La bella poesia di Orazio Pezzi
di Agide Vandini
So da tempo quanto Orazio, grande amico della mia gioventù, abbia sempre amato la sua famiglia, e quanto egli si sentisse devoto in particolare alla figura paterna, alla sua grondante umanità, semplicità ed onestà contadina. Non mi ero mai reso conto, però, nemmeno allorché diede lettura, in chiesa, di una ultima e toccante lettera al padre, ahimè, perduto per sempre, quanto questo amore filiale fosse profondo. Mi è riuscito di sentirlo, forte, attraverso la poesia, la sua poesia.
So, d’altra parte per esperienza, per aver provato questo stesso dolore molto tempo addietro, quanto una grande disperazione interiore possa essere pian piano lenita dai ricordi, dai suoni e dalle immagini di tanti momenti felici trascorsi, da immagini e suoni che ci riverberano dentro e che ci accompagneranno dolcemente, io credo, lungo il tratto di vita che ancora ci aspetta.
Orazio ha un grande dono: riesce a tradurre tutto questo subbuglio dell’anima, i sentimenti più forti e i ricordi più toccanti, in poesia di rara bellezza.
4 Luglio
E fu silenzio nell’irreale mattino la luce del sole brillava sulle lacrime sparse nell’erba dei campi
E fu silenzio che intontisce la mente quasi non pensi tutto è nulla in un momento
Le voci ovattate ti rincorrono da ogni dove ma sei sordo e muto le parole scivolano via nel profondo abisso
Un vortice ti solleva ti guida per le strade senza un senso definito colpito a tradimento implorante guardi il cielo
Dove sei ora? Guardaci sollevaci dalla polvere che ci ha coperto gli occhi vogliamo vederti sorridere a cavallo delle nubi
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Le tre rose
Le tre rose sono per Te Siamo noi figli sono gli amati rimasti nella tua casa
Le tre rose sono la vita che non hai generato sono la Tua eredità più preziosa
Le tre rose sono bianche lasciano un soave profumo d’amore come la Tua anima
Sono là nella pioggia e nel gelo nella nebbia e nel sole Noi siamo le tre rose siamo là con Te per sempre |
Egli ha dato da tempo un titolo alle poesie che di tanto in tanto mi invia e che io regolarmente pubblico sull’Irôla de’ Filéš. Il titolo è «Pane e olio» perché il pane e l’olio, così mi ha scritto poche settimane fa, sono gli alimenti che tennero in vita il suo babbo durante la prigionia in Grecia, là dov’era finito nella seconda Guerra Mondiale.
Una prigionia durissima, quella a cui Mario Pezzi sopravvisse, grazie alla compassione delle donne greche da cui fu alimentato col poco che avevano. Riuscì a sopravvivere, mentre tanti suoi compagni furono sopraffatti dalla fame e dai pidocchi. Fra essi un tenente di nome Orazio, nome che Mario volle dare, poi, tornato a Filo, proprio a lui, al suo primo figlio.
Nonostante Mario, altro non fosse che un semplice contadino romagnolo, ha ricordato spesso al proprio figlio la poesia di Ungaretti scritta ai tempi della prima guerra mondiale: « Soldati. Si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie» una poesia, confessa oggi Orazio, che gli ha sempre fatto venire i brividi.
Gli ho chiesto di raccontarmi qualcosa di più sull’esperienza di suo padre e mi ha risposto così:
Caro Agide,
non posso raccontarti molto della vita militare di mio padre perché me ne ha parlato molto poco. L’ultima volta che ne abbiamo parlato fu una mia forzatura perché volevo che anche gli altri figli si facessero una idea su quali immani tragedie era fondato il loro benessere.
Purtroppo, dopo non più di cinque minuti, il babbo cominciò a piangere a dirotto, e non ricordavo di averlo mai visto fare prima di allora: le ferite e le paure di più cinquant’anni prima erano dunque ancora così vive e laceranti...
Posso dirti che non ho mai visto in casa una foto del babbo da militare, che non abbiamo mai avuto un’arma neanche per gioco, però qualche parziale breve racconto mi fu fatto, sia da piccolo, che da un po’ più grandicello.
Prigionia in Grecia: mi parlò dell’isola Eubea, di come lui ed i suoi compagni furono leniti dalle sofferenze dalle donne greche che li alimentavano a pane e olio, un cucchiaio al giorno, e di come morirono quasi tutti i suoi compagni.
Da piccolo gli chiesi cos’era quella fascia marrone piena di infiniti forellini cicatrizzati che gli circondava il corpo da sotto l’ombelico fino all’altezza delle costole e le braccia all’altezza delle spalle. La risposta fu: «Per poco non mi son fatto mangiare dai pidocchi…».
Mi disse poi che il mio nome era una promessa fatta al tenente morto in prigionia, che era stato sergente maggiore nell’artiglieria anticarro, che i nostri cannoncini erano di molto inferiori a quanto avevano in dotazione i tedeschi.
Mi raccontò che i greci ad un certo punto li consegnarono agli inglesi, che li curarono, ma che li sottoposero anche al carcere duro. L’unico sollievo era la consapevolezza di avere finalmente una adeguata assistenza medica. Furono poi imbarcati per l’Italia e trasferiti sotto il comando americano e qui le cose cambiarono radicalmente, perché furono davvero restituiti alla vita. Non più carcere duro, ma rispetto, cibo abbondante, possibilità di movimento e contatto coi militari alleati. Il ritorno a casa avvenne nel giugno 1945.
La guerra gli aveva putroppo lasciato un subdolo strascico negli incubi notturni, incubi di cui ha sofferto fino alla morte: calci, versi, ordini concitati, spinte alla mamma ed abbracci inconsulti, per fortuna erano attacchi brevi che però non hanno saltato una sola notte.
L’amore per la poesia è nato in me da lui, fin da piccolo. Andavo ancora all’asilo e lui mi insegnò a memoria alcune poesie di Leopardi e Carducci , poeti che amava, poi Dante, Foscolo, Pascoli, Giusti, Ungaretti.
Gli piaceva molto leggere poesie e racconti, ricordo che in casa avevamo un’antologia vecchia e malandata, dove qualche pagina aveva il bordo piegato a segnalibro. Erano proprio le poesie che gli piacevano di più: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle…», «Tanto gentil e tanto onesta pare…» «L’albero a cui tendevi…», «Sua eccellenza che mi sta in cagnesco…».
Ciao
Orazio
Ogni tanto Orazio compone in dialetto, nella sua lingua-madre, ed è appunto in dialetto che di recente ha composto questa delizia, una bella immagine nitida e limpida che, alla lettura, viene a formarsi nella nostra mente, un potente instant-replay della nostra memoria, uno scenario d’ infanzia in cui tutti noi, una intera generazione di filesi, riusciamo a collocarci idealmente, affiancandoci alla carriola di Orazio. La lancetta del tempo sembra così spostarsi sempre più velocemente e, in un attimo, la nostalgia e il rimpianto diventano gioia, la gioia di aver vissuto quei momenti e di averli ancora qui, dentro di noi.
L’érba pr i cunej L’éra una bëla séra A la fen d’una chêlda istê Me andéva par la caréra Cun la cariôla e e’ fër da šghê
E’ babo u m’aspitéva In šdé int la riva d’un fös Una bóna zigareta us fuméva E intent u s ripuséva agli ös
Prema e’ batéva e’ fër e ul rudéva E pu e’ šghéva la spagnéra Me sugnend al guardéva On mej che lo u ngn éra
L’aria l’éra dólza com e’ mél I rundon bës i sfrizéva Al pónt di élbar al tuchéva e’ zil E’ sól luntan e’ tramuntéva Sóra al ca basi ad Fil
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L’erba per i conigli Era una bella sera Alla fine di una calda estate Io andavo lungo la carraia Con la carriola e col ferro da segare
Il babbo mi aspettava Seduto lungo la riva di un fosso Fumava una buona sigaretta R intanto si riposava le ossa
Prima batteva il ferro e lo arrotava E poi segava l’erba medica Io sognando lo guardavo Uno meglio di lui non c’era
L’aria era dolce come il miele I rondoni sfrecciavano bassi Le punte degli alberi toccavano il cielo Il sole lontano tramontava Sopra le case basse di Filo
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5 commenti:
Sempre una grande profondità di sentimenti accompagna i suoi scritti.
Si, probabilmente lo e
La ringrazio per Blog intiresny
imparato molto
GRANDE, INGEGNERE ORAZIO PEZZI . NON MI SORPRENDO CHE DAL TUO NOBILE ANIMO, EMERGANO, PAROLE E SENTIMENTI COSI' SOFFICI E FORTI.
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