Settant’anni dopo,
la memoria di un paese martoriato (5)
di Agide Vandini
Come già si è ricordato, il fronte di guerra rimasto
fermo per molti mesi lungo la Linea
Gustav (Cassino-Termoli), prese a risalire la penisola nel maggio del ‘44[1]. In
poche settimane, si veda la cartina illustrativa a fianco, gli Alleati
avanzarono oltre la linea Hitler (Anzio-Pescara), liberarono Roma, Firenze e
il centro Italia fino ad attestarsi, nel settembre del ’44, lungo la
cosiddetta linea Gotica, dal Mar Ligure all’Adriatico, da Carrara a Pesaro, davanti
allo sbarramento difensivo nel frattempo fortificato dai tedeschi.
E’ questa appena descritta la situazione militare
nei giorni dell’Eccidio di Filo dell’8 settembre del 1944. Il fronte di
guerra in quei momenti è dunque ancora lontano.
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I primi gruppi partigiani sono
già stati formati. Gli sbandati e soprattutto i renitenti alla leva nascosti nelle
terre di granturco e nei pagliai, si sono ormai rifugiati nelle case contadine
a ridosso delle valli, nei terreni che i tedeschi hanno allagato facendo
saltare gli argini della bonifica allo scopo di rallentare l’avanzata nemica.
Essi hanno interrato allo stesso tempo mine un po’ ovunque nelle campagne
rimaste, lungo la striscia di terra emersa a sinistra del Reno, quella che gli
Alleati definiscono l’Argenta Gap,
ossia la stretta di Argenta.
Scrive nel dopoguerra, a
proposito della vita precaria degli sbandati e dei combattenti, Antonio
Meluschi, Comandante della Brigata Garibaldi 35° bis, che dalle Valli di Campotto era giunto a Filo,
assieme alla moglie Renata Viganò, verso la fine di ottobre del ’44:
«[…]
Le valli erano il sicuro rifugio dei ricercati delle S.S. e delle brigate nere,
la gente s’annidava nei freddi ed umidi «casoni» delle guardie vallive, e
imparava a pescare le anguille, a vivere soltanto di esse, che qui, molte
volte, prendono il posto del pane. Vita dura, disancorata dalla civiltà. Erano
compagnie scarsamente armate, al principio scalze, denutrite: era gente d’ogni
paese, provincia, regione; e si raccolsero prigionieri russi, cecoslovacchi,
inglesi, americani, canadesi, disertori austriaci, tedeschi […]»[2].
Per ricostruire le ore convulse
dell’eccidio di Filo possiamo contare su di una testimonianza preziosa, quella di
Libero Ricci Maccarini, dirigente politico filese del dopoguerra, membro del
locale CLN, che poi si trasferì con la famiglia ad Argenta negli anni ’50. Egli
la interpose all’interno di una sua raccolta di memorie cui diede il titolo
«Dal Palazzone» (pubblicata nel 1983). Lo scritto è in uno stile ricercato e un
po’ contorto, ma la seconda delle quattro parti in cui si articola il racconto,
è oggi per noi di notevole valore. Egli ci narra in tutti i particolari quel che
vide e come visse la serata del 7 settembre 1944, nell’ora e nel luogo in cui
l’azione partigiana provocò la morte del soldato tedesco.
Ho provveduto qui ad una
opportuna trascrizione, ho cercato di facilitare il lettore fornendo un titolo
ad ognuna delle quattro parti, ho ritoccato un pochino la punteggiatura e tolto
un paio di marginali imprecisioni. Il mio contributo, costituito da
testimonianze e notizie complementari l’ho riportato nelle note di fondo pagina.
Deco ringraziare Beniamino Carlotti per alcuni dati, mia sorella Carla che mi
ha assistito e Vanni Geminiani che mi ha fornito alcune preziose testimonianze da
lui raccolte.
Non mi è parso giusto invece addentrarmi
in giudizi o ricostruzioni arbitrarie sulla dinamica del fatto, né fare ipotesi
sugli autori dell’azione partigiana che, sfociata nel sangue, scatenò la
rappresaglia nazi-fascista. Fu, è risaputo, un’incursione in paese
improvvisata, dalle motivazioni e contorni poco chiari, scoordinata in sé e
oltre tutto avvenuta, come testimonia lo stesso Libero, all’insaputa del locale
Comitato di Liberazione. La reazione degli occupanti nazifascisti all’accaduto
fu, lo sappiamo, rabbiosa, bestiale, vendicativa, feroce.
«Fu un lutto immenso - scrisse Antonio
Meluschi nell’immediato dopoguerra - che lasciò sul paese di Filo, un peso di
perenne cordoglio e di lacrime […]» Dieci persone furono trucidate e «[…] fra esse
elementi provati e capaci della lotta clandestina. Ma il duro tessuto della
Resistenza fu subito riparato e Filo continuò la sua guerra, piangendo i suoi
caduti ed odiando più a fondo gli oppressori […]».
°°°
«Li hanno ammazzati! Ne hanno ammazzato dieci… »
Libero
Ricci Maccarini, Dal Palazzone,
Argenta, Centro Offset, 1983, pp.45-52
[I –
La notizia]
Finiva l’estate e il caldo si attenuava
sulle piane incolte, sul fogliame delle bietole non estratte, al cui raccolto
si era rinunciato, poiché gli zuccherifici erano chiusi e perché nessuno
azzardava tirare fuori l’automezzo od il carro ed esporsi ai mitragliamenti
degli aerei alleati.
Le truppe tedesche erano partite lasciando
sul posto un sottufficiale e due soldati, forse per rimettere ad altri le
consegne dell’avvicendamento, mentre nella caserma, abbandonata dai
carabinieri, un presidio fascista, stanco e dimesso, stava per seguire la
sorte dei predecessori.
Dalla larga bonifica, appena punteggiata
dalle casupole della Mafalda e di Noro, nonché da quelle dei pochi che, per
primi, avevano supposto che un giorno in quella piana, una volta dissalata, si
sarebbe vissuto; dai casolari isolati e fuori mano, tornavano alle loro case
gli sbandati e i combattenti, fino allora ossessionati dai rastrellamenti e
dagli scontri allo scoperto, da cui non vi era salvezza. Correva in tutti l’illusione
che la stretta si fosse un po’ allentata, fino a trarne l’impressione che la
mania di persecuzione del paese stesse per finire.
A tanto riportava il piacere di riavere
una casa, una madre, una moglie: l’innaturale e pur trepida evasione, sembrava
volesse respirare un momento di quiete. Così, avvinti da quella specie di
benevola incoscienza, nel senso del vuoto che previene le vicende immani, si
attese il volgere lento degli eventi, nella piacevolezza di quella tarda estate
e nella lusinga del fronte che arrivava. Nessuno ormai pensava che il terrore
tedesco si potesse apprestare a cancellare quei giorni di speranza, nel tempo
di una notte convulsamente vissuta, fino a precipitare nella tragedia del
pomeriggio che sopravveniva.
È già il pomeriggio dell’otto settembre
1944. In tanti, alla “Pecorara”, trepidavamo, ansiosi di sapere cosa sarebbe
accaduto[3].
Poi, là, sul sentiero che porta al Molino, controsole, si intravvide l’incerta
figura di una donna pedalare scompostamente e vociare, finché, più vicina,
vedemmo ch’era la Pina[4] e ne udimmo il disperante urlare: «Li
hanno ammazzati! Ne hanno ammazzato dieci...»
Le corremmo incontro, quasi al limite
della corte; lei si buttò dalla sella, disperata ed ansante, in ginocchio, si
mise a strappare l’erba e a levare le braccia al cielo, in un inconscio
dimenare di gesti e, ancora, affannata ad urlare: «Ne hanno ammazzato dieci! Ne
hanno ammazzato dieci…». Poi, riversa sul prato, si sciolse a piangere con noi,
e noi con lei a piangere ed imprecare.
Cos’era accaduto dalla sera prima, fino a
quel momento?
[II – La testimonianza
diretta][5]
Era la sera di un giovedì di settembre,
del sette settembre 1944; una sera calda, buia e calma. Il paese era abbastanza
quieto, a partenza avvenuta di una brigata tedesca, che quale contrassegno
recava tre dischi rossi su un fondale bianco: la Scheffering. Due militari ed un sottufficiale erano rimasti soli,
quali ultima rappresentanza di quel presidio, ed avevano alloggio a Case Selvatiche,
nella residenza estiva di un possidente, ad un chilometro dal centro di Filo[6],
mentre il nucleo di polizia fascista, che aveva sostituito i carabinieri
proprio al mattino, aveva abbandonato la locale caserma, evitando di consegnare
le armi ai partigiani, sebbene un accordo in tale senso fosse stato prima
raggiunto.
In una camera sovrapposta all’unica
osteria ancora in esercizio era riunito il CLN, con il compito di estendere un
memoriale che tratteggiasse le biografie degli elementi più faziosi che poi
dovevano essere seguiti nell’attività futura, secondo una disposizione del
nostro Comando[7]. Il
luogo era sicuro, poiché in quel locale pubblico, frequentato anche da
tedeschi e fascisti, nessuno avrebbe supposto che, proprio lì, si potesse
operare per la Resistenza.
Ancora prima che la riunione si
sciogliesse, Giovanni[8]
disse: «Quei ragazzi dovevano venire in paese per disarmare la polizia
fascista, ma siccome i militi sono partiti sarà bene avvertirli di non
compiere un’azione inutile». Furono tutti d’accordo. Giovanni stesso partì e
dopo poco tempo tornò per informare che i “ragazzi”, visto che le cose in paese
erano cambiate, avevano deciso di recarsi alla Fiorana, dove pensavano di
disarmare un capitano della milizia che, a casa di un parente, non faceva
mistero di volersi disimpegnare degli obblighi di mobilitazione e delle armi[9].
La riunione si sciolse così, senza
alcunché di rilevante. Uscirono alla spicciolata, senza noie, e lui si fermò
poi con Gigi ed Alfonso[10]
a conversare nell’osteria. Notarono subito che non vi erano solo i tre tedeschi
della cui presenza si sapeva, ma vi erano pure un maresciallo ed altri cinque
o sei militari. Considerarono che quello non fosse il luogo più adatto per
parlare liberamente ed uscirono, trattenendosi per la strada fin verso le nove
e mezza.
Vale pure la pena ricordare che nella
prima serata fino all’atto dell’inizio della conversazione fra i tre amici, una
pattuglia tedesca, secondo quanto si saprà poi, era stata ricevuta in casa
Tamba e quivi era stata intrattenuta, bevendo e chiacchierando, nei limiti ovvi
che la conoscenza della nostra lingua poteva consentire. Si vuole che, alla
padrona ed all’inserviente che chiedevano ai tedeschi il motivo della loro
presenza, uno di loro abbia risposto affermando che quella sera vi sarebbe
stata una “visita” dei partigiani.
Come ne fossero informati nessuno ha mai
potuto accertarlo. Resta il dubbio che a fornire la delazione fosse stata la
polizia fascista, fuggita in mattinata e che, per la sera stessa, aveva
concordato la consegna delle armi ai partigiani; oppure che il padrone di
casa, all’insaputa dei familiari avesse avvertito il comando tedesco di una
richiesta di versamento in favore del movimento clandestino, pure dovendo
ammettere che lui, comunque, non poteva sapere in quale sera, poi, si sarebbe
andati in casa sua per ritirare il versamento stesso.
Un’altra considerazione importante si può
trarre dalla mancanza di coordinamento relativamente all’azione che stava per
essere compiuta, tant’è che quella sera si doveva compiere l’operazione di
disarmo del capitano alla Fiorana, com’è da presumersi che lui non avrebbe
disturbato l’attività del gruppo operante, una volta che fosse stato informato
di quanto doveva accadere, come poi avverrà.
Intanto, lasciati Gigi ed Alfonso, lui si
era avvicinato a casa. Lì fuori, seduti ai lati della porta di comune ingresso
alle nostre modeste abitazioni, ritrovò come sempre suo padre e la Clorinda[11].
Si fermò anch’egli a cogliere la quiete di quella notte, ancora più assorta
nel buio che proteggeva dagli aerei provenienti dal vicino fronte.
Ascoltava così suo padre parlare del
proprio lavoro e la Clorinda annuire con brevi frasi, finché furono attratti da
un improvviso bagliore e dall’abbaiare violento di un cane[12].
Si era aperta la porta dei Tamba e la luce viva proveniente dall’atrio
proiettava uno squarcio luminoso, insolito a vedersi a quell’ora, mentre il
cane, sempre abbaiando, si avventava contro qualcuno che voleva entrare. La
porta accennò a chiudersi, poi si riaperse, quindi si chiuse definitivamente. Cosa
stava accadendo? Lui pensò che fosse giusto muoversi, mentre il padre, impaurito
e dietro di lui, gli raccomandava di tornare indietro.
Si spinse fin sul crocevia, girò a
sinistra verso la casa dei Tamba, finché si vide avvicinato da un uomo di
statura elevata, che, puntando un’arma, gli intimò di fermarsi. Notò che aveva
il volto bendato [coperto cioè col fazzoletto fino all’altezza del naso - nda],
e mentre cercava di trarsi dal pasticcio in cui s’era ficcato, si sentì
sospingere da destra da un altro armato che l’ammonì: «A casa, subito! Manda a
letto tutti e dì che ci sono i partigiani»[13].
Al padre, ch’era rimasto indietro, disse
che bisognava rincasare: lo disse a Max ed all’Irene[14],
seduti sulla barriera laterale della strada e arrivò, così, di nuovo
all’entrata di casa, dove si fermò per volgersi e vedere se accadeva qualcosa
di nuovo.
Da casa Barbieri, intanto, uscivano il
professor Pasi e la Drei, maestra a Filo da tanto tempo[15],
e il suo istinto fu quello di correre ad avvertirli di ritornare di dove eran
venuti, ma alcuni colpi di armi da fuoco, improvvisi e tremendi, lo fecero
ritrarre sotto il portico[16].
Di lì udì distintamente un lamento strozzato,
come di persona che, colpita, si accascia al suolo. Rincorse suo padre su per
la scaletta, mentre la sparatoria si faceva più violenta attorno al crocevia,
e, coi genitori e la sorella, si chiuse in casa.
Sempre più spaventato, suo padre gli chiese:
«Ma cosa mai sarà accaduto...? »
«Credo che abbiano colpito Pasi o la Drei»,
rispose.
«Purché non abbiano ucciso un tedesco»,
riprese suo padre; e poi ancora disperato: «Scappiamo figlio mio, scappiamo;
qui ci prendono come topi... Loro sono tremendi... Se non scappiamo adesso,
dopo non avremo via d’uscita ».
«Ma no, papà!» cercò di rincuorarlo «non abbiamo fatto
niente, che cosa dobbiamo temere?».
Intanto, dalla vicina osteria, si udiva un
violento vociare, un correr dentro e fuori, un alterato dare incomprensibili
ordini, poi, d’un tratto, a pause, la voce dell’oste che chiamava un vicino, un
altro e ancora un altro; unite alla sua voce, più alte, le urla e le
imprecazioni dei soldati tedeschi[17].
Il rastrellamento aveva così avuto inizio, casa per casa e ai nomi chiamati
altri ne seguivano tutto attorno: non rimaneva che fuggire col padre, a ciò
indotti anche dalle insistenze della mamma e della Giovanna[18].
Scesero dietro; nel cortile si mossero con
cautela e, poi che furono certi di non essere visti, via di corsa attraverso i
campi di Liverani, fino alla casa Sacrato, dove li raggiunse “Como”: che
abitava proprio di fronte al crocevia, e che portò conferma dell’avvenuta
uccisione di un soldato tedesco [19].
Allora fu dato non avere più dubbi sulla gravità della situazione: quelle
persone, che l’oste stava chiamando sotto la minaccia dei fucili tedeschi,
erano ostaggi rastrellati per condurre quella rappresaglia che l’animo di
tutti aveva fino allora temuto, pur non volendo credervi[20].
Più tardi arrivò la Dera[21],
con il volto patito dall’insonnia e dalle emozioni subite. Narrò come ne
avessero portato venticinque nella saletta dell’osteria, oste compreso, per
altro già ferito ad un piede, e là li avessero rinchiusi, per proscioglierne
poi quattro di minore età[22].
Disse pure chi erano i rastrellati e non mancarono di stupire alcuni
nominativi di persone notoriamente compromesse col fascismo.
Sul fare del mattino ritennero opportuno
di non essere più di peso ai Sacrato, anche perché, nel frattempo, molti altri
erano giunti dal paese, e lui si avviò, dopo un lungo girare, fino alla
“Pecorara”, dove pensava che avrebbe trovato qualcuno dei suoi compagni. Poi,
al sopraggiungere della Pina, fece seguito l’intera consapevolezza dell’immane
tragedia e l’atroce riconfermarsi della morale tedesca.
[III – Il calvario e l’eccidio]
I ventun ostaggi vennero portati nel
palazzo scolastico di Argenta, dove il comando tedesco convocò alcuni gerarchi
fascisti e richiese ad uno di loro di contrassegnare in rosso dieci nominativi
dell’elenco predisposto e comprendente tutti i fermati.
Si vuole che qualcuno dei convocati abbia
tentato di interporre il proprio interessamento presso il capo della provincia
e presso il comando tedesco, senza per altro ottenere un minimo di
ripensamento sul quel procedere spietato degli avvenimenti.
Così, verso le sedici di venerdì otto settembre,
un camion partiva col suo carico umano dalle scuole del capoluogo diretto a
Filo[23].
Arrivati a Ponte Bastia, sull’argine sinistro del Reno e ai margini della
Statale Adriatica, furono fatti scendere in cinque: Diani Felice, Bellettini
Alfonso, Andalò Giuseppe, Coatti Antonio e Bolognesi Alfredo[24].
Un colpo di pistola alla nuca troncò la
vita di quegli infelici che, riversi a terra, lì rimasero quale “ammonimento”
ai passanti, fin quando, con un carro usato per il trasporto del bestiame e con
carretti avuti a prestito dai contadini, i loro famigliari poterono rimuoverli
e riportarli nelle loro case, per sempre segnate dal dolore.
I sedici restanti che, impietriti e chissà
in quale disperato sbattimento avevano assistito all’orrendo eccidio, furono fatti
proseguire fin sul crocevia di Filo, dove la rappresaglia ebbe il suo
completamento: Matulli Luigi, Quattrini Amerigo, Nuvoli Enrico, Coatti Antonio
e Marconi Giorgio caddero pure loro abbattuti da un colpo di rivoltella alla
nuca[25].
Il giovane Giorgio per ben due volte
riuscì ad evitare il colpo, col repentino spostamento del capo, poi lo presero
per i capelli e gli spararono in bocca[26].
Un altro dei Matulli, pure fra i
rastrellati, sentendosi chiamare, fece tanto da riuscire a dimostrare che lui
era lì sfollato ma che abitava a Faenza. Lo lasciarono libero e chiamarono giù
dall’autocarro, così, col gesto della mano, uno di quelli non segnati in
rosso. L’uccisero, tanto per loro contava il numero delle esecuzioni: non
aveva importanza se poteva essere, come lo era, un iscritto alla Repubblica Sociale
fascista![27]
Tutto questo era accaduto in diciassette
ore: un giorno era stato di troppo per stroncare dieci giovani vite e per
rovinare dieci famiglie ed un paese intero.
[IV – Tre settimane dopo]
Passogatto è una modestissima borgata a
cavallo del Santerno, fra Voltana e Giovecca, ai lati della strada per Lugo,
pure vicina a Lavezzola e non molto distante da Conselice e S. Biagio.
Per giungere a Filo bisogna percorrere ben
undici chilometri, tanti, se si vuole, per supporre che proprio da qui, ad un
mese appena dal tremendo eccidio, potesse dipendere la sorte di un militare
tedesco, colà improvvisamente scomparso. Ciò non toglie, forse per una sorta di
folle predilezione vessatoria, che, nel primo pomeriggio della domenica, che
come poi si seppe veniva dopo la scomparsa del tedesco, due autocarri
scaricassero all’incrocio del paese una decina di soldati, che in un baleno
irruppero nelle case, per rastrellarvi quarantaquattro ostaggi, poi portati a
Passogatto, nella casa contadina di “Burciòñ”.
Fortuna volle che il soldato scomparso si
facesse vivo il lunedì seguente, dopo aver scaricato, in un bordello di Lugo,
le proprie effervescenze, sicché il comando tedesco, nella stessa serata e
dinnanzi all’evidenza dei fatti, provvide a lasciare in libertà i malcapitati
filesi.
A tanto poteva arrivare la cieca
repressione cui il paese era assoggettato, su segnalazione dei gerarchi
ferraresi[28].
°°°
I dieci filesi trucidati
per rappresaglia nazifascista l’8 settembre 1944. Da sinistra, in alto:
Amerigo Quattrini, Enrico Nuvoli, Giorgio Marconi, Arturo Soatti, Luigi
Matulli; in basso, da sinistra: Felice Diani, Alfredo Bolognesi, Alfonso
Bellettini, Casimiro Beppino Andalò, Antonio Coatti.
A fianco l’Ordinanza dai toni punitivi del Comando
Militare Germanico e riservata ai soli cittadini di Filo datata 11 Ottobre
1944.
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°°°
In quei mesi, sui monti di
Romagna, sei partigiani filesi con alla testa Amato Rossi combattono
coraggiosamente nella «Bianconcini», tre di loro: Pietro Liverani, Ainis
Tirapani e Mario Guerra non
tornano più alle loro famiglie e al loro paese. Cadono, i tre giovani, sotto il
piombo nazi-fascista: i primi due sul monte Carzolano il 25 maggio del ’44, il
terzo, prima ferito gravemente nella battaglia di Purocielo (ottobre ’44),
viene giustiziato con ferocia e con tutta l’infermeria partigiana, dalle brigate
nere faentine [29].
Un anno prima, il 10 novembre del ’43 un altro giovane filese, Raimondo Rossi, era caduto in
combattimento, ben al di là del mare, sui Monti Balcani nelle fila della
Resistenza albanese. Lì, per combattere i nazi-fascisti, si era arruolato dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Ottobre 1944, ritorna il
terrore a Filo
Ricostruzione
dell’accaduto e testimonianze raccolte da Vanni Geminiani
Dopo la sparizione del soldato tedesco di stanza a Passogatto, domenica 1
Ottobre 1944 i tedeschi piombarono a Filo in forze, circondarono il paese e
rastrellarono oltre quaranta persone. Fare un elenco di quelle persone,
ancorché approssimato, oggi risulterebbe impossibile.
Uber Bellettini (14 anni), il cui padre Alfonso era stato fra le vittime
dell’eccidio dell’8 settembre, era sfollato, con la madre (Maria, staffetta
partigiana) e il fratello Ibanez, a Molino di Filo, alla base della Piguréra. Lui e il fratello tre
settimane prima erano stato presi e rilasciati dai tedeschi.
Quella domenica mattina, verso le undici, Uber, all’insaputa della madre,
si trovava da Caprèt, il barbiere,
nella baracchina davanti al Palazzone. Ad un certo punto qualcuno gli gridò di
darsela a gambe perché c'erano i tedeschi che stavano operando un nuovo rastrellamento
nel centro di Filo.
Lui scappò subito, scavalcò una siepe, passò dietro casa Carlotti
(residenza di Gemma Vandini che era stata la sua maestra) ma appena in aperta
campagna, fu individuato da due tedeschi in lontananza. Gli spararono senza colpirlo,
sicché riuscì in qualche modo a far perdere le sue tracce. Dopo un po’ tornò
verso l’abitato e vide la signora Gemma sulla porta di casa. La pregò di farlo
entrare.
All'interno c’era già Ermanno Leoni (Gàli,
16 anni) che non era riuscito a correre fino a casa sua, a poca distanza. La
maestra nascose entrambi al piano superiore.
Qualche istante dopo i tedeschi, che cercavano uomini in ogni casa,
bussarono violentemente alla porta, gridando ad alta voce. Lei senza tradire
emozioni, e rischiando parecchio, disse che in quella casa non c'erano
"uomini". Uber, che dimostrava assai meno della sua età, con sangue
freddo infilò una giacchetta e scese con indifferenza le scale. Il tedesco non
lo considerò. Gàli, però, qualche
anno in più, era rimasto di sopra e a quel punto gli saltarono i nervi. Si mise
a piangere. Il tedesco gli ordinò di scendere subito e con lui prese anche
Uber.
Fu ordinato ai due ragazzi di andare immediatamente al punto di raccolta
nei pressi della caserma mentre il soldato, da casa Carlotti, li teneva sotto
tiro col fucile. Appena a destinazione[30],
Uber parlò con Cirlèñ Belletti (papà
di Wander e Iseo). Lo supplicò di
adoperarsi per suo rilascio visto che da poco gli era stato ucciso il padre e
che sua madre non avrebbe retto ad un’altra disgrazia. Cirlèñ si interessò e riuscì a far liberare Uber, ma nulla poté per
Gàli che aveva 16 anni.
A questo punto il ragazzo desiderava correre dalla madre a
tranquillizzarla, ma il paese era presidiato, gli uomini tutti sbarrati in
casa. Decise allora di travestirsi da donna, poi, dietro Maria ad Raflòñ (Maria Pollini, moglie di
Raffaele Vandini, fratello di Guerriero), Maria ad Tachini ed Eva Belletti, si diresse in bicicletta al Molino di
Filo. Passarono il posto di blocco tedesco che stava dopo il cimitero davanti a
casa Pezzi senza essere fermati. Se il travestimento fosse stato scoperto, lui
e le tre donne avrebbero rischiato la fucilazione, quasi certamente scambiati
per partigiani[31].
Gli altri ostaggi filesi catturati nel rastrellamento furono portati, verso
sera, nelle campagne di Passogatto, nel cortile di una casa contadina; lì
rimasero sotto la sorveglianza di pochi tedeschi. Ebbero libertà di movimento,
ma sotto precisa minaccia: «Se qualcuno scappa, tutti gli altri vengono
uccisi».
Davanti alla casa c'era una vigna e da lì staccarono e mangiarono qualche
grappolo d'uva ancora da vendemmiare.
Fra gli ostaggi preziosa fu la presenza di don Umberto Pertegato, sfollato
a Filo presso il fratello Ferruccio, che si adoperò parecchio per calmare i
giovani orientati a tentare la fuga. Fra i presenti si ricordano anche Giurgiòñ Cassani, Tempioni (papà di Cichìno), Enea Checcoli detto Néo d’Fióri[32],
Ghiselli Tonino, detto e’ Göb, babbo
di Pippo, Vincenzo Minguzzi (Sula), Giovanni Righini[33]
e Nello Bonora. La Nella, moglie di
quest’ultimo, salì in bicicletta, andò ad Argenta per avere notizie dei filesi
e, di lì, andò fino a Passogatto per rincuorarli.
Nella mattinata del giorno seguente il tedesco sparito fu miracolosamente
ritrovato; si era recato in un bordello di Lugo, si era ubriacato, infine era
caduto in un fosso.
Fu così che i nostri concittadini vennero lasciati liberi e, da Passogatto,
tornarono a Filo a piedi[34].
Il cippo al Ponte
Bastia
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Il cippo nel centro di
Filo
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°°°
La Liberazione del territorio non è ancora però
imminente. Ravenna viene liberata il 5 dicembre e il fronte si attesta per
tutto l’inverno ‘44-45 - vedi cartina
a fianco - lungo il Senio, lungo una nuova demarcazione, la cosiddetta
Gengis-Khan, determinata dal cedimento della Gotica nella sola parte
orientale.
E’ da questa linea, la linea del Senio, che parte
nell’aprile del ’45 la grande offensiva di primavera delle Forze Alleate.
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Linea Gotica e Linea
Gengis-Khan
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Nelle terre dell’Argenta Gap ove si disputa la battaglia che, di fatto, pone termine
alla Campagna d’Italia, tanti sono, in quell’aprile 1945, i lutti, i morti, le
macerie e le distruzioni che stravolgono i nostri paesi, da Anita ad Argenta. Muoiono tantissimi civili, il centro di Filo rimane
praticamente raso al suolo. Cadono, nei giorni del passaggio del fronte, anche
due partigiani filesi della Brigata di Pianura «Mario Babini»: Alfeo Fabbri (Pipòñ), uno dei 22 antifascisti arrestati e processati nel ’31, ed Egidio Leoni (Fabio). La conta dei morti porta a 141 persone: 91 civili, 31
militari e 18 Martiri della Libertà.
Pochi
giorni dopo l’intera penisola, dopo un ventennio di negazione ed usurpazione
dei valori e dei diritti più elementari, ritorna alla Libertà ed alla
Democrazia.
Aprile 1945 - Il centro
di Filo distrutto dai bombardamenti, visto dalla chiesa
°°°
Questa ricostruzione dei fatti tragici
filesi del 1944, ha permesso di far conoscere i nomi e le storie dei diciotto
Martiri della Libertà, delle diciotto stelle d’argento che onorano la bandiera
tricolore della locale Associazione Partigiani. Sono nomi e storie che dicono e
raccontano perché, Filo e la sua gente sentono ancora, sulla loro pelle, il
valore di quella Libertà e quella Democrazia.
E’ un popolo che aspira ad un mondo di
concordia e di pace, ma che non dimentica gli orrori della guerra, né gli
insegnamenti della lunga lotta al fascismo; chiede per questo una corretta e
diligente rappresentazione della storia, nazionale e locale.
Nelle nostre famiglie c’è oggi un senso di
fierezza, orgoglio, rispetto, tenero ricordo dei tanti, troppi caduti dell’ultimo
conflitto. E’ una memoria ancora forte e viva che si accompagna alla gratitudine
e alla riconoscenza verso chi, in quel lontano 1944, nei giorni più bui, nei
giorni neri dell’oppressione, si sacrificò con abnegazione e coraggio per tutti
noi, noi che oggi possiamo vivere da uomini liberi.
[2] A.Meluschi,
Epopea Partigiana, cit. p.278
[3] La Piguréra era già base e luogo di rifugio per i partigiani ancor
prima dell’arrivo a Molino di Filo di Antonio Meluschi (Il Dottore). L’epoca del suo arrivo, la indica lo stesso Libero R. Maccarini (op. cit, «Con l’arrivo del “Dottore”»,
p. 54): «[…] Doveva essere, pressappoco, la fine del mese, ed ogni movimento
segnava l’affanno della ripresa stentata, dopo il tremendo eccidio dell’otto
settembre e a breve tempo dal rastrellamento della prima domenica di
quell’ottobre [1 Ott. 1944 n.d.A.], tanto denso di vecchie e nuove
preoccupazioni». Ci si riferisce al secondo rastrellamento che il paese di Filo
subì per la sparizione di un soldato tedesco a Passogatto, vicenda di cui
l’autore racconterà in chiusura del brano qui trascritto.
[4] Dovrebbe trattarsi della
molinese Pina d Barchìra, madre di
Luciana Lippi Bruni.
[5] Questa parte del racconto è
scritta in terza persona. Il «lui», quindi, è lo stesso Libero Ricci Maccarini,
la cui abitazione è nelle adiacenze dell’osteria, come apparirà evidente alla
citazione della sorella Giovanna.
[6] L’accenno è alla bella villa di
Case Selvatiche di proprietà di Carlo Tamba.
[7] Appare evidente quindi come il
comitato di Filo sia alle dipendenze del CUMER, Comando Militare dell’Emilia
Romagna.
[8] Giovanni non può essere che
Giovanni Matulli detto Gianêl,
comunista, a lungo perseguitato dal fascismo, incarcerato e condannato nel
1930-31. Sei mesi prima, come mio padre Guerriero, era scampato all’esecuzione
sommaria delle Brigate Nere, rilasciato in extremis dopo la sparatoria che
aveva colpito a morte Agida Cavalli.
[9] Nelle ricostruzioni postbelliche
l’azione di disarmo cui si apprestavano i combattenti viene descritta con altri
particolari. L'Unità del 14 settembre 1974 riporta: «Nel pomeriggio del 7
settembre le brigate nere dovevano trasferirsi dalla caserma di Filo a quella
di Portomaggiore. Il movimento partigiano ne fu informato e dispose un'azione
per sottrarre le armi ai fascisti. Ad un gruppo di partigiani fu affidato il
compito di attaccare le brigate nere lungo la strada di Bando. I fascisti
all'ultimo momento cambiarono percorso e si trasferirono passando per il ponte
della Bastia e, quindi, per Argenta. Al gruppo partigiano venne ordinato di
ritirarsi senza ovviamente compiere l'azione». Libero qui riporta che Gianêl apprende da un informatore che «quei
ragazzi», chi tabëc, venuto meno il
piano di uscita, sono comunque in azione, ma diretti verso la Fiorana dove
intendono disarmare un militare fascista. Sono versioni difformi che tuttavia ci
raccontano come il CLN filese non avesse il completo controllo di quanto stava
avvenendo quella sera.
[10] Gigi è Luigi Matulli, l’altro è Alfonso Bellettini. Incapperanno
nel rastrellamento e cadranno entrambi vittime dell’eccidio.
[11] E’ la vicina di casa Clorinda
Quattrini (1907-1992) residente al piano inferiore del fabbricato, assieme alla
madre ‘Medea ed ai fratelli Enrico (Richèñ) e Romildo.
[12] Dalla finestra dei Ricci
Maccarini che dava sulla strada Provinciale era infatti visibile, a quell’epoca,
il palazzo Tamba che stava ove sono oggi le Scuole elementari.
[13] Di questo ordine imperioso a
rientrare in casa («A letto tutti e
chiudete le porte…»), dato poco prima della sparatoria che colpì il
tedesco, c’è ancora memoria nella mia famiglia che, a quel tempo, abitava al
lato opposto della strada, a poca distanza dall’osteria.
[14] Sono abitanti o ex filesi
sfollati delle case vicine: Max Barabani, padre di Carlo e Paolo, il cantante già
noto a questo blog, ed Irene di Amedeo Mezzoli e di Eufemia Cavalli,
quest’ultima zia di mio padre, emigrata con la famiglia a Bologna e poi, come gli
altri fratelli Cavalli sfollata al paese
natio, durante la guerra.
[15] Il primo è Emilio Pasi, classe
1912, di Tancredo e di Giovanna Minguzzi, famiglia di origine alfonsinese,
fattori del proprietario terriero Casadio. La famiglia risiedeva a Filo
d’Alfonsine, nella casa poi abitata dalla famiglia di Massimo Galamini che, in
epoca successiva, ricoprì le stesse funzioni. La seconda è Dina Drei, maestra
che alloggiava presso la famiglia Barbieri.
[16] Pare che a Casa Tamba si fosse
recato a ritirare la somma concordata, una prima volta l’uomo dal volto bendato
incontrato da Libero, e una seconda volta, poco dopo, altri partigiani a volto
scoperto. Nino Tamba avrebbe risposto a questi ultimi di non avere più il
denaro perché appena consegnato. In quel momento sarebbe comparso il tedesco e
di lì sarebbe nata la sparatoria (Testimonianza raccolta da Vanni Geminiani).
[17] L’oste citato è Enrico Nuvoli (Ricco), cui è intitolata la via di Filo
di Alfonsine ove risiedo, uno dei dieci ostaggi filesi uccisi. Enrico, spintonato
e incalzato dai tedeschi alla ricerca di uomini da rastrellare, li porta al
lato opposto della strada, presso la residenza della Minghìna (Domenica Mercatelli) e della di lei madre Baztìna (Battistina Ricci Maccarini),
due donne che vivono sole. Le loro stanzette stanno al piano superiore dello stabile
abitato dalla mia famiglia. Qui Ricco viene
picchiato per la presenza di sole femmine ed obbligato a fare i nomi di chi era
all’osteria prima della sparatoria. Di tutto questo ho udito io stesso, dopo la
guerra, da ragazzo, nella casa popolare in cui sono cresciuto, direttamente dalla Minghìna, nostra vicina di casa.
Peraltro mi fu sempre raccontato che mio padre, ovviamente in allerta dopo l’uccisione
della madre di sei mesi prima, sfuggì al rastrellamento perché subito informato
dell’accaduto dalla cugina Alda Cavalli. La ragazzina aveva familiarità con la
lingua tedesca (lingua della madre, la staffetta partigiana Annie Oelsner) ed
aveva appreso della morte del tedesco dalle urla che giungevano fino a casa
nostra. Pretese però l’Alda, piangente e impaurita, che il padre, lo zio Tonino
Cavalli, non si muovesse da casa e, convinta di evitargli ogni rischio, lo
nascose sotto il materasso. Per fortuna, come si è già detto, i tedeschi, scesi
dalla nostra rampa spintonando il povero Ricco,
furono indotti da quest’ultimo a salire le scala posteriore e a non entrare in
casa nostra. «Lì ci abitano soltanto
donne…», mentì Ricco indicando il
nostro portone. Da sotto il materasso, zio Tonino udì poi, con terrore, attraverso
le fessure del soffitto quanto avveniva sopra di lui, presso la Minghìna. Quanto a zia Annie, che ricordo
con tanto affetto, riporto due note biografiche: «Oltre alle usuali funzioni di
staffetta, ha partecipato in prima persona al disarmo di fascisti e tedeschi,
compiendo anche atti di sabotaggio nelle zone allagate fra Menate, Filo e
Bando, e ha collaborato all’assistenza sanitaria in valle, occupandosi in
particolare del punto di soccorso situato alla “Ghedinia”». D.Tromboni- L.Zagagnoni, Con animo di donna, Ferrara,
Cartografica Artigiana, 1998, p.284.
[18] Il padre di Libero è Ricci
Maccarini Achille (Chilèñ), la madre
Cesira Bellenghi (Cišìra); la sorella
è Maria Giovanna Ricci Maccarini che sposerà nel dopoguerra Bonnar Briggs, un
ufficiale inglese. Chilèn e la Cišìra vennero a vivere nelle case
popolari e, anche loro, furono indimenticabili vicini di casa della mia
infanzia.
[19] Libero e Chilèñ fuggono perciò dal lato posteriore della loro abitazione
dirigendosi verso la frazione ravennate di Filo. Attraversano la zona capanni e
serragli del Palazzone, superano la casa Liverani (ora parco M. Margotti), e si
portano presso i Sacrato, famiglia che risiede nella prima casa contadina (oggi
demolita) a sinistra dello stradone (ora Via Rondelli) che porta al fiume. Cömo è Ricci Maccarini Mario,
indimenticabile personaggio filese già noto all’«Irôla» (28.10.2007).
[20] Libero capisce perciò solo in
quel momento il vero significato delle urla udite nei pressi dell’osteria.
[21] Dera Bedeschi, altro ben noto
personaggio filese, levatrice ed attiva staffetta partigiana.
[22] I minorenni incappati nel rastrellamento
erano quattro, ossia: i due figli di Alfonso Bellettini, Uber (Mazalôca) ed Ibanez (e’ Baròñ) e poi Sante Toschi (Baréra), poco più che ragazzini, e il
diciottenne Giorgio Marconi. Per la loro liberazione si interessò Nino Tamba
che ordinò all’inserviente Rita Gardelli, friulana di confine in grado di
spiegarsi in tedesco, di recarsi all’osteria ed intercedere opportunamente affinché
questi giovanotti venissero rilasciati. Rita ci riuscì per i tre più giovani,
ma non per Giorgio, uno dei caduti nell’eccidio del giorno dopo. La sua
liberazione fu negata. Dissero che a diciott’anni in Germania i giovani avevano
già l’età per la guerra e per la morte. (Testimonianza raccolta da Vanni
Geminiani).
[23] Il convoglio era costituito da
un mezzo militare con a bordo alcuni militi tedeschi, una Topolino con dentro
tre italiani (incaricati delle esecuzioni materiali) ed il camion degli
ostaggi, un mezzo di proprietà di un filese, normalmente adibito al trasporto
di bestiame. Nel cassone con gli ostaggi erano presenti, come sorveglianti,
alcuni militari germanici. Al ritorno verso Filo, e all’attraversamento di San
Biagio, un bombardamento aereo alleato parve dare qualche speranza di fuga ai
prigionieri, ma i tedeschi, scesi dal camion, si ripararono in una casa nei
pressi dell’attuale farmacia sanbiagese; di lì tennero sotto tiro gli ostaggi durante
l’incursione aerea (Testimonianza raccolta da Vanni Geminiani).
[24] Le esecuzioni avvengono in
successione ai margini della strada davanti al Ponte Bastia sul Reno, luogo di
grande frequentazione e passaggio obbligato verso il lughese. I morti devono essere
di monito per chi attraversa quel luogo. Carnefici sono i tre fascisti
forestieri col fez scesi dalla Topolino. Gli ostaggi, col nome cerchiato di
rosso nella lista, vengono chiamati uno per volta e poi soppressi con un colpo
di pistola alla nuca dall’individuo più alto. Al momento in cui viene chiamato
ad alta voce “Coatti Antonio”, scende dal camion Coatti Paolo (Ciarèñ, altro mio vicino alle case
popolari), padre del giovane Coatti Antonio (Tugnòn, detto anche Zöca).
Dice: «Vengo io al posto di mio figlio!» Gli rispondono che la sostituzione non
è possibile. Ciarèñ chiede
delucidazioni, poiché sono due i Coatti Antonio fra gli ostaggi. Si appura che
il designato è l’altro Coatti Antonio, padre di Eligio. Nel cassone c’è fra i
rastrellati anche l’anziano papà di quest’ultimo che, come già aveva fatto Ciarèñ, offre il suo sacrificio, ma i
dispensatori di morte non sentono ragioni. Compiuta la carneficina, i tedeschi
ordinano ad un loro giovane militare di restare sul posto per impedire a
chiunque lo spostamento dei corpi. Il ragazzo non se la sente, prova ad
aggrapparsi al camion che sta ripartendo, ma viene obbligato a rispettare
l’ordine ricevuto (Testimonianze raccolte da Vanni Geminiani).
[25] Anche queste uccisioni furono perpetrate
dal più alto dei tre italiani col fez. Gli ostaggi, fatti scendere nel crocevia
ai margini della strada per Bando, vennero tenuti in piedi uno per volta e
rivolti in direzione della chiesa. Il boia da dietro appoggiò loro, un dopo
l’altro, una mano sulla spalla, sopprimendoli con un colpo di pistola alla nuca
sparato con l’altra mano armata (Testimonianze raccolte da Vanni Geminiani).
[26] Secondo le tante testimonianze, quella del
diciottenne Giorgio Marconi fu l’ultima delle esecuzioni e, come tutti sanno,
la più terribile. Giorgio riuscì una prima volta, con un rapido scatto della
testa, a scansare il colpo del carnefice. Questi allora sparò un secondo colpo
che però fece cilecca. A quel punto ci fu il tentativo di intervento
dell’Annunziatina Bosi che da casa sua, posta a pochi metri dal crocevia, assisteva
alla macabra scena. Come ho già riportato in questo blog (29-7-2013: «I vecchi
tempi della Vinzinzóna») la
settantenne Annunziatina, di fronte alla spietata ferocia che si materializzava
sotto i suoi occhi, cercò di implorare e anche di inveire verso gli aguzzini
affinché rilasciassero «che pòvar tabàc»
la cui madre disperata (Teresa Romagnoli detta Tisa) assisteva dalla finestra di casa poco distante. Quando gli
sgherri spararono senza pietà sul ragazzo e
il primo colpo mancò miracolosamente il bersaglio, l’anziana e religiosa
signora urlò a squarciagola: «basta
basta, a n’avdì ch’l’è incóra un tabàc, e ch’l’è banadèt da la Madöna?»[Fermatevi!
Non vedete che è ancora un ragazzo e che è benedetto dalla Madonna?] La donna
non ottenne pietà, fu anzi vigliaccamente percossa e minacciata di morte mentre
i feroci aguzzini portavano a termine la carneficina. Pare anche che persino i
due «colleghi» del boia avessero chiesto la sospensione, non certo per pietà o
pentimento, ma per rispetto della tradizione e dell’usanza che vuole sia
concessa la vita al condannato se l’esecuzione fallisce per fatto accidentale.
Il truce aguzzino non volle sentir ragioni, anzi, con ancor più lena fece
inginocchiare il ragazzo, gli bloccò la testa fra le ginocchia e gli sparò
dall’alto al basso (testimonianze raccolte da Vanni Geminiani).
[27] Lo sfollato da Faenza è Matulli
Paolo, fratello di Luigi. Al suo posto viene chiamato, a caso e scorrendo la
lista, Soatti Arturo, detto e’ furnarèñ.
Questi, che aveva moglie e tre figli e di simpatie repubblichine, se avesse
manifestato la sua militanza fascista avrebbe forse potuto evitare la morte, ma
non lo fece e salvò, di fatto, la vita a qualcun altro. Fu anche questo un
esempio di coraggio e di dignità che va ricordato con grande rispetto.
[28] Si veda la
ricostruzione di Vanni Geminiani in calce
al presente articolo.
[29] Tutta la loro
storia è stata raccontata in A.Vandini,
Sotto l’ombra di un bel fior, Faenza,
Edit, 2005.
[30] «Le persone venivano
raggruppate tra la caserma e l’osteria Benassi (oggi negozio Ghirardini).
Durante la confusione del momento, mio padre Salvatori Ferdinando (Ramo) e Mezzoli Adolfo (Tufaiaia padre di Lodino), riuscirono a scappare senza farsi vedere» (Testimonianza
di Luciano Salvatori).«A quanto mi raccontava zia Fastina [sorella di Vincenzo
e di mio padre Tullio Minguzzi detto e’
Méstar], zio Sula era quel giorno
seduto su di un muricciolo nei pressi dell’incrocio di Filo. Quando giunsero i
soldati tedeschi, molti dei quali erano poco più che ragazzini, ci fu
l’immediato fuggivia e qualcuno vedendolo immobile gli gridò «Fuggi Sula, fuggi!». Lui rimase invece al suo
posto, dicendo che era al suo paese e che lì aveva tutto il diritto di restare.
Le stesse cose, urlando, le ripeté in dialetto in faccia ai tedeschi che
affrontò a male parole, mentre lo spingevano al punto di raccolta»
(Testimonianza di Giorgio Minguzzi).
[31] Testimonianza di
Uber Bellettini.
[32] Morirà suicida nel
dopoguerra.
[33] Queste, fra i 44
ostaggi, sono le persone che ricordava Gàli.
A queste si può certamente aggiungere, per quanto si tramanda in famiglia,
anche il nome di mio nonno, il calzolaio Ivo Vandini (Ivo dla Bargamina), vedovo di Agida Cavalli.
[34] Testimonianza di Ermanno
Leoni detto Gàli.
3 commenti:
Pubblico un primo lotto di commenti ricevuti:
Franco Fabbri
12 feb (4 giorni fa)
a me
anch'io mi unisco ai tanti che hanno apprezzato la tua magistrale ricostruzione storica degli avvenimenti successi a Filo che in parte coincidono coi miei ricordi infantili. attendo notizie del film che è stato girato sulla ricostruzione di detti fatti […]
Ciao
Agide Vandini
12 feb (4 giorni fa)
a Franco
Grazie Franco per i complimenti che fanno sempre piacere.
Il film è, come ho scritto: "L'aquilone sul Reno", ma non si trova, né credo si sia mai trovato, in commercio.
Fu girato grazie ad una sponsorizzazione della Coop Costruttori ora fallita e raggruppa, collegandola ad una storia di fantasia, tutti gli eventi più drammatici avvenuti nell'argentano durante la guerra.
I miei commenti sullo scarso valore documentaristico, almeno della parte dedicata a Filo, li hai letti nella prima puntata.[…]
Un caro saluto.
°°°
Romano SACCANI VEZZANI
19:04 (12 ore fa)
a me
Che dire?hai completato con la tua precisa ricerca,un capolavoro.Sembra un racconto di fantasia,ma purtroppo e la verità capitata al nostro popolo per liberarsi della dittatura più bieca.Noi Italiani non riusciamo a digerire certi sistemi autoritari e repressivi.Vorrei che queste testimonianze fossero insegnate nelle scuole,e che i nostri giovani dediti alla bella vita spensierata,anche per colpa nostra,fossero informati della vita toccata ai loro nonni e a quanti hanno sacrificato la vita per dargli la libertà.Hai fatto un capolavoro da fare venire il magone.Ciao Agide e grazie del tuo operato.
°°°
Dal Buono Willer 13 feb (3 giorni fa)
a me
Caro Agide o letto e riletto, le tue puntate sui tragici avvenimenti di Filo durante il ventennio fascista fino all'epilogo finale della liberazione, unitamente alla mia famiglia che abbiamo commentato gli accadimenti raccontati, ti esprimiamo gratitudine per il lavoro svolto, affichè questa memoria rimanga viva nel tempo. Ciao Willer
Agide Vandini 14 feb (2 giorni fa)
A Dal Buono Willer
Grazie Willer, il tuo apprezzamento mi fa capire che l'iniziativa è stata giusta, ha colto nel segno.
Come avevo promesso a Guglielmo, e come avevo anticipato all'assemblea ANPI, i cinque articoli li ho già raccolti in un fascicolo, dotato di adeguata copertina, rilegabile presso un comune center-copy (ho già il contatto opportuno ad Argenta) che provvederemo poi, se anche gli altri saranno d'accordo, a distribuire ed a diffondere con introiti a favore dell'ANPI filese.
Lo scopo è di fare in modo che, anche quelli che non leggono Internet, possano fruire del lavoro svolto. Ciao.Agide
Aggiungo:
aderitto geminiani 13 feb (3 giorni fa)
a me
Carissimo Agide,
non mi stancherò mai di esternarti tutta la mia ammirazione per avermi raccontato così scrupolosamente un pezzo di storia, che io da bambino appena in età scolare, ho vissuto marginalmente. Tutti i fatti così angosciosi mi inducono a leggerti e rileggerti perché non mi par vero che tutto ciò sia accaduto mentre io non capivo niente. Percepivo e la mia memoria non mi tradisce, anche se ero piccolo, che attorno a me c'era qualcosa di anormale. Mentre tu descrivi così tutto ciò che è avvenuto, io mi chiedo, adesso che sono alla soglia della linea fatale, quali stati di animo potevano avere i nostri avi in quel periodo, martoriati da bestie inferocite, sempre pronte a colpire persone indifese che chiedevano solo di poter vivere una vita serena in un mondo sereno usurpato dalla FOLLIA di menti malate.
E' davvero stupendo il tuo racconto, io tutti i personaggi ,o quasi, me li ricordavo, perché abitando nel palazzone, sono sicuro che sarò passato attraverso tante braccia e visto tante facce indimenticabili che dalle foto non ho esitato a riconoscere.
Agide,se posso, Gianèl, mi sembra non fosse Giovanni il nome ma Gianni, puo' essere? Ricordo Chilen e la Cesira tuoi vicini di casa e la loro figlia Giovanna che sposò un ufficiale Canadese. La Cesira diceva sempre al marito “se uno di noi due muore, io vado in Canadà da mia figlia”!... Così almeno scherzava la gente. Io metterò gli splendidi 5 racconti insieme e ritornerò a leggerli e non dimenticherò!!!!!!!
Grazie Agide a te in primis, a Vanni anche se non mi conosce, e a Carlotti e a tutti quelli che in qualche modo hanno contribuito a questa eccellente opera.
Un caro saluto ed un affettuoso abbraccio.. pippi
La mia risposta a Pippi:
Agide Vandini agide
14 feb (2 giorni fa)
a aderitto
Pippi carissimo,
metterò questo tuo commento che è anche una testimonianza, se non hai nulla in contrario, fra i commenti sul blog. Se non erro mi scrivesti anche che tu, piccolissimo, in quell'8 settembre 1944 volevi guardare dalla tua finestra, dall'alto del palazzone quanto avveniva nell'incrocio di Filo.
Gianèl all'anagrafe si chiamava Giovanni, come puoi agevolmente vedere nella sentenza di condanna del 1931 che trovi alla 2° puntata. Come quasi tutti i Giovanni, il suo nome veniva abbreviato in Gianni, Giannetto, ossia, in dialetto, Gianèl.
Quanto alla Cesira e Chilen, due tipi singolari, ho tantissimi ricordi. Molti li ho riportati in "Gente Semplice" altri ne "La valle che non c'è più". La figlia Giovanna, come ho riportato nelle note, sposò nel dopoguerra Bonnar Briggs, un ufficiale inglese conosciuto qui durante la guerra e il passaggio del fronte, ed andò inizialmente ad abitare in Canadà, poi negli Stati Uniti fino a quando, a metà anni '50 (forse verso il '56 o il '57) non tornarono a vivere in Inghilterra. In quella occasione trascorsero alcuni mesi a Filo con tutta la famiglia, a casa della Cesira, accanto al mio appartamento, mentre le loro masserizie venivano nel frattempo trasportate in nave in Gran Bretagna. Io avevo una decina d'anni e giocavo spesso col loro figlio maggiore, John (che ne aveva un paio in meno) e anche con la piccola Angela, mentre il neonato Paul lo tenni qualche volta in braccio, ma poi una volta mi sfuggì, finì a terra e gli crebbe un bel bernoccolo. Dopo non l'ho più tenuto. Bonnar era una persona buona e parlava bene in italiano, così come John ed Angela. Morta la Cesira, quando venivano in Italia si fermavano ad Argenta da Libero. Non li ho mai più visti. Un paio d'anni fa è apparsa solo l'epigrafe a Filo, alla morte della Maria Giovanna.
Io mi sento ancora molto legato a quella straordinaria comunità che era allora la nostra casa operaia. Eravamo sei famiglie: I Vandini, Ricci Maccarini, Cantelli, Coatti, Mercatelli e Matulli che in pratica vivevano e si comportavano come fosse una sola grande famiglia. Oggi questo tipo di rapporti non esiste più.
Quanto agli articoli, li ho raccolti per bene in modo che formino un fascicolo stampabile e rilegabile. L'ho proposto all'ANPI filese per una diffusione e distribuzione su carta, con introito netto a favore della sezione locale.
Se vieni a Filo per la festa della Liberazione del paese che celebreremo nella domenica più vicina, ossia il 13 aprile, domenica delle Palme, dovresti trovare la pubblicazione. Ci sarà, come negli ultimi due anni, un ritrovo nella Saletta del casa del Popolo con bella musica e canti. Dovrebbe venire l'ex filese Frida Forlani.
Un grande abbraccio. Agide
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