martedì 30 marzo 2010

E’ tempo di “Non ti scordar di me”

La leggenda dei fiori di campo in una vecchia poesia

di Agide Vandini

Myosotis sylvatica o «Non ti scordar di me»



Non ti scordar di me…

Eran piccoli, eran belli,

In tutto uguali, due gemelli.

Fior di rosa la boccuccia

La testina tutta d’or.

Nella culla per il prato

Nel cortile soleggiato

Fra le braccia della mamma

dentro d’uno stesso vel,

Sempre assieme i fanciulletti

come gli angeli del ciel

Ma purtroppo un bambinello

Lasciò solo il suo fratello.

Nella culla, oh quanta pena,

spasimò per molti dì,

E fra i pianti della mamma,

poverino si morì.

L’altro bimbo lo cercava

Notte e giorno lo chiamava

Una volta lui si vide

rispecchiarsi in un ruscel

E credette di vedere

il bel viso del fratel.

Tutto lieto il fanciullino

Del creduto fratellino

Nel saluto dell’amore

per baciarlo si chinò,

Ma giù cadde dentro l’acqua

e in un attimo affogò.

La sua mamma disperata

Nella casa desolata

I perduti figlioletti

restò sola a ricordar

E sulla riva del ruscel

si vedeva sospirar.

Una volta a primavera

Nella luce della sera

Vide in mezzo a un’onda scura

Qualche cosa azzurreggiar.

Pareva che gli occhietti

Dei suoi morti figlioletti

Le dicessero: “ Oh, mamma,

i gemelli son con te!”

E i fiorellini presero il nome

di “Non ti scordar di me”.

E’ arrivata la primavera e i nostri prati sono già invasi da quei comuni e graziosissimi fiori celesti che conosciamo come i-ọc dla Madöna, ovvero gli occhi della Madonna.

A questi fiori ho sempre riservato grande attenzione fin da piccolo o, per meglio dire, ho avuto per loro un affetto particolare, grazie ad una vecchia leggenda in poesia che mia madre, persa circa un mese fa, mi ha ricordato fino agli ultimi giorni della sua esistenza, una vita lunga e laboriosa, lasciata alla veneranda età di 97 anni.

Di mia madre era noto il proverbiale buon umore, ma nella sostanza era una storia triste quella che mi recitava in versi, rime che io credo avesse appreso alle elementari da bambina; una storia drammatica che raccontava di due sventurati gemelli, e di uno in particolare che ebbe a cercare disperatamente il fratellino scomparso fino ad una seconda tragedia. Una trama che, in tutta evidenza, la coinvolgeva emotivamente e che sembrava riguardare entrambi, avendo io perso il gemello Giacomo nei primi attimi di vita, una perdita percepita negli anni della mia infanzia, in particolare da mia madre, come un’amputazione viva e dolorosa.

Eravamo, in quel dopoguerra, una famiglia molto povera, ma mia madre ripeteva spesso che se il destino lo avesse voluto, dove si riusciva a mangiare in quattro lo si sarebbe potuto fare anche in cinque. Me lo diceva in particolare quando la seguivo saltellando per i sentieri erbosi, proprio durante le prime giornate primaverili, fra il gran luccicare dei fiori azzurrognoli che punteggiavano e rallegravano una campagna vogliosa di rinascere.

Lei, da ottima radicéra, mentre io correvo lungo i fossi, soleva raccogliere in poco tempo le quattro manciate di radicchi che occorrevano per la cena, radicchi di campo che mio padre amava gustare, come da tradizione, assieme ai dadini di pancetta ben rosolata, opportunamente conditi con l’aceto.

Non ho mai saputo chi fosse l’autore dei versi in rima baciata recitati da mia madre, né sono mai riuscito a trovare il testo originario da alcuna parte, nonostante ricerche che di recente ho esteso anche al web.

Ho scoperto invece altre leggende (v. riquadro in calce) che spiegano in modo altrettanto pertinente e romantico l’origine del suggestivo nome dato al fiore.

I versi poetici li riporto qui a fianco e certamente andranno ad arricchire il patrimonio leggendario che fa capo al Myosotis sylvatica. Scorrendolo c’è da sbizzarrirsi, tuttavia, per quanto mi riguarda, non saprei mai e poi mai disgiungere l’aura leggendaria da quelle rime toccanti.

Se qualcuno ne riconoscesse la fonte letteraria mi farebbe ovviamente felice, ma la vedo assai difficile. Va da sé che il ritrovamento non cambierebbe, semmai rafforzerebbe il rapporto speciale con questo fiore amico, per i bei ricordi della mia prima fanciullezza associati, con infinita tenerezza, a mia madre e allo sfortunato fratellino che non ho mai potuto conoscere.

«Non ti scordar di me», dicono in questi giorni migliaia di vivaci occhi azzurri e fra essi si è aggiunta una voce familiare, buona e rassicurante, una voce amorevole in più.

«Non ti scordar di me», dunque: un fiore, una luce folgorante ed intensa, un ricordo per sempre.

Elvira Toschi, mia madre (1913-2010)

Le leggende collegate al fiore «Non ti scordar di me»

(http://images.google.it/imgres?imgurl=http://www.alpedisiusionline.it/Fiori/nontiscordardime.jpg&imgrefurl=http://fantasy.noiblogger.com/non-ti-scordar-mai-di-me/&usg=__BRuupfziyx1i6F8qjWuI5RV6zWA=&h=262&w=393&sz=57&hl=it&start=13&um=1&itbs=1&tbnid=izaHTeJ-xhIpFM:&tbnh=83&tbnw=124&prev=/images%3Fq%3Dfiori%2Bnon%2Bti%2Bscordar%2Bdi%2Bme%26um%3D1%26hl%3Dit%26sa%3DN%26rlz%3D1B3GGLL_itIT360IT360%26tbs%3Disch:1)

1. In un regno prospero e felice viveva Daina, una bella ragazza che abitava con la madre, ormai vecchia, in una piccola casa dipinta di bianco, costruita al limitare di un campo di grano, nei pressi un ruscello, all’ombra di grandi alberi secolari che sorgevano quasi fossero guardiani della modesta abitazione. Non esisteva stagione che turbasse la bellezza di quel piccolo angolo di mondo, né l’inverno che spogliava gli alberi mettendo a nudo il freddo terreno, né il caldo dell’estate, mitigato dall’ombra degli alberi e dalla frescura data dalle acque limpide del rivo.

Le donne andavano a prendere l’acqua dal quel piccolo fiume, sempre pulito e gorgogliante, ed i viandanti si sedevano per riposare e parlare con la bella Daina, che aveva la dolcezza e la quieta pazienza dell’animale da cui deriva il suo nome.

Ella lavorava filando alla rocca tessuti leggeri e preziosi per le ricche signore del regno e sognava ad occhi aperti il suo futuro, immaginava storie senza mai stancarsi. Aveva un bel viso omaggiato da quei lunghi capelli corvini, raccolti in una lunga treccia composta; quegli occhi scuri erano l’amore di chi si fermava a discorrere con lei, tranquilli e attenti.

Un giorno la sua quiete venne turbata da una notizia, neanche lei si seppe spiegare il perché, in fondo non era nulla di allarmante. Il Signore di quelle terre sarebbe giunto, nel corso del suo viaggio con cui intendeva far visita ai suoi possedimenti, e sicuramente avrebbe fatto tappa anche lì.

Daina fece ricorso alla saggezza della madre, preoccupata dallo scegliere una veste che potesse esser degna del loro Signore, per omaggiare la sua visita degnamente. Purtroppo le due donne non erano ricche e non potevano permettersi molti sfarzi, così solo un gioiello era in loro possesso, ma aveva la bellezza di dieci: uno zaffiro incastonato in una montatura regale, una pietra così bella e profonda da racchiudere in sé le sfumature del cielo.

Quel gioiello non aveva una storia molto lieta. Esso era un tempo proprietà di un nobile signore che si era innamorato della madre di Daina, della bellezza che ora era della figlia. Purtroppo l’uomo abbandonò la donna lasciandole la bimba e quel gioiello. L’anziana donna si preoccupò per la figlia, temendo che a lei toccasse la stessa sua sorte, ma pregò con tutto il cuore perché ciò non accadesse e che, almeno a lei, tanto giovane, fosse risparmiato il dolore dell’abbandono e tutte le lacrime dell’abbandono. Sapeva anche che, però, il destino è già scritto e nulla poteva fare per cambiare ciò che il cielo aveva scritto per Daina. Aiutò quindi la figlia ad acconciare i lunghi capelli, vestendola di bianco, candore che esaltava la brillantezza dei suoi occhi scuri, fermando il gioiello sul petto. Bella come una principessa, era pronta per accogliere il nobile di passaggio.

Il Signore arrivò infine nei pressi del campo di grano, ma sfilò innanzi alla casa di Daina senza prestarvi attenzione, troppo preso dai suoi pensieri per notare la bellezza di quel canto di mondo, anche se l’estate lo dipingeva più bello che in un qualsiasi quadro frutto di fantasia.

La giovane Daina non poté immaginare di ignorare così il suo signore, forse colta da inconscio orgoglio, forse delusa da una speranza che covava nel cuore, decise di agire d’impulso, prendendo il gioiello, lanciandolo verso il signore a cavallo, nella speranza che lo notasse.

Il principe non mostrò interesse per quel gesto, passò oltre e così il suo seguito. Gli zoccoli dei cavalli frantumarono quello zaffiro in migliaia di piccoli cristalli di luce azzurra, che brillavano insistenti alla luce del sole senza che nessuno vi posasse lo sguardo. Fu una dea pietosa ad omaggiarli del suo sguardo, mutandoli in piccoli e deliziosi fiorellini. Il gesto di Daina diede vita a quei fiori delicati ed in essi rimase la sua speranza “Non ti scordar di me” il suo messaggio per quel nobile signore.

2. Amore sincero è questo il significato del fiore. Narra la leggenda che un cavaliere passeggiando lungo la riva di un fiume, insieme alla sua dama, si sporgesse in acqua per prendere dei fiori ammirati dalla donna. A causa della pesante armatura,cadde in acqua e fu portato via dalla corrente. Prima di annegare, riuscì a lanciare sulla riva i fiori e a gridare alla sua dama non ti scordar di me. La fanciulla non lo dimenticò mai e chiamò quei fiori, appunto, non ti scordar di me.

3. Meno Fantasy sono le altre due versioni della leggenda, una molto realistica e l’altra di stampo cristiano (se non erro è originaria delle Alpi, da quelle parti molte cose sono collegate alla cristianità). La prima è ancora più triste della storia di Daina e viene dell’Austria.

Due giovani innamorati passeggiavano in riva al Danubio scambiandosi baci e tenerezze come fanno due fidanzati che si vogliono bene. Ad un tratto rimasero incantati da decine di fiori blu trasportati dalla corrente ed il giovane decise di prenderne alcuni per l’amata. Nel tentarvi, purtroppo, cadde e fini preda della corrente. Mentre l’acqua lo rubava alla fidanzata lui gli gridò “Non dimenticarmi mai” e da quella frase il nome di questi fiori, legato ad un amore eterno e fedele.

4. L’altra invece narra che il Signore contemplando i fiori variopinti e profumati che crescevano nei prati, scese per dargli un nome. Così, via via che li vedeva, dava loro un nome. Quando ebbe finito fece per andarsene, ma un piccolo fiorellino azzurrò lo chiamò pregandolo di non scordarsi di lui. Fu così che il Signore lo chiamò “non ti scordar di me” omaggiando quella sua sincera richiesta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e