lunedì 6 febbraio 2017

Filo e la sua Riviera - Parte Seconda

Compendio di storia del territorio filese e delle sue vie di comunicazione
 di Agide Vandini

[segue dalla Parte Prima]
4. Modifiche della dipendenza amministrativa: come quando e perché
Con la perdita di Argenta e del suo territorio la Riperia Padi viene a rivestire per il ravennate ancor più importanza strategica. Nella seconda metà del Trecento i Da Polenta erigono una Bastia sul Po di Primaro, allo sbocco del fossato Zaniolo, ove riscuotono i diritti di passaggio sul fiume (il rastellum, 1383).
Gli Estensi interessati a quei profitti e intenzionati ad espandersi verso sud, vogliono fare della Bastia scurtapassi il loro caposaldo difensivo, e trattano a più riprese coi Da Polenta la nostra Riperia. Tentano una permuta nel 1394 dando in cambio nientemeno che Bagnacavallo, Cotignola e 6000 scudi, ma l’accordo viene annullato da un arbitrato appena pochi anni dopo (1398).
A seguito dei rovesci dello scontro militare con Venezia (1404) i Signori di Ferrara, avuta in assegnazione Argenta a titolo definitivo (1421), si assicurano anche la Riviera e portano, nel nostro territorio, la linea di confine al Primaro (1433).
E’ questo l’atto che segna il parziale cambio di giurisdizione del territorio. La parte sinistra della Riviera entra nel Ducato Estense in forma autonoma da Argenta, ne diventa un caposaldo difensivo e militare[1], ma i centri abitati di Filo e Longastrino, distribuiti fra le due rive del fiume (si veda il Disegno veneziano del 1460), vengono scomposti in due Comunità distinte, una ravennate e l’altra di dipendenza ferrarese: una separazione che, come ben sappiamo, si trascina ancora oggi.

Archivio Storico Venezia, disegno 177; metà del sec. XV (1462)

L’appartenenza delle due sponde non muterà infatti all’estinzione della casa d’Este (1598) ed al conseguente incameramento del Ducato nello Stato Pontificio, ove ne diventa la «Provincia ferrarese» con alle proprie dipendenze la Riviera di sinistra Primaro[2]. La stessa sorte toccherà al Lughese ed alle altre quattrocentesche conquiste romagnole, territori tuttavia che Ferrara perderà con l’Unità d’Italia.
A Filo intanto, sul finire del Medioevo, si materializza un nuovo centro cittadino in posizione intermedia  fra Filvecchio e Cà Salvatiche, a poca distanza dall’Hospitale di S. Giovanni in Villa Lombardia, toponimo quest’ultimo che poco a poco scompare dai documenti, inglobato in quello di Filo. Viene edificata la cinquecentesca chiesa di Sant’Agata con a fianco l’aitante torre campanaria: è la bella chiesetta demolita nel 1929 in epoca fascista e malamente sostituita dall’odierno chiesone senza campanile.
Il funzionamento della Podestaria della Riviera, articolata nelle tre comunità (o Comuni) di Filo, S. Biagio e Longastrino, si deduce da un documento di fine ‘700[3]:

Comuni della Riviera di Filo. Loro Podestà nato è il Signor Governatore di Argenta, e così il Cancelliere Criminale; ma il Notaro Civile di detta Riviera si deputa privativamente dal Signor Tesoriere di Ferrara. Ha questa Riviera un’estensione di circa diciotto miglia di lunghezza, ma di poca in larghezza, perché il territorio argentano, poi le valli Camerali di Comacchio molto la restringono. Confina a Levante col Ravegnano, e colle suddette valli, a Ponente coll’Argentano, a mezzodì col Po d’Argenta, ed a Tramontana colle suddette Valli Camerali. Nello Spirituale è soggetta al Vicario di Ravenna residente in Argenta. Sono tre ville che la compongono, ma la principale si è Filo, che le ha dato il nome. Ogni una di esse si eleggono dal Loro Consiglio, unito in un solo alla presenza del signor Podestà, due Consoli, che governano e durano un anno.

4. Trasformazioni del territorio e delle sue vie di comunicazione
L’acqua rimane l’elemento dominante del paesaggio ai due lati del Primaro (Po vecchio) fino ai prosciugamenti su larga scala che hanno inizio a fine Settecento. Fino ad allora il fiume, con portata sempre minore, scorre a fianco della strada provinciale che oggi ne percorre l’argine sinistro (Via Di Sotto poi Comunale / Provinciale). Da quella parte si distendono verso nord, a perdita d’occhio, le valli salate le cui propaggini lambiscono il paese e le sue borgate.
Alla destra del Po, nella parte tuttora ravennate, gli scenari mutano nel tempo.
A cavallo del Millennio, all’epoca di Bergunzo e dei suoi coloni, la portata del fiume è più o meno quella dell’odierno Po Grande, portata che subisce una prima drastica riduzione con la rotta di Ficarolo (1152), quando il corso maggiore delle acque si sposta verso nord. Il Primaro non ha arginature alla sua destra, sicché in quella direzione le acque tracimano ad ogni piena, favorendo via via nei terreni allagati la progressiva «bonifica per colmata». Ai due lati dell’alveo ristretto scorrono le due «alzaie», ossia le strade d’alaggio utilizzate dagli animali da tiro per il traino dei natanti. L’alzaia di sinistra, di cui restano alcuni brevi tratti, verrà chiamata più tardi la Via Di Sopra, quella di destra la «Via di Ravenna» e poi «Via Bassa».
Il ridursi della portata ed il rialzo dei terreni adiacenti provoca l’allontanamento delle Valli Ravegnane di destra Po, ove i torrenti appenninici sfogano le loro acque, riducendone poco a poco il bacino. Vengono messi a coltura i campi che ne scaturiscono e si creano allora condizioni di abitabilità anche nella riva destra del Primaro di fronte al paese. Il processo pare divenire irreversibile allorché viene decisa l’immissione nel Po del Santerno (1460), del Senio (1537) e del Lamone (1504), rispettivamente alla Bastia, a valle di Longastrino e di fronte a Sant’Alberto. [v. Cartografia: Tavole 05 e 07 -08]
Le paludi di destra Po, si veda il disegno veneziano (1460), in parte si prosciugano, ma, vuoi per l’accresciuto interrimento del fiume, vuoi forse per ottenere nuove colmate, i fiumi appenninici ad inizio ‘600 sono nuovamente distolti dal Primaro e fatti spagliare nelle campagne, dove rialimentano le Valli d’acqua dolce.
La situazione, però, dura poco. Vista l’impossibilità di tornare ad una accettabile navigabilità del fiume, si pensa a nuove soluzioni col taglio Caetano a nord di Sant’Alberto (1606) [v. Cartografia Fig.09] e la reintroduzione in Po del Senio e del Santerno (1625-1626), quest’ultimo tramite una «Voltana» che lo conduce da San Bernardino al Passetto [v. Cartografia Tavole 05-06].
In quello stesso periodo fra Cà Selvatiche e Sabbionara sorgono le Grandi Chiaviche Paoline ove si vorrebbero convogliare le acque del Po nelle Valli del Mezzano, ma l’intento fallisce: alla prima piena, l’apertura delle paratie provoca disastri immani.
A Filvecchio, nella seconda metà del Cinquecento, il Marchese Bentivoglio utilizza la vecchia chiavica sul Canale dei Ravennati per un grande progetto di utilizzo dell’acqua del Po ai fini industriali ed agricoli.

Mappa Vaticana (1580)


Sorge il Molino che dà linfa e un nuovo nome alla borgata e che accende interminabili liti coi comacchiesi. Essi non tollerano acque torbide nelle valli, temono per sale ed anguille già in pericolo per il progressivo deteriorarsi  dell’Argine del Mantello, vedi Mappa Vaticana (1580), l’istmo che da qualche tempo unisce Filvecchio con Paviero, a protezione (come un mantello appunto) delle valli salate di Comacchio da quelle meno saline del Campo del Mezzano.
L’acqua derivata dal Po, dopo aver fatto girare le macine del Molino, prima di immettersi in valle del Mezzano nei pressi della Pioppa, alimenta una delle prime risaie del territorio (la coltura del riso inizia in Italia a metà Quattrocento). Un grande edificio ospita, alla Möta, il pillatore da’ Risi (pileria, essiccatoio e magazzino): è la Risara che dà il nome alla valle circostante.
Alla parte destra, invece, verso Ravenna, il fiume continua a sfogare per apposite «bocche» le acque di piena nelle Valli Ravegnane, prima di «San Bernardino», poi, una volta contenute dalla deviazione del Santerno, «di Filo e Longastrino».

La carta Napoleonica 1812-1814

Le premesse per il prosciugamento e la progressiva bonificazione del territorio vengono poste dalla messa in opera di rettificazioni fluviali che l’innalzamento dell’alveo ha reso indispensabili, soprattutto dopo l’immissione delle acque del Reno nel Po di Primaro a Traghetto (Cavo Benedettino, sec. XVIII).
Sono tre i drizzagni fra Argenta e Sant’Alberto; la diversione più ampia, quella che ci riguarda e che va dalla Bastia al Passetto (osservabile nella carta napoleonica 1812-1814), si completa nel 1782 e reca con sé il definitivo spostamento, di fronte a Filo, della foce del Santerno. Nei pressi di quest’ultima prende corpo il villaggio di Chiavica di Legno[4], mentre, a partire dal primo ‘800, grazie a nuove opere idrauliche, la palude fra il Po vecchio[5] e il Po nuovo viene prosciugata, popolata e coltivata. Calano in quegli anni, dal ravennate e dalla Romagna estense, coloni e braccianti che vengono ad incrementare, e non di poco, la popolazione di Filo.

5. La questione dei territori fra Po Vecchio e Po Nuovo (poi Reno).
I mutamenti apportati al territorio forniscono il pretesto per rimettere in discussione il confine ravennate-ferrarese all’indomani dell’Unità d’Italia (1861). Negli anni della II° Guerra d’Indipendenza (1859) il Governatore delle Romagne, Luigi Farini, aveva disposto la fusione di alcuni comuni minori in quelli maggiori. Il Comune di Filo, divenuto semplice appodiato nel 1831, ne fa le spese. I rivaroli non ne vogliono sapere di fondersi in Argenta, ma ottengono soltanto di mantenere rendite e passività separate dal capoluogo designato[6]. Gli altri Comuni della Romagnola estense, ferraresi anch’essi da circa quattro secoli, non toccati dal provvedimento, col formarsi delle province del Regno chiedono ed ottengono di tornare in Provincia di Ravenna e di riportare la linea di confine al Primaro.
In un primo tempo pare che il nuovo confine debba intendersi lungo la linea del fiume nuovo e che questo comporti, per la Provincia di Ferrara e il Comune di Argenta, l’acquisizione dei territori di Filo e Longastrino fra il Po vecchio e il Po nuovo. Sono terre trasferite da poco (1815) dal Comune di Ravenna a quello nascente delle Alfonsine. Molte autorità sembrano orientate in tal senso, ma la questione in quei primi anni di Unità, quando ancora la capitale è a Torino, non appare né chiara, né definitiva.
Ne nasce (1862) un’accesa disputa: mesi di liti e contestazioni fra romagnoli e ferraresi, una serie di pronunciamenti contraddittori; i proprietari delle terre interessate si rifiutano di pagare le tasse agli argentani, finché, dietro la pressione di potenti deputati ravennati (Rasponi) si decide il mantenimento dello status quo, lasciando il confine che ci riguarda al Po vecchio (1863). Argenta e il suo sindaco Giuseppe Vandini restano con un pugno di mosche in mano, vanno su tutte le furie, il consiglio comunale viene addirittura sciolto e la questione viene di fatto ibernata, rimandata alle «calende greche».
Non se ne parla neppure in occasione degli aggiustamenti territoriali d’epoca Fascista, perché, così riporta Vespignani, Alfonsine evita rivendicazioni, allargamenti e razionalizzazioni per il suo comune sbilenco, nel timore di «revanche» argentane. Lì perciò, in ghiacciaia, la questione ancora giace e, date le implicazioni non solo burocratiche, lì è assai probabile che rimanga per sempre.

L’Unità d’Italia e la fusione con Argenta creano però le condizioni per metter mano alla bonifica del territorio paludoso alla sinistra del fiume, liberandolo dagli acquitrini fino alla linea dell’Argine Circondario Pioppa. Si prosciugano le Valli Brancole e la Valle Risara ed il radicale mutamento ambientale in gran parte si compie: dal Po Nuovo alle Valli di Comacchio, le paludi non ci sono più.
 Un territorio da sempre dominato dalle acque e che per tanti secoli ha tratto linfa vitale dal Grande Fiume, si ritrova ormai convertito, ai due lati del vecchio alveo abbandonato, ad una economia prevalentemente agricola, col destino tutto legato alla terra, un destino che si completerà con gli ulteriori e successivi incrementi della superficie bonificata.
Il totale prosciugamento delle acque salate della valle del Mezzano, che ci consegna il territorio così com’è oggi, avviene con le bonifiche degli anni ’30 e ’60 del Novecento.         
                    
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Appendice alla Parte Seconda


Dalla prima delle due Tavole a fianco (05) si può facilmente desumere il vecchio corso del Santerno che, in epoca Estense, ne condusse la foce alla Bastia (1460). Fino ad allora le sue acque, così come quelle del Senio e del Lamone, si immettevano nelle Valli Ravegnane d’acqua dolce, vestigia dell’antica Padusa, dette anche «Valli di San Bernardino» e, più tardi, in estensione più ridotta, «Valli di Filo e Longastrino».
 Alle Tavole 07 e 08 si possono osservare le prime foci in Po del Senio e del Lamone in epoca Estense, la prima al Passetto (1537) e la seconda a S.Alberto (1504).
Le immissioni in Po di Primaro dei tre torrenti appenninici, nonché quella del Reno sopra Ferrara (1523-26), furono considerate causa del rapido interrimento del fiume e dei disastri che ne derivarono.
Ciò consigliò, ad inizio ‘600, il ritorno alla situazione preesistente e lo studio di nuove soluzioni idrauliche che prevedessero nuovi punti di sbocco agli stessi torrenti.
Così nel 1626 il Santerno, con  una lunga diversione da Giovecca al Passetto, fu portato a sboccare in prossimità della prima foce del Senio. L’anno dopo quest’ultimo fu portato ad una nuova foce di fronte ad Humana (Anita), mentre il Lamone fu condotto una prima volta direttamente al mare, nell’alveo poi utilizzato, nel XX secolo, per il canale di destra-Reno.


Tavola 05 - Orma della 1° Foce del Santerno in Po Vecchio alla Bastia (1460) e della sua deviazione verso la 2° foce al Passetto (1626) (tratto Giovecca - Voltana). Sopra quest’ultima si osserva l’attuale corso del fiume Santerno verso la sua 3° foce in Po Nuovo (Reno) alla Chiavica di Legno di Filo (1782) (tratto Passogatto - Villa Pianta)


Tavola 06 - Orma del corso del Santerno verso la sua 2° foce al Passetto (1626) (tratto Voltana – Passetto). Sopra quest’ultima l’attuale corso verso la 3° foce in Po Nuovo (Reno) alla Chiavica di Legno di Filo (1782) (tratto Villa Pianta- Chiavica di Legno)





Tavola 07 – Orme delle Foci del Senio (1537 e 1625)
Tavola 08 - Orma Foce del Lamone a Sant’Alberto (1504)




In quel primo ‘600 si era anche ormai compreso quanto fosse divenuto necessario il raddrizzamento del corso del Po di Primaro nei tratti più tortuosi onde migliorarne la scorrevolezza e diminuirne la pericolosità.
La prima delle grandi opere a venire realizzata, fu il Taglio Caetano sopra Sant’Alberto, eseguito nel 1606. Il nuovo corso, di fatto, ricollocò il paese rivierasco da nord a sud del fiume e l’abitato ne uscì unito, compatto e totalmente nell’orbita ravennate.
La Tavola 09 permette di osservare la tortuosità del vecchio corso del fiume in corrispondenza di S.Alberto, e la striscia di terra, fra Po Vecchio e Po Nuovo che, fino ad inizio ‘600, fu parte della Riviera di Filo.


Tavola 09 - Il Taglio Caetano a Sant’Alberto (1606)







Un secolo e mezzo dopo, nella seconda metà del Settecento, decisa l’immissione del Reno nel Po di Primaro a Traghetto, furono realizzati altri tre drizzagni nel tratto di fiume fra Argenta e l’attuale Anita (Tavole 10-11-12).
In pratica, il letto del Po di Primaro (Po Vecchio) da Argenta a Mandriole, fra inizio ‘600 e fine ‘700, con esclusione dei due tratti Confina di San Biagio / Bastia e Passetto / Madonna Boschi, fu completamente raddrizzato e rifatto in zone non interrite (Po Nuovo).

Rappresentazione grafica dei tre drizzagni (F.L. Bertoldi, 1785)

Tavola 10 Drizzagno di Argenta (1774)
Tavola 11
Drizzagno di Longastrino (1782)
(dalla Bastia al Passetto)

Tavola 12
Drizzagno di Humana (poi Anita)(1780)

Come sappiamo le soluzioni idrauliche di Età Moderna e le rettificazioni apportate al corso del Po, hanno finito per determinare un cambio di denominazione geografica per le nostre acque fluviali. Per tutto il XVIII e XIX sec. si distinsero vecchio e nuovo corso con le denominazioni «Po Vecchio» e «Po Nuovo»; nella cartografia del XX sec. cominciò poi ad affermarsi la nuova denominazione di Reno, spesso affiancata a quella, storica, di Po di Primaro, come ancora riscontriamo nella qui riportata Cartografia Geologica.
Il grande fiume, tuttavia, nei nostri cuori e nei nostri detti è ancora, e forse sarà sempre, «Po», nome radicato nelle menti e tramandato dagli avi, nome amico, compagno e allo stesso tempo nemico, nome che tuttora resiste e vive nella nostra parlata, al punto che «Reno», in dialetto non è mai stato accolto o tradotto, anzi. Personalmente, ma la cosa credo di condividerla largamente coi miei paesani: pur con tutto il rispetto per le carte, le acque e la geografia, al solo tentativo di chiamarlo Rèñ, mi si inceppano lingua e budella, o, per dirla alla maniera del buon Olindo Guerrini (Preludi ai Sonetti): l’è pröpi òna ad cal parôl ch’agli um liga i dent… (a.v.)

                                                                                                        (2 – fine)



[1] Si veda in proposito la quattrocentesca carta Minorita (A.Vandini, op. cit., p. 57). La Bastia verrà ad avere importanza vitale nelle guerre e conflitti del Ducato Estense di fine ‘400 ed inizio ‘500.
[2] Le comunità della Riviera chiesero all’epoca ed ottennero dalle nuove Autorità una serie di importanti Privilegi ed Esenzioni fra cui alcune parificazioni tariffarie con la sponda ravennate (A.Vandini, op. cit., pp. 183-189).
[3] «Notizie del Contado Argentano», 1784. La Villa di Sant’Alberto non fa più parte del Comune della Riviera. Dopo la realizzazione del Taglio Caetano (1606), drizzagno sul Po a nord del paese (5,5 Km dall’attuale traghetto fino all’altezza di Mandriole) [v. Cartografia: Tavola 09], è venuta a trovarsi totalmente a sud del fiume e quindi nel «Ravegnano».
[4] Il nome risale al Passo fluviale omonimo che per molti anni collegò il luogo alla sponda opposta, alla chiavica (di legno) sul Bonacquisto, canale che a quel tempo sboccava sul fiume nuovo, a lato della foce del Santerno.
[5] Il vecchio alveo ristretto di Po vecchio fungerà, per pochi decenni, da canale di alimentazione dei Molini di Filo.
[6] La soluzione viene adottata con Regio Decreto del 22-11-1866, poi abrogata da Umberto I con Decreto 6-11-1888, mettendo fine ad ogni residua autonomia del territorio dell’antica Riviera (Ibidem, pp. 195-196).

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