martedì 16 giugno 2009

Pane e Olio

La bella poesia di Orazio Pezzi

di Agide Vandini

So da tempo quanto Orazio, grande amico della mia gioventù, abbia sempre amato la sua famiglia, e quanto egli si sentisse devoto in particolare alla figura paterna, alla sua grondante umanità, semplicità ed onestà contadina. Non mi ero mai reso conto, però, nemmeno allorché diede lettura, in chiesa, di una ultima e toccante lettera al padre, ahimè, perduto per sempre, quanto questo amore filiale fosse profondo. Mi è riuscito di sentirlo, forte, attraverso la poesia, la sua poesia.

So, d’altra parte per esperienza, per aver provato questo stesso dolore molto tempo addietro, quanto una grande disperazione interiore possa essere pian piano lenita dai ricordi, dai suoni e dalle immagini di tanti momenti felici trascorsi, da immagini e suoni che ci riverberano dentro e che ci accompagneranno dolcemente, io credo, lungo il tratto di vita che ancora ci aspetta.

Orazio ha un grande dono: riesce a tradurre tutto questo subbuglio dell’anima, i sentimenti più forti e i ricordi più toccanti, in poesia di rara bellezza.

4 Luglio

E fu silenzio

nell’irreale mattino

la luce del sole

brillava sulle lacrime

sparse nell’erba dei campi

E fu silenzio

che intontisce la mente

quasi non pensi

tutto è nulla

in un momento

Le voci ovattate

ti rincorrono da ogni dove

ma sei sordo e muto

le parole scivolano via

nel profondo abisso

Un vortice ti solleva

ti guida per le strade

senza un senso definito

colpito a tradimento

implorante guardi il cielo

Dove sei ora? Guardaci

sollevaci dalla polvere

che ci ha coperto gli occhi

vogliamo vederti sorridere

a cavallo delle nubi

Le tre rose

Le tre rose

sono per Te

Siamo noi figli

sono gli amati

rimasti nella tua casa

Le tre rose

sono la vita

che non hai generato

sono la Tua eredità

più preziosa

Le tre rose

sono bianche

lasciano un soave

profumo d’amore

come la Tua anima

Sono là

nella pioggia e nel gelo

nella nebbia e nel sole

Noi siamo le tre rose

siamo là

con Te per sempre

Egli ha dato da tempo un titolo alle poesie che di tanto in tanto mi invia e che io regolarmente pubblico sull’Irôla de’ Filéš. Il titolo è «Pane e olio» perché il pane e l’olio, così mi ha scritto poche settimane fa, sono gli alimenti che tennero in vita il suo babbo durante la prigionia in Grecia, là dov’era finito nella seconda Guerra Mondiale.

Una prigionia durissima, quella a cui Mario Pezzi sopravvisse, grazie alla compassione delle donne greche da cui fu alimentato col poco che avevano. Riuscì a sopravvivere, mentre tanti suoi compagni furono sopraffatti dalla fame e dai pidocchi. Fra essi un tenente di nome Orazio, nome che Mario volle dare, poi, tornato a Filo, proprio a lui, al suo primo figlio.

Nonostante Mario, altro non fosse che un semplice contadino romagnolo, ha ricordato spesso al proprio figlio la poesia di Ungaretti scritta ai tempi della prima guerra mondiale: « Soldati. Si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie» una poesia, confessa oggi Orazio, che gli ha sempre fatto venire i brividi.

Gli ho chiesto di raccontarmi qualcosa di più sull’esperienza di suo padre e mi ha risposto così:

Caro Agide,

non posso raccontarti molto della vita militare di mio padre perché me ne ha parlato molto poco. L’ultima volta che ne abbiamo parlato fu una mia forzatura perché volevo che anche gli altri figli si facessero una idea su quali immani tragedie era fondato il loro benessere.

Purtroppo, dopo non più di cinque minuti, il babbo cominciò a piangere a dirotto, e non ricordavo di averlo mai visto fare prima di allora: le ferite e le paure di più cinquant’anni prima erano dunque ancora così vive e laceranti...

Posso dirti che non ho mai visto in casa una foto del babbo da militare, che non abbiamo mai avuto un’arma neanche per gioco, però qualche parziale breve racconto mi fu fatto, sia da piccolo, che da un po’ più grandicello.

Prigionia in Grecia: mi parlò dell’isola Eubea, di come lui ed i suoi compagni furono leniti dalle sofferenze dalle donne greche che li alimentavano a pane e olio, un cucchiaio al giorno, e di come morirono quasi tutti i suoi compagni.

Da piccolo gli chiesi cos’era quella fascia marrone piena di infiniti forellini cicatrizzati che gli circondava il corpo da sotto l’ombelico fino all’altezza delle costole e le braccia all’altezza delle spalle. La risposta fu: «Per poco non mi son fatto mangiare dai pidocchi…».

Mi disse poi che il mio nome era una promessa fatta al tenente morto in prigionia, che era stato sergente maggiore nell’artiglieria anticarro, che i nostri cannoncini erano di molto inferiori a quanto avevano in dotazione i tedeschi.

Mi raccontò che i greci ad un certo punto li consegnarono agli inglesi, che li curarono, ma che li sottoposero anche al carcere duro. L’unico sollievo era la consapevolezza di avere finalmente una adeguata assistenza medica. Furono poi imbarcati per l’Italia e trasferiti sotto il comando americano e qui le cose cambiarono radicalmente, perché furono davvero restituiti alla vita. Non più carcere duro, ma rispetto, cibo abbondante, possibilità di movimento e contatto coi militari alleati. Il ritorno a casa avvenne nel giugno 1945.

La guerra gli aveva putroppo lasciato un subdolo strascico negli incubi notturni, incubi di cui ha sofferto fino alla morte: calci, versi, ordini concitati, spinte alla mamma ed abbracci inconsulti, per fortuna erano attacchi brevi che però non hanno saltato una sola notte.

L’amore per la poesia è nato in me da lui, fin da piccolo. Andavo ancora all’asilo e lui mi insegnò a memoria alcune poesie di Leopardi e Carducci , poeti che amava, poi Dante, Foscolo, Pascoli, Giusti, Ungaretti.

Gli piaceva molto leggere poesie e racconti, ricordo che in casa avevamo un’antologia vecchia e malandata, dove qualche pagina aveva il bordo piegato a segnalibro. Erano proprio le poesie che gli piacevano di più: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle…», «Tanto gentil e tanto onesta pare…» «L’albero a cui tendevi…», «Sua eccellenza che mi sta in cagnesco…».

Ciao

Orazio

Ogni tanto Orazio compone in dialetto, nella sua lingua-madre, ed è appunto in dialetto che di recente ha composto questa delizia, una bella immagine nitida e limpida che, alla lettura, viene a formarsi nella nostra mente, un potente instant-replay della nostra memoria, uno scenario d’ infanzia in cui tutti noi, una intera generazione di filesi, riusciamo a collocarci idealmente, affiancandoci alla carriola di Orazio. La lancetta del tempo sembra così spostarsi sempre più velocemente e, in un attimo, la nostalgia e il rimpianto diventano gioia, la gioia di aver vissuto quei momenti e di averli ancora qui, dentro di noi.

L’érba pr i cunej

L’éra una bëla séra

A la fen d’una chêlda istê

Me andéva par la caréra

Cun la cariôla e e’ fër da šghê

E’ babo u m’aspitéva

In šdé int la riva d’un fös

Una bóna zigareta us fuméva

E intent u s ripuséva agli ös

Prema e’ batéva e’ fër e ul rudéva

E pu e’ šghéva la spagnéra

Me sugnend al guardéva

On mej che lo u ngn éra

L’aria l’éra dólza com e’ mél

I rundon bës i sfrizéva

Al pónt di élbar al tuchéva e’ zil

E’ sól luntan e’ tramuntéva

Sóra al ca basi ad Fil

L’erba per i conigli

Era una bella sera

Alla fine di una calda estate

Io andavo lungo la carraia

Con la carriola e col ferro da segare

Il babbo mi aspettava

Seduto lungo la riva di un fosso

Fumava una buona sigaretta

R intanto si riposava le ossa

Prima batteva il ferro e lo arrotava

E poi segava l’erba medica

Io sognando lo guardavo

Uno meglio di lui non c’era

L’aria era dolce come il miele

I rondoni sfrecciavano bassi

Le punte degli alberi toccavano il cielo

Il sole lontano tramontava

Sopra le case basse di Filo

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Sempre una grande profondità di sentimenti accompagna i suoi scritti.

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny

Anonimo ha detto...

imparato molto

marco ha detto...

GRANDE, INGEGNERE ORAZIO PEZZI . NON MI SORPRENDO CHE DAL TUO NOBILE ANIMO, EMERGANO, PAROLE E SENTIMENTI COSI' SOFFICI E FORTI.