martedì 5 febbraio 2008

Sant’Agata, che malinconia…

di Agide Vandini

Se siete passati per Filo, oggi 5 febbraio e giorno di Sant’Agata, patrona da quasi cinque secoli di questo antico paese[1], non vi siete neppure accorti che fosse un giorno di festa. Non è una novità, è ormai da parecchi anni che la festività è caduta in disuso, eppure la silenziosa indifferenza suona ancora strana, triste e tremendamente stonata a chi, appartenendo ad una vecchia generazione, ha conosciuto ben altri modi di festeggiare e trascorrere questo giorno così importante e in fondo rappresentativo dell’identità del paese.

Occorre tornare con la mente ai lontani anni del dopoguerra per riassaporare l’attesa, i preparativi della festa, l’arrivo e l’entusiastica partecipazione dei parenti dai paesi vicini, la chiassosità delle strade del centro brulicanti di persone, i divertimenti, i giochi, le feste da ballo. Già dal giorno di Natale dell’Anno Vecchio si cominciava a pensare a S.Agata, al giorno infrasettimanale, cioè, in cui sarebbe caduta la sua festa, giorno che coincide naturalmente con quello del Natale e del Capodanno.

Era un giorno, il 5 febbraio, ben collocato fra le feste ugualmente sentite ed oggi altrettanto in disuso dei paesi più vicini, ossia S. Macario Magno (Bando, 19 gennaio), San Sebastiano (Lavezzola, 20 gennaio), S.Biagio (San Biagio, 3 febbraio) e quella del Mért dal fëst (Longastrino, martedì dopo Pasqua). La reciproca ospitalità con parenti ed amici dei paesi vicini era una tradizione portata avanti da secoli. L’intreccio di parentele, del resto, nel mondo tanto ristretto di allora, era piuttosto consistente ed anche i legami e la solidarietà nella famiglia allargata erano certamente molto più sentiti di quanto non lo siano oggi.

Era il giorno anche del ritorno a Filo di quanti, alla ricerca di miglior fortuna, avevano scelto di vivere altrove. Tornavano, giovani ed anziani, a respirare per un giorno l’atmosfera del paese natio in quel giorno di festa, ed a riassaggiare quella «sböcia» che una famiglia filese si poteva giusto permettere, di grazia, per Natale, Pasqua e Sant’Agata.

Le giostre, i circhi, i girovaghi, giungevano in paese alcuni giorni prima. Si stabilivano al «campicello» o in altro spiazzo disponibile, mentre le nostre massaie facevano andirivieni in bicicletta fra una bottega e l’altra, oppure erano occupatissime nella preparazione dei piatti tradizionali di S.Agata (i zucaren, i caplet, i turtlen dulz cun l’alchermes, e’ lat brulè), nell’estrarre dagli armadi i vestiti «della festa» per tutti i componenti della famiglia e nel riordinare la casa per la venuta, graditissima, dei parenti da ogni dove. Averne tanti, di invitati, era considerato un onore, un segno di distinzione della famiglia di fronte al paese.

Le bancarelle giungevano di prima mattina e si stendevano lungo la strada Provinciale, davanti alla Casa del Popolo, nonché fra l’incrocio e la chiesa, a un lato della «rata» per tutta la sua lunghezza. I giovanotti, poi, in quel giorno, avevano in tasca qualche soldino in più, sicché i giochi d’azzardo «da strada» facevano sempre la parte del leone. «La bëla palutina l’è a que, l’è a lè…» s’udiva fra le bancarelle e subito si correva a far capannello intorno al biscazziere, in piedi dietro un traballante tavolino pieghevole, sopra al quale teneva schierate tre minuscole campanelle di legno. Dentro e fuori di esse saltellava come in un valzer viennese una pallina nera dalle dimensioni di un granello di pepe, che compariva e scompariva incollata al pollice dell’abile biscazziere, ovviamente assistito da finti giocatori il cui ruolo era quello di incoraggiare il gioco dei campagnoli. Affinché costoro puntassero ad indovinare dove stava la bëla palutina, i finti giocatori giocavano e vincevano in un batter d’occhio al (fintamente) irritato biscazziere parecchi biglietti da mille.

All’interno dei muretti della Casa del Popolo si piazzava invece quella specie di roulette dei poveri che era il “picche-quadri-cuori e ancorina”, un gioco d’azzardo con tanto di tabellone per le puntate che recava i simboli dipinti nelle facciate di dadi di grosse dimensioni, anche questi abilmente manovrati dal biscazziere.

Qua e là era tutto uno zufolare di ucarin e s-ciflen rŏs comprati per i più piccoli nelle bancarelle dei dolci, un’armonia di pive di carta arrotolata e di coloratissime trombette di cartone a cui faceva da controcanto lo sgranocchiare di ceci, carrube, lupini, patóna e mistuchin di cui, in quel giorno speciale, ci si poteva rimpinzare a dovere. Ogni tanto, chi si attardava nel passeggio fra le bancarelle, veniva sfiorato o colpito da palle elastiche multicolori piene di segatura, lanciate all’improvviso dai bimbetti più vivaci e festosi.

Attorno all’autopista si assiepavano invece i ragazzetti poco più che adolescenti sulle orme delle timide ragazzine accompagnate dai genitori. Erano tanti ad aspettare di poter salire sull’auto dei sogni e di poter richiamare su di sé l’attenzione, che i giri a quel punto duravano un amen. Non si faceva in tempo a fare il cambio di equipaggio, a consegnare l’unto e bisunto cartoncino marron, che già suonava la campana ed il giro era, ahimè, finito.

Per i più adulti, infine, il top della festa veniva col calar della sera, al Gran Ballo da Mlarina, ovvero al Cinema Tebaldi, trasformato per l’occasione in una balera di prima categoria, colma di ballerini e di semplici curiosi, locali e forestieri.

Va da sé che, all’epoca, nel giorno della Santa Patrona chiudevano le scuole, gli uffici, le botteghe e le aziende. Non sarebbe stato concepibile il proseguimento delle attività lavorative in un giorno come quello.

Di tutto ciò che qui si è voluto rievocare, oggi non rimane nulla, nemmeno una fotografia. E’ come se tutto fosse stato divorato da un drago enorme, come se fosse passato un uragano inarrestabile, uno tsunami che oggi potrebbe chiamarsi «globalizzazione» e che, a partire dagli anni ’70, ha fatto man bassa di quasi tutte le nostre usanze e tradizioni paesane vecchie di secoli, legate al mondo rurale e contadino.

Rimane soltanto il ricordo, ben stampato nella mente degli anziani, che ancora faticano a rendersi conto del perché e del per come, a questo mondo, si siano potute perdere e disperdere cose come queste, cose che hanno saputo darci tanta gioia e senso di appartenza alla comunità.

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La storia di S.Agata (tratta da it.wikipedia.org)

Agata, patrona di Filo e di molti altri centri fra i quali Catania e San Marino è, secondo la tradizione cristiana, una figura vissuta tra il III e il IV secolo, durante il proconsolato di Quinziano. Dalla Chiesa cattolica è venerata come santa, vergine e martire. La tradizione riportata dai canoni narra della giovane, figlia di nobili catanesi, martirizzata durante le persecuzioni di Decio o Diocleziano.

Agata nacque a Catania. Alcuni storici fanno risalire la sua data di nascita al 235, altri all'anno 230. Secondo la tradizione sant'Agata si consacrò a Dio all'incirca all'età 15 anni, ma studi più approfonditi indicano come più probabile la maggiore età di 21: non prima di questa età, infatti, una ragazza poteva essere consacrata diaconessa, cosa che, da vari segni - la tunica bianca e il pallio rosso - pare che effettivamente Agata fosse; possiamo quindi a ragione immaginarla, più che come una ragazzina, piuttosto come una donna con ruolo attivo nella sua comunità cristiana: una diaconessa aveva infatti il compito, fra gli altri, di istruire i nuovi adepti alla fede cristiana (catechesi) e preparare i più giovani al battesimo alla prima comunione e alla cresima.

Nell'anno a cavallo fra il 250 e il 251 il proconsole Quinziano, giunto alla sede di Catania anche con l'intento di far rispettare l'editto dell'imperatore Decio che chiedeva a tutti i cristiani di abiurare pubblicamente la loro fede, si invaghì della giovinetta e, saputo della consacrazione, le ordinò, senza successo, di ripudiare la sua fede e di adorare gli dei pagani. Ma più realisticamente si può immaginare un quadro più complesso: ovvero, dietro la condanna di Agata, la più esposta nella sua benestante famiglia, potrebbe esserci l'intento della confisca di tutti i loro beni.

Al rifiuto deciso di Agata il proconsole la affidò per un mese ad una cortigiana di nome Afrodisia con lo scopo di corromperne i princìpi. Pare che costei qualche anno prima fosse ricorsa in giudizio presso lo stesso proconsole per impugnare il testamento della madre, dal quale veniva estromessa. Quinziano, data la pessima fama di cortigiana che la accompagnava, ritenne più opportuno non esporsi e le avrebbe consigliato privatamente, di ricorrere direttamente all'imperatore dell'epoca, Filippo l'Arabo. L'istanza di Afrodisia sarebbe tuttavia stata respinta. Data la successiva richiesta del proconsole nella vicenda riguardante sant'Agata, è probabile che Afrodisia fosse una sacerdotessa di Venere, o di Cerere, e pertando dedita alla prostituzione sacra. Secondo la leggenda Afrodisia avrebbe avuto nove figlie (ma è più probabile che questo numero derivi da un errore di traduzione di un testo greco), che cercarono senza successo di condurre Agata all'abiura inducendola in più modi in tentazione.

Rivelatosi inutile il tentativo di corromperne i princìpi, Quinziano diede avvio ad un processo e convocò Agata al palazzo pretorio. Memorabili sono i dialoghi tra il proconsole e la santa che la tradizione conserva, dialoghi da cui si evince senza dubbio come Agata fosse edotta in dialettica e retorica.

Breve fu il passaggio dal processo al carcere e alle violenze con l'intento di piegare la giovinetta. Inizialmente venne fustigata e sottoposta al violento strappo di una mammella, la tradizione indica che nella notte venne visitata da san Pietro che la rassicurò e ne risanò le ferite, infine venne sottoposta al supplizio dei carboni ardenti. La notte seguente l'ultima violenza, il 5 febbraio 251, Agata spirò nella sua cella.

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Nelle foto:

- Filo, anni ’60. Davanti al forno della Via Bassa in un giorno di festa, forse di S.Agata.

- Sant’Agata in carcere


[1] La chiesa più antica di Filo, già esistente nell’anno 1022, era infatti dedicata a S.Maria.

1 commento:

Anonimo ha detto...

sono anch'io un filese doc nato pergiunta in casa , dove risiedo tuttora 43 anni fa probabilmente uno degli ultimi nati con lausilio della balia o levatrice non ricordo come veniva definita tale figura , e devo dire che sono veramente rattristito per la morte di questa festività pensando a quello che diede a me ragazzino e che invece non darà ai miei figli .

Quattrini Fabio