per la straordinaria trasposizione degli eventi a volte toccanti al punto da restare di sasso. Sono documenti e testimonianze che e' bello leggere. Il capitolo dedica gran parte al martire Mario Babini e ti confesso che non sapevo molto di lui.Tu mi hai illuminato e te ne sono grato, ma anche altri meritano tutta la mia ammirazione per abnegazione e coraggio che tu cosi' sapientemente hai ricordato. Mi hai fatto venire in mente un particolare: mia zia Giuliana moglie di Bugiu' (portiere del Filo calcio anni ’50) ,mi disse se volevo lavorare a Bologna presso un certo Cremonini che richiedeva patente. Ebbene non mi dilungo: egli era di Conselice e sapendomi di Filo, mi assunse all'istante. Diventammo grandi amici nonostante la differenza di eta' e di rango. Mi racconto' che lui a Conselice aveva contribuito a fondare il partito Comunista, che a Filo e alla Giovecca c’erano i punti fermi della nuova linea Marxista e che dopo la caduta del Fascismo col camioncino ando' in giro per Argenta e per tutti i paesi limitrofi a manifestare. Arrivo in fabbrica una mattina, mi viene incontro, mi porge un giornale, io apro la prima pagina de l'Unità che riporta a caratteri cubitali: Filo PERCHE' SEMPRE PRIMO !!!!????. Mi abbraccio' e si commosse. Non ricordo bene il contenuto, mi sembra il direttore Giancarlo Paietta, ma ripeto non ricordo neanche gli anni. Questi, Agide caro, siamo stati noi di Filo, e perdonami il noi, cioe' io.
Un saluto ed un caro abbraccio. Ti ringrazio Agide .
Pippi
Agide Vandini agide.vandini@gmail.com
13:57 (5 ore fa)
a aderitto
Grazie Pippi carissimo,
grazie per l'attenzione e per gli apprezzamenti espressi. Mi piacerebbe pubblicare anche questo bel commento sul blog. Sempre che tu sia d'accordo.
C'era un vuoto, un'aria di dimenticanza intorno a quest'uomo così importante per la storia di una comunità come quella di Filo. Col passare delle generazioni e con la perdita di coloro che quella storia la vissero da vicino, si è data tanta importanza a ciò che è avvenuto nel dopoguerra, nel partito, nel sindacato, nelle cooperative, fino al punto che avvenimenti e personaggi così significativi sono stati per forza di cose parzialmente rimossi nella memoria collettiva. Una memoria che a me è sembrata quasi assopita. Sapevo come e quanto ne parlavano, di Babini, i dirigenti della generazione di mio padre e ho cercato di rimediare ricostruendo una precisa biografia che ne approfondisse anche i tratti umani.
E' un lavoro che quest'uomo così coraggioso meritava.
Ciao.
Agi.
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Ringrazio di cuore i tanti che mi hanno scritto apprezzando il lavoro compiuto e fra questi gli amici Mario Ravaglia e Romano Saccani.
Ho cercato un poco (e un poco ho scritto) intorno a fatti di Giovecca tra 1944- 1945 e postumi processuali. Forse è possibile scriverne ormai senza reticenze. O no ! Pietro Albonetti
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