Echi degli anni ’50 da una bella zirudëla
di Agide Vandini
Pochi giorni fa si è celebrato in mondovisione il 20° anniversario della caduta del muro di Berlino, evento che tutti percepiamo come simbolico, oltre che della riunificazione della Germania, della caduta del «comunismo» e dell’URSS, di quel gigante dai piedi d’argilla che nel dopoguerra si contrappose animosamente all’altra grande potenza vincitrice del conflitto mondiale.
Oggi, possiamo dire, l’Unione Sovietica e il suo regime sono più che altro ricordati per le grandi deficienze democratiche di base, una palla al piede che ne impedì il decollo economico e tecnologico. Giorno dopo giorno, quel gap economico-politico determinò una sconfitta che venne a consumarsi al cospetto dei paesi vicini, rimasti ancorati all’economia di mercato ed a tutte le libertà fondamentali.
Col crollo del Muro, si dissolsero così anche le residue speranze riposte dalla nostra classe lavoratrice nel «mondo nuovo», nella «grande Utopia» che avrebbe dovuto, secondo concezioni ottocentesche, creare maggiore ricchezza e, allo stesso tempo, riequilibrare le tante e troppe differenze fra ricchi e poveri.
Seppure la fine di quei regimi non giungesse né improvvisa, né inaspettata, seppure i movimenti e partiti occidentali storicamente ispirati ai valori della rivoluzione d’ottobre avessero scelto da tempo di coniugare Libertà e Democrazia, in quell’inesorabile ‘89 finirono ingloriosamente nella polvere, icone e simboli storicamente cari alle lotte operaie, bandiere e parole d’ordine in nome delle quali in occidente si era lungamente lottato e sofferto. Finirono mestamente nel cestino della storia: falce e martello, bandiere rosse e quant’altro si ispirava al cosiddetto «socialismo reale», icone e simboli che avevano saputo dare, qualche decennio prima, forza ideale a tanta gente, spinto ad ottenere diritti fino ad allora negati, incoraggiato ad opporsi alle prepotenze nazi-fasciste, fino a ridare, in Italia come in Francia, una dignità ad un Paese umiliato, occupato e distrutto. Oggi, nel ricordo di chi visse nel dopoguerra tanti sogni mal riposti, rimane un forte sentimento di tristezza e di frustrazione al pensiero di tante speranze, poco a poco, disilluse.
Eppure nei primi anni del dopoguerra ci fu un momento, breve ed illusorio, in cui sembrò che l’URSS avesse una marcia in più della Grande Potenza Americana. Fu nel ’57 col lancio a sorpresa dello Sputnik, ossia del primo satellite artificiale della terra, un fatto epocale che segnò l’inizio di una nuova era. Quel bip-bip dallo spazio, mentre i tentativi americani finivano in fiaschi clamorosi, parevano testimoniare di una silente ma efficace macchina tecnico-industriale in grado di far progredire quel grande Paese anche in altri campi. Così almeno sembrò ai nostri paesani, soprattutto a chi trepidava per l’Idea Socialista, a chi, insomma, si sentiva quasi partecipe di un evento che, comunque, stava sconvolgendo l’anima dei contemporanei, stupiti e meravigliati dal fatto in sé, che andava oltre ogni immaginazione. Un esempio di come lo Sputnik colpì la fantasia dei ceti popolari romagnoli, lo possiamo vedere nella zirudëla che pubblico qui, ritrovata in soffitta proprio in questi giorni. E’ firmata da Giuseppe Baioni, autore di chiare origini longastrinesi, figlio di Erminio e nato ai primi del ‘900 a due passi da Filo. Se ne partì, così mi dice l’amico Sergio Felletti, prima della guerra, lasciando al paese natio i fratelli Mario, falegname, ed Evaristo, fabbro. Andò a Fusignano alle dipendenze di Piancastelli e lì ebbe l’ispirazione per composizioni come questa. All’epoca le rime di E’ Sputnich furono date alle stampe (v. a fianco) e lette, io credo, in qualche occasione conviviale a cui mio padre presenziò. Dovettero piacergli perché poi, la zirudëla tutta spiegazzata, me la portò a casa. Avevo 12 anni nel ’57, ma l’ho sempre conservata incollata ad un foglio del quaderno di scuola. Ora l’ho trascritta per l’occasione in una grafia più coerente e con la fonetica del nostro dialetto locale. Rileggendola in tutti i suoi piacevoli passaggi, si prova l’emozione di chi, correndo velocemente all’indietro con la memoria, ritrova ragionamenti e pensieri dell’epoca. Ci si imbatte in sentimenti ancora intatti, grazie a quella straordinaria macchina del tempo che può essere la zirudëla, una forma compositiva antica quanto la Romagna che ha sempre consentito ai ceti popolari di esprimersi nell’idioma preferito, nel linguaggio quotidiano. |
E’ uno spaccato di vita di mezzo secolo fa, è un pezzettino di noi e delle passate generazioni che riemerge. Ora, in tutta tranquillità e nel ricordo dei tempi dello Sputnik, fuori tempo e fuori luogo per ogni tipo di polemica politica, possiamo regalarci qualche sorriso e gustarci queste rime baciate, magari attorno all’Irôla (non solo virtuale), nelle buie serate autunnali che ci aspettano, fra una manciata di castagne calde e un bicchiere di profumata cagnina. Prosit.
E’ SPUTNIC di Giuseppe Baioni Nèñch la Siéñza fẹñ adës La s’è mẹsa a fê i su pës Guêrda pu che žira e vôlta D’ins la têra la s’è tôlta La s’è mẽsa cun de’ fër A švulê dagli êtar tër Int la lóna, int la Cuméta I vô andê in di étar pianéta. U s capẽs che ‘sti sienzié L’univérs i l vô avdé A sèñ a quà par môd d’un dì Fra dö ór u s pô murì U n è mej che i opresùr Che j invéñta di mutùr E ch’i s bọta a la cunquẹsta D’una tëra chi-l’à-vẹsta U s capẹs che tẽmp indrì Žéñt chi è mùrt chi éra istruì Chi ‘scuréva d fê ‘sti fët I paséva tọt par mët… U ngn è gnìt ch seia impusèbil Rioplèñ e dirigèbil Avtomòbil e rëž vuléñt L’è dê fura int i ùltum tẽmp E’ teléfan, e’ vapór E pu döp un êt lavór, Int i Stét televišiòñ Aparẹc’ a reaziòn E pu döp i s’i è mẹs drì Un satëlit a l’avdì L’à žirê intórn a la tëra L’è pasê par l’Inghiltëra Òt chilòmitar int un šgòñd E’ pô andê par dlà de’ mòñd
E pinsê che mẹl èn fa I vivéva séñza cà Prẹma d Crèst ae’ tẽmp antìg I vivéva stra ‘l furmìg Stra i leòñ, vita selvagia I durméva avšèñ a la spiagia I durméva in di fët bùš Séñza càmbar cun la luš Int un bùr che a quẹ da nọñ U ngn è gnënch int al paršòñ Invézi adës séñza pavura I s’è mẹs adiritura Cun e’ studi a cunquistê L’univérs ch l’è scunfinê Da la Rọssia l’è partì Un satëlit bèñ furnì Cun la radio trašmitẽñt T pu sintì s’e’ tira e’ véñt ‘Ste gnòc d fër d’acsẹ luntàñ E’ déscrìv coma dö màñ Cun un tic e tac speciêl Che in Italia i n’è bọñ d fêl In America l’êt dè Un satëlit e’ scupiè Cun un ciòc che a Lungastrẽñ L’è cadù tọt i camêñ Šgombra via, cus èl stê? E’ srà i Rõs chi s vô mazê… E pu dòp pu i s n’è adé L’éra i quẹl di su sienzié E stal bëlichi idei Al divẹn da Galilei Che pu dòp l’è andê a finì Che in Italia e’ murè inžghì Sol l’Italia l’à l’unór D’avé inžghì ste prufesór E ad tọt quent i òman chi studiéva I piò tènt i j amazéva
E acsè e’ finẹs la stôria E l’armasta la mimôria Ad Galileo Galilei E pu dòp e vẹns Orfei E pu dòp Napulajòñ E Badoglio cun Sandròñ La Pulögna e Fašulèñ L’è e’ nöst Gvéran ch’a l’avdèñ… L’è sêlt fura int i ùltum tẽmp Ch’i prapêra di armamèñt I vô fê dal bëš navêli E pu dòp dagli êt zentrêli Di’ missili cun di’ vdọl Da puté ciapê di’ pọl.
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LO SPUTNIK di Giuseppe Baioni Anche la Scienza ora S'è messa a fare i propri passi Ecco infatti che gira e rigira Dalla terra s’è tolta E sta cercando con un oggetto di ferro Di scoprire altre terre Sulla Luna, sulle Stelle Vogliono andare in altri pianeti. Certo che questi scienziati L’universo lo vogliono vedere Siamo qui per modo di dire Fra due ore si potrebbe morire Non è meglio allora chi gli oppressori Inventino dei motori E che si lancino alla conquista Di una terra mai vista E pensare che tempo addietro Se gli istruiti di una volta Parlavano di fare cose simili Passavano tutti per matti … Non c’è più nulla di impossibile Aeroplani e dirigibili Automobili e razzi volanti Sono stati scoperti negli ultimi tempi Il telefono, il vapore E poi dopo altre cose, In ogni Stato la televisione Apparecchi a reazione E infine han costruito Un satellite e lo vedete Ha girato intorno alla terra E’ passato sopra l’Inghilterra Otto chilometri in un secondo Può andare al di là del mondo
E pensare che mille anni fa Vivevano senza casa Prima di Cristo nell’età antica Vivevano tra le formiche Tra i leoni, vita selvaggia Dormivano vicino alla spiaggia Dormivano in certi buchi In camere senza luce In un buio che qui da noi Non c’è neppure nelle prigioni Invece adesso senza paura Sono riusciti addirittura Con lo studio a conquistare L’universo sconfinato Dalla Russia è partito Un satellite ben fornito Con la radio trasmittente Puoi sentire se tira vento Questa palla di ferro da tanto lontano Descrive come avesse due mani Con un tic e tac speciale Che in Italia non si è capaci di fare In America l’altro giorno Un satellite è scoppiato Con un botto che a Longastrino Son caduti tutti i camini Sgombra via, cos’è stato? Che siano i Russi che ci vogliono ammazzare? Poi però si sono accorti Che erano le trovate dei loro scienziati E queste strane idee Provengono da Galileo Che poi andò a finire Che in Italia fu stecchito Solo l’Italia ha l’onore Di avere eliminato questo professore E di tutti gli studiosi La maggior parte l’ammazzavano
E così finisce la storia E rimane la memoria Di Galileo Galilei Poi dopo venne Orfei E poi ancora Napoleone E Badoglio con Sandrone L’Apollonia e Fagiolino E’ il nostro Governo che vediamo … Si è saputo negli ultimi tempi Che preparano armamenti Vogliono fare basi navali E poi altre centrali Dei missili con dei pioppi Per poter acchiappare dei polli.
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