Dalla raccolta «Pane e Olio» di Orazio Pezzi
Al filese Orazio Pezzi mi lega una bellissima amicizia nata e cresciuta nella prima gioventù. Di lui ho pubblicato in questo blog (21 novembre 2007) alcune splendide poesie («Filo» e «Campagna»), con versi assai ispirati e dedicati al luogo natio.
Dalla piccola raccolta di cui mi ha fatto dono, e che ha felicemente chiamato «Pane e Olio», traggo oggi con immenso piacere altri due splendidi momenti di poesia in cui egli sembra riflettere, con lucida introspezione e con lodevole autoironia, su aspetti delicati che, inevitabilmente, hanno toccato molto da vicino una generazione come la nostra.
La prima poesia, simpaticissima, è in dialetto, ossia, per chi è nato nell’immediato dopoguerra a Filo, giungerei a dire: nel linguaggio più intimo, quello dell’anima. Affronta, come meglio forse non si potrebbe, il complesso rapporto con la «macchina», intesa in senso lato, quasi di cavalcatura, di drago, di «mostro onirico» onnipotente e misterioso. In quella «machina» ognuno di noi può vedere e sentire, con quel tanto di diffidenza o di piccolo rancore, il difficile rapportarsi con una tecnologia sempre più avanzata e sofisticata con la quale si è costretti, volenti o nolenti, a convivere. E’ una partnership, quella uomo-macchina, che, come ben sappiamo, è stata, ed è ancora, vissuta con ostilità o con tormento dalle vecchie generazioni, da chi, cioè, ha le radici in un altro mondo ed in un’altra epoca e non riesce, suo malgrado, ad evitare un senso di soffocamento, di messa a repentaglio di un modo di essere e di vivere.
Sono temi, quelli dell’appartenza all’antico mondo “pane e olio”, o della rivendicazione di valori e sentimenti tipici della società contadina, che sentiamo di nuovo riecheggiare nella seconda poesia. In «Qui siamo» però, con lo scorrere dei versi, l’accento pare maggiormente soffermarsi sull’avanzare inarrestabile del tempo e degli anni, in una mirabile sovrapposizione di passato e presente, di nostalgia e di sogni ormai perduti (Agide Vandini).
Me e la Machina
L’êtra séra Int e’ ‘ndè in là Póch dop e’ pasag a livël La machina l’à tach a scantunê. Vaca boia, staséra un s’ariva a magnê.
E ‘ bël l’è che pu L’à mĕs in funzion l’Abiesse. A l’alteza de’zentutantanóv la s’è farmêda.
«Oh, ‘s’a sit invurnida? T’an vid che quest l’è l’ufezi ?» La m’à arspöst: «A i’o frenè “dolcemente per non far slittare le ruote”».
«Ascolta, burdela. Se t’al fê un’êtra vôlta, Quend t’cì in seca An t’met piò la nafta».
Guai a tuchela so e’ bé. L’è partida a tŏt bŏs, L’andéva coma un raž. A la ritonda um paréva D’èsar so int l’ ottovolante. «Dat una calmêda Che u ngn è bišogn ad fè al córsi». L’à fat cónt ad nö sintì Quend ch’a segn arivé, a j ò det: «E adës t’è dbu coma una spŏgna, E t’ cì inbariéga prĕma dla fësta…».
A sét cosa ch’l’à ’rspost? «Inbariega me? ‘S’òia da dì ad te Che t’ scor cun una machina…»
Orazio Pezzi, 2007 |
Io e la macchina
L’altra sera Nel procedere verso casa Poco dopo il passaggio a livello La macchina ha cominciato a dare i numeri. Accidenti, stasera non s’arriva a mangiare.
Il bello è che poi Ha messo in funzione l’ABS. All’altezza del centottantanove s’è fermata.
«Ehi, cosa sei impazzita? Non vedi che questo è l’ufficio?» Mi ha risposto: «Ho frenato “dolcemente per non far slittare le ruote”».
«Ascolta, ragazza. Se lo fai un’altra volta, Quando sei a secco Non ti metto più il carburante».
Guai a toccarla sul bere. E’ partita a tutto spiano, Andava come un razzo. Alla rotonda mi pareva D’essere sull’ottovolante.
«Datti una calmata Che non c’è bisogno di far le corse». Ha fatto finta di non sentire Quando siamo arrivati, le ho detto: «E adesso che hai bevuto come una spugna, E ti sei ubriacata prima della festa…»
Sai cosa mi ha risposto? «Ubriaca io? Cosa devo dire di te Che parli con una macchina…»
Qui siamo
Noi partoriti dalla terra come i fiori di campo, cresciuti come i papaveri fra le spighe del grano.
Noi Che abbiamo visto i nidi delle rondini nelle stalle Che abbiamo sentito la vorace nera bianca parlare.
Noi Che abbiamo bevuto il latte buono con il pane spezzato Che ci siamo riscaldati al fuoco del camino.
Noi Che abbiamo fatto il trebbo nelle sere d’inverno Che abbiamo ascoltato le favole romagnole più belle.
Noi Che abbiamo ammirato tramonti interminabili Che abbiamo lanciato i nostri sogni sull’ultimo raggio di sole.
Noi Che abbiamo attraversato la nostra vita sognando di ritrovarci qui.
Qui siamo.
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1 commento:
non so' se ci ritroveremo ancora li', pero' sognarlo sempre si'.
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