mercoledì 26 luglio 2023

Calcio Filese anni ’50, quanti ricordi…

 

Giocatori, accompagnatori e spettatori: come e chi eravamo

di Aderitto Geminiani (Pippi)

Postfazione di Agide Vandini

 

Negli anni del dopoguerra, la domenica, nei bar e nei capannelli per strada, si respirava una certa aria di attesa per la partita di pallone, l’avvenimento che di lì a poco, avrebbe richiamato tanta gente attorno al magico manto erboso. Lì, i filesi, con gran presenza di popolo, potevano assistere alle "gesta" dei loro idoli....

Venivano a frotte al Campo Sportivo intitolato a «Giorgio Marconi», lungo il sentiero che scendeva dalla «strada alta» girando attorno al cinema Tebaldi, e si raccoglievano dietro la recinzione che delimitava il terreno di gioco. Con una passione infinita incitavano a squarciagola noi moderni gladiatori della pedata e, quando la palla varcava la soglia fatale della porta avversaria, in segno di giubilo s’alzava un boato corale. Era un urlo di tale intensità da sgomentare i passeri posati sui pioppi circostanti, impauriti al punto da volar via, a stormi, dai loro rifugi abituali.

Fra gli spettatori più fedeli c'erano Giuanĕñ ‘d Secondo, e’ stradĕñ (Giovanni Natali) e Nénci (Enzo Squarzoni), dotati di voce così potente da sovrastare i tanti altri capo-clan che festosamente, o mestamente a seconda dell'andamento della partita, guidavano gli umori dei vicini.

Le rivedo ancora quelle facce rugose dal viso abbruttito dal duro lavoro dei campi, assiepate lungo il rettangolo di gioco: venivano dal Molino di Filo, dalle Case Selvatiche, dagli angoli più lontani delle nostre campagne per vederci correre appresso ad una sfera rotonda. Erano persone felici, che s'accontentavano di quel po’ di svago che noi giocatori, quasi tutti filesi, riuscivamo a dar loro, cimentandoci e battendo spesso le squadre dei paesi rivali, squadre accreditate di maggiori mezzi e che ricorrevano a man bassa a giocatori forestieri.

 


CSC Filo, fine anni ‘50. In piedi da sinistra: La Legge Ricci, Picchi Saiani, Gég’ Bolognesi, Biédla Sacrato, Pippi Geminiani, L’Anàdra Squarzoni, Ménio Signani. Accosciati da sinistra: Marcilèñ Ricci, Carublòñ Ricci, Pistaja Romagnoli, Beppóñ Principale (Foto colorata a cura dell’Irôla de’ Filéŝ, 2023).

 

Chi eravamo?

Cominciamo dal sottoscritto, il numero 6, ovvero da Pippi (Aderitto Geminiani) che a detta di tanti doveva fare una grande carriera, una specie di aereo sempre in pista che rullava, rullava e non decollava mai.

 Proseguo col più forte di tutti, ovvero con Rascel (Gino Ricci) numero 10 dalla classe innata, indi col fratello Marcilĕñ (Marcello Ricci), il numero 8, un vero moto perpetuo, nonché con Ménio (Sante Signani), numero 5, un centromediano dalla spettacolare rovesciata a mo’ di forbice, che a volte però bucava clamorosamente ed il gol era inevitabile; qualcosa di simile capitava ogni tanto anche all’Anàdra (Elio Squarzoni), un portiere che suonava la fisarmonica come un virtuoso, ma che aveva la «papera» sempre in agguato.

Con noi s’era aggregato anche l’ex spallino Beppóñ (Giuseppe Principale), allenatore e centravanti che mugugnava ad ogni palla che gli veniva negata (spero che non me ne voglia…); a sinistra si scatenava invece il diabolico Pistàia (Giovanni Romagnoli), ala dal dribbling secco e ubriacante nonché veloce come un fulmine. Dall’altra parte, sempre pronto allo scambio rapido, agiva Picchi (Luciano Saiani), ala destra diligente e dai cross sempre invitanti. Attaccanti di complemento erano poi anche Pél (Gianni Principale), un jolly non si arrabbiava mai e ricopriva tutti i ruoli con buon profitto, infine Biédla (Osvaldo Sacrato), detto pure Culìna, sempre in agguato sugli errori degli avversari finché, prima o poi, non riusciva a  buttarla dentro…

Fra i difensori come non ricordare Franco Ricci, detto La Legge e, prima ancora il fratello Ugo, detto Carublòñ, terzino e mediano insuperabile, dotato di tiro terrificante come pochi.  Portiere principe, quando poteva od aveva voglia, era poi Màzalôca, ovvero Uber Bellettini che con le uscite spericolate risolveva spesso situazioni molto scabrose. L’altro terzino e punto di forza della squadra era Gég’ (Eugenio Bolognesi), impeccabile esterno mancino col quale, io che gravitavo su quella fascia, avevo una discreta intesa. In quello stesso ruolo giocò tante volte anche il taciturno Rumanì (Forlani Romano), di cui non ricordo un solo lamento. Da mediano destro giocarono con buon profitto anche e’ Garzòñ (Alceste Fuschini), il classico Ciclone (Werter Ferrucci che aveva iniziato come portiere) e il gran faticatore Ravàja Dal Pozzo.

Tra i giovani che si inserirono più avanti voglio citare anche Tubì (Ottoboni Francesco), attaccante di grosse doti ma che, ad un certo punto preferì giustamente gli studi. Mi ricorderò sempre di lui, compagno di tante battaglie....

 

 

Il giovane Ginulì (Gino Pasotti) è il secondo da sinistra; alla sua destra e con la mano alzata sorride e’ Baròñ (Ibanez Bellettini).

 

 

Spettatori ovunque, anche sugli alberi

 

Tornando al contorno paesano che, a bordo campo, si faceva sentire prima di ogni partita, ricordo che fra gli spettatori torreggiava «Piccolo»… Mai soprannome fu più azzeccato, trattandosi di un ragazzone di oltre due metri…

 Ricordo anche Ludovico, lo zio di Paolo Barabani, Gigìno (Luigi Galamini), il bancario dello sportello da poco aperto addlà da Po (ovvero nella parte di Filo a sud di Po morto e in provincia di Ravenna), infine, in ordine sparso, non mancavano mai neppure Tullo, detto anche Vivadìo (Arturo Cobianchi) e con lui Ginulì (Gino Pasotti) col suo copricapo da era glaciale, così come  e’ Baròñ (Ibanez Bellettini), Minàcci, alias L'uŝléra (Giacomo Ricci Maccarini), il "Maestro" Lino Rossi detto Pigrìz.

Assieme a loro una teoria infinita di frequentatori dei tre ritrovi filesi, tifosi assiepati persino sopra gli alberi a bordo campo, incuranti di ogni pericolo pur di godere di una vista privilegiata, anche se un po’ scomoda!!! hahaha😂😂.

 

Finalmente cominciava la tenzone e non c’era più tempo per guardare; adesso, tutta la gente ammassata dietro la rete divisoria era solo un'onda di tante teste sporgenti che si allungavano per capire ove fosse finito il pallone fuori quadro, coperto da altri spettatori, teste che poi si ritraevano tornando al loro posto, finita l’azione.

A volte qualcuno, mentre giocavo, mi chiamava per fare un complimento e questo mi faceva molto piacere; altre volte, dopo aver sciupato banalmente una ghiotta occasione, loro, i miei paesani, mi perdonavano, mi facevano coraggio e io intimamente sentivo che mi volevano un gran bene!

Molti spettatori preferivano prender posto dietro la porta avversaria e spostarsi di conseguenza a fine primo tempo; ciò comportava una specie di esodo durante l’intervallo nell’ansia di godere, più da vicino, i goal eventuali inferti agli avversari.

C'era ovviamente il problema del pallone di gioco (l’unico disponibile) che a volte finiva in mezzo ai campi, terreni talvolta coltivati, altre volte arati e fangosi. C’era sempre un volontario, tenuto d'occhio ad ogni passo da giocatori e spettatori, che si prodigava al recupero talvolta difficoltoso della palla di cuoio, senza la quale non si poteva riprendere il gioco.

A bordo campo avevamo spesso anche un reporter con l’immancabile Rolleiflex. Era Giovanni Montanari, che scherzosamente mi onorò persino del nomignolo di Pelè, il fuoriclasse brasiliano a cui mi accumunava soltanto l’anagrafe e niente più.

Fra dirigenti e accompagnatori, devo citare Cincióni (Vincenzo Natali) team manager d’epoca del C.S.C FILO, ovvero il Galliani nostrano, sempre disponibile allo scherzo. Chi ci seguiva come una ombra, dentro e fuori dallo spogliatoio, era poi Cianì (Luciano Salvatori), il barbiere e massaggiatore dalla valigetta sempre pronta. Una volta, prima di entrare in campo, io avevo mal di gambe e lui pazientemente mi massaggiò con olio di canfora dicendomi: «Ora mi sembri un puledro che scalpita…».

Fra gli accompagnatori c'era mio cugino La föca (Luciano Ricci Lucchi), che la cattiva sorte aveva menomato sin da piccolo, col compito di raccattare i palloni e quant’altro andava rimesso negli spogliatoi a fine partita.

Come già detto, Beppóñ fungeva da allenatore / giocatore; aveva carisma per il suo passato, nonché capacità indiscusse. Tutti abbiamo imparato cose importanti da lui, sia calcistiche, sia legate alla vita di tutti i giorni. Nello spogliatoio degli ospiti, in alto su una parete, campeggiava una scritta in lingua latina: Nobis hospes sacer sunt sed.... che tradotta, stava a significare: «I nostri ospiti sono sacri ma...». Non ricordo chi ne fosse l'autore, forse Max Barabani, d’altronde, chi se non lui?

Quanto a spirito di appartenenza paesana, voglio ricordare un episodio in particolare. Una domenica a Massalombarda entrando in campo mi si avvicinò proprio Beppóñ e mi disse: «Siamo tutti di Filo, facciamo vedere che anche senza il paio di ragazzi in prestito da fuori, siamo forti lo stesso…» A fine partita, sotto la doccia, si complimentò con me per l’impegno che avevo dimostrato. Avevamo vinto per 3 a 0.

Dopo quel campionato molti di noi cambiarono casacca. Io e Rascel andammo alla Portuense e lì, io chiusi la mia carriera.... Devo dire che nella cittadina ferrarese mi trovai molto bene, pur fallendo il tentativo di assaporare la serie D.

A Filo, mio paese natio, torno sempre volentieri, i ricordi sono tutti belli; quando incontro qualcuno che mi riconosce, provo ancora emozione e persino imbarazzo davanti a tanta spontaneità e all’evidente piacere di avermi incontrato.

D’altronde, questi sono i miei paesani, quelli che porterò, sempre nel cuore… (pippi)

 

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Questi bei ricordi della nostra gloriosa squadra di calcio, Pippi Geminiani me li ha mandati via mail pochi giorni fa. Quel favoloso gruppo di giocatori, fra la fine degli anni ’50 ed i primissimi anni ’60, dominò i campionati di 2a Categoria e per due anni si batté più che dignitosamente anche in 1° categoria (ovvero la Promozione di allora).

Si consideri che, come si può notare dalle classifiche d’epoca avute da Pippi (dati reperibili in rete e che qui riporto in calce), il CSC FILO dal massimo Campionato Dilettantistico non retrocesse mai sul campo; dovette rinunciarvi esclusivamente per insufficienza di mezzi economici.

A fine anni ‘50 io ero un ragazzino che frequentava le Medie ad Argenta e perciò potevo misurarmi appena coi «Pionieri» dell’indimenticato Scricciolo (Carlo Squarzoni). Quindi, come i miei coetanei, i nostri campioni li potevo vedere soltanto la domenica pomeriggio nelle partite giocate in casa; ero uno di quei «volonterosi» che si piazzavano dietro una porta ove capitava di dover riprendere il pallone scaraventato fra le bietole e di poterlo tirare dentro al campo, oltre la rete divisoria. Era l’occasione per una bella pedata, solitamente seguita dagli «oooh» e dall’applauso dei presenti per una partita che, finalmente, poteva riprendere.

Ricordo comunque l’orgoglio, dopo ogni vittoria degli «Azzurri», nel tornare in classe e nel raccontare la partita agli argentani. Mi piaceva vantarmene con un compagno sanbiagese come Bàliz (Zaniboni Gianfranco – che poi giocò in C alla Sarom Ravenna). Lui, fratello del miglior giocatore del suo paese, ascoltava ammirato quelle imprese dall’unico filese in classe, senza sottacere un po’ d’invidia. «Vuètar ‘d Fìl a gh’avĕ sémpar tènt ad chi žugadùr… Mo’ ‘s’a gh’avìv ad speciël…» Quella frase, molto condivisa nei paesi limitrofi, ovviamente, riempiva d’orgoglio i filesi e ne esaltava il senso di appartenenza alla comunità; ciò forse spiega in qualche modo il perché di tanto attaccamento ed entusiasmo per quella squadra di campioni nostrani.

La foto d’epoca qui inserita, colorata per l’occasione da un sito specializzato, credo sia del primo anno di Promozione, ossia dell’anno glorioso in cui, le nuove e splendide divise azzurro-chiaro furono intessute dalle magliaie filesi, maglie che, qualche anno dopo, subiti parecchi lavaggi, abbiamo indossato con molto orgoglio anche noi, i (meno dotati) successori [1].

Caro Pippi, io quegli urli, quel tifo «Fììììlo… Fìììlo… Fìììlo…» «Alé… Alé… Azzurri…» gridati a perdifiato da Giuanĕñ o da Ibanez, seguiti dal boato di quella siepe di spettatori entusiasti, non li dimenticherò mai più.

Di questo, io e tutti i compaesani, ancora oggi non possiamo che esser grati a te e ai tuoi meravigliosi compagni che qui hai così ben ricordato (a.v.).

 

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Altri articoli, ricordi e video dedicati ai nostri vecchi e gloriosi «Azzurri»

 

02.04.21- Filo, il calcio che più abbiamo amato - Quaderno dell'Iròla n. 13  (2° Ediz.) (20 pagine):

https://drive.google.com/file/d/1j-6JJROYSDEeN3YveNWs53ps0wc3JGN3/view?usp=sharing  

(Link del filmato in rete: http://youtu.be/_z_R3Go90-E )

 

22.06.21 - I "Tempi d'oro del calcio filese" in un nuovo Video – a.v. - Inedito dai filmati della famiglia Galamini: http://filese.blogspot.com/2021/06/i-tempi-doro-del-calcio-filese-in-un.html

 

24.09.13 - Calimero, Maramaldo e un Amaracord -a v. - I tempi della battaglia col Frampùl: http://filese.blogspot.it/2013/09/calimero-maramaldo-e-un-amarcord.html

 

01.08.15 - Tinèla e la partita delle banane - Un fàt e’ véra, in dialèt, cuntê da Orazio d’Pezzi: http://filese.blogspot.it/2015/08/tinela-e-la-partita-delle-banane.html

 

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Si noti da questa prima tabella come, nel primo anno (1959-60) di partecipazione alla cosiddetta «Promozione», campionato vinto dall’Argentana promossa alla «Quarta Serie», il CSC Filo, composto da quasi tutti giocatori filesi, si piazzò 8° a metà classifica, davanti a formazioni di località di ben altra dimensione e che militano tuttora nel Campionato Nazionale Dilettanti.

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Dalla seconda tabella relativa al campionato 1960-61 si può notare la posizione finale di classifica del CSC Filo, giunto 10° a pari merito col Fusignano, con ben 15 punti di vantaggio sulla zona retrocessione.

 

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Da quest’ultima tabella relativa al campionato 1961-62 si nota l’assenza del CSC FILO che, dunque, dovette rinunciare alla categoria per mera insufficienza di mezzi economici.

 



[1] Ho un preciso ricordo, da adolescente, che si collega a quelle maglie. Il giorno dell’inaugurazione della nuova divisa, assieme ai giocatori che in gruppo raggiungevano di corsa il centrocampo, vedemmo aggregarsi e sfilare, come mascotte, il mio coetaneo e cugino Enrico Geminiani, cugino anche di Pippi nonché figlio del grande Gàg’, fuoriclasse caduto nel dopoguerra per scoppio di mine. Rìcco, campione in erba pure lui, era in divisa di gioco, portava il pallone e indossava una maglia azzurra di taglia piccola preparata appositamente per lui. Ricordo tutta la nostra ammirazione, gli applausi scroscianti e la grande emozione di tutto il pubblico presente (a.v.).

mercoledì 19 aprile 2023

Un simbolo di Memoria e di Riconoscenza

 Cosa c’è da sapere intorno al Monumento dedicato ai nostri Caduti

di Agide Vandini

 

                                        (Il monumento oggi - Foto Vandini, 2008)


Pochi giorni fa abbiamo celebrato con molta solennità e alla presenza dei bimbi delle scuole, la ricorrenza della Liberazione del nostro paese avvenuta, come sappiamo, il 14 aprile del 1945.

A ricordo di quei momenti di 78 anni fa, disponiamo di un breve filmato girato dall’Armata liberatrice. Sono pochi fotogrammi in bianco e nero che ci mostrano il devastato centro del paese di Filo che sta per essere liberato dalle Forze Alleate, dopo la cruenta battaglia del giorno prima al Borgo Molino, battaglia a cui avevano partecipato anche i nostri partigiani. Sono immagini di Filo e del Ponte Bastia, immagini crude, desolanti, tuttavia rappresentative di ciò che rimaneva dell’abitato di Filo e di quante, e quanto gravi, furono le perdite, materiali ed umane, inferte alle comunità poste fra il fiume Reno e le Valli di Comacchio, a causa - va detto per rispetto della storia - della ferocia e delle mire insensate di una dittatura fascista succube dell’alleato nazista e di una monarchia vanagloriosa ed inetta.

 


Il video d’epoca

 

Venerdì scorso, come in ogni ricorrenza, i filesi hanno deposto, per mano del loro primo Cittadino, fiori e corone in ognuno dei cippi che ricordano i loro Martiri della Libertà, nonché davanti al pregevole Monumento ai Caduti che i cittadini di Filo vollero erigere nel decennale della Liberazione, nel lontano 1955.

In fondo a queste righe posterò il breve video della recente Cerimonia, ma, in questo contesto è forse bene ricordare, a beneficio delle nuove generazioni, come e perché il nostro Monumento ai Caduti fu eretto, a chi fu dedicato, di chi fu il disegno, chi fu l’autore delle pregevoli opere che vi vennero inserite, chi lo realizzò e quali volevano essere i significati di ogni elemento della composizione.

 

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Il Monumento fu edificato sullo sfondo di piazza Agida Cavalli, un’area ricavata dal «campicello» di proprietà Comunale, adiacente alle cosiddette «Scuole Vecchie», edificio che, come si nota dal filmato d’epoca, fu devastato e reso inabitabile dai bombardamenti che accompagnarono il passaggio del fronte di guerra.




La cerimonia di inaugurazione, di cui si riportano alcune immagini (con colorazione postuma ottenuta con processo digitale), si tenne il 24 aprile 1955 e fu costituita, in successione, da una Messa di suffragio ai Caduti nella chiesa di Filo, da un corteo al Cimitero del paese, per poi concludersi con la solenne mostra al pubblico del Monumento presso il quale si tennero i discorsi celebrativi.

 

  

Nelle due foto, sul palco, il Sindaco Carlo Bolognesi ed una visione panoramica della cerimonia.

Sotto il monumento e la piazzetta «Agida Cavalli» in una cartolina anni ‘50.

 


 

Come si giunse alla realizzazione dell’opera ce lo raccontò bene Libero Ricci Maccarini, uomo di spicco della cooperazione nel dopoguerra, in uno dei capitoli del suo libro di memorie «Dal Palazzone», libro che viene riproposto proprio in questi giorni in una nuova e documentata edizione[1].

Questi i punti più interessanti sottolineati dall’autore (fra «virgolette» le citazioni testuali).

 

Perché erigere il Monumento

«Importava che si erigesse il monumento, che fosse bello e, soprattutto, concepito in maniera da ricordare tutti i morti […]» Chi avesse visitato Filo doveva farsi «…un’opinione vera del modo di essere di un paese che, forse senza volerlo, ha trasfuso nel simbolismo e nel ricordo tante amarezze, nonché la civile virtù di non dimenticare i propri morti…»

 

La collocazione e la prospettiva

L’opera monumentale non poté che essere collocata: «… nella piazzetta bassa e disadorna, nascosta dalla Casa del Popolo, a ridosso di un fondale dalla prospettazione mal definita […] Fu giocoforza per questo piantare e farvi crescere una fila di pioppi siberiani, perché con l’alto fusto e il ventaglio della ramificazione se ne ottenesse una verde barriera che potesse attenuare il contrasto prodotto dal comporsi corretto dell’opera…»

 

L’assemblea pubblica - Progetto, artisti ed esecutori dell’opera

Tutte le proprietà dell’opera «… vennero illustrate in un’assemblea pubblica, quando fu il momento di porre mano ai lavori, con l’ausilio di un modellino fornitoci dall’architetto Parolini e disponendo secondo richiesta di tre bozzetti riproducenti il monolito e le due figure scolpite da Angelo Biancini, fino a nutrire certezza che la complessità rappresentativa corrispondeva all’onesto ricordo e all’interpretazione intima e fedele della memoria voluta dai presenti.

Umanizzato in tale maniera l’apporto degli artisti che avevano concorso alla creazione dell’opera, fu per mano di un muratore locale, figlio di un vecchio sindacalista [2], che il monumento prese corpo e venne a pronunciarsi nelle sue linee e nel significato raggiunto, fino a fornire una coralità artistica ed espressiva qual è raro riconoscere in attestati di eguale concezione rappresentativa […]

Cosi i filesi [sia di parte ferrarese, sia di parte ravennate - n.d.A. -], associati nelle loro cooperative che ne curarono le varie fasi della esecuzione, si fecero carico di ogni onerosità».

 

I tanti Caduti di ogni tempo e le croci senza nome

«…i Caduti da ricordare erano veramente tanti, e nessuno poteva o doveva essere dimenticato.

 

Né quelli della prima guerra mondiale, le cui madri e le vedove, ancora in gramaglie, attendevano che si desse migliore memoria dei loro cari, più di quanto non s’era preteso mostrare con la tardiva lapide attaccata in una qualche maniera sul frontale delle “scuole nuove” [3];

né gli antifascisti percossi a morte ed i primi sindacalisti bastonati e perseguitati fino alla loro eliminazione fisica;

né i caduti disseminati in Africa e sui tanti fronti dell’ultima guerra, della cui triste sorte restava solo l’ultima agghiacciante notizia recata dal solito incolpevole carabiniere; né i caduti della Resistenza;

né, infine, quanti furono travolti nelle proprie case, vittime di quegli eventi bellici che, pure, dovevano riportare ai sopravvissuti il grande dono della Liberazione.

 

I caduti erano tanti, sì, e tante dovevano essere le croci senza nome, cui poter dare il nome di ognuno, delineate dietro, sul muro nudo, elevato coi nostri mattoni insabbiati e di color rosso dimesso, qual era quello delle nostre case…»

 

Elementi di completamento

«Il marmo bugnato doveva riprendere, anonimamente, l’asprezza dei monti d’ogni paese percorso controvoglia, e l’arenaria del muraglione di destra e dei gradoni far ricordare il premere più vicino delle colline amiche, che colsero l’ultimo momento di tre nostri compagni, ora non più con noi a comporre le piccole e le grandi cose nelle quali avevamo creduto insieme [4] […]

Veniva poi a completare l’assieme, l’ampia gradinata, la vasca richiamante i maceri ora colmati senza pietà da un mondo in grande cambiamento…» [5]

A questi elementi vanno aggiunti i tre pennoni decorativi, ognuno dei quali - come ben si nota dalle immagini della cerimonia inaugurale - dedicato ad un colore della nostra bandiera nazionale.

 

Lo scultore

Angelo Biancini è una delle figure più rappresentative della scultura e dell’arte ceramica italiana del Novecento.

Nato a Castel Bolognese nel 1911, a diciott’anni si iscrive al Regio Istituto d’arte di Firenze dove frequenta lo studio dello scultore Libero Andreotti. Si diploma nel 1934 nel III Corso della sezione “scultura decorativa arte del legno” e ottiene in quegli anni i primi riconoscimenti in mostre e rassegne d’arte di ambito locale, come il Premio Rubicone a Rimini nel 1934.

Dal 1937 al 1940 si trasferisce alla direzione artistica della Società Ceramica Italiana. Nel 1943 entra all’Istituto d’arte della Ceramica di Faenza, e nel dopo guerra, subentra a Domenico Rambelli nella cattedra di Plastica.

In quegli anni la figura di Biancini emerge come una delle più autorevoli tra le nuove leve della scultura italiana.  Nel 1946 partecipa alla grande mostra organizzata dalla Galleria della Spiga di Milano, ove poi le due personali del 1948 e del 1956 alla Galleria San Fedele lo impongono all’attenzione della critica nazionale.

Tra le opere a carattere commemorativo dello scultore e ceramista, si ricordano il Monumento alla Resistenza di Alfonsine (1972) e i monumenti a Grazia Deledda a Cervia (1956) e a Don Minzoni ad Argenta (1973). Nel 1973 gli viene riservata una sala personale nella Collezione d’Arte Moderna Religiosa dei Musei Vaticani. Nel 1981 lascia l’Istituto d’Arte di Faenza e continua a lavorare in uno studio nelle immediate vicinanze della scuola. Muore il 3 gennaio 1988 [6].

 

Il partigiano caduto

«Si osservi l’Eroe, riverso, senza divisa e con la “canottiera”, che sa di ribollir di stoppie e di trebbiature patite dal sorgere del sole al cadere del giorno; o che ricorda il vociare aspro del boaro ai buoi, dietro l’aratro, quando ancora il sollievo della trattrice era solo un sogno; o che rivela l’ossuta e asciutta corporatura dell’uomo aduso al largo gesto dello sfalcio dei campi, chiuso e contenuto nell’essenzialità del suo vigore e nell’assunto incombente di dover dare il pane ai suoi cari.

Qualcuno ne ha voluto considerare troppo marcata la configurazione facciale e non proprio perfetto l’abbandono delle membra e del corpo, giacché la vita si è spenta; si può nutrire rispetto all’altrui opinione, ma una cosa è certa e conta ai fini della rappresentazione voluta: in Lui noi ci riconosciamo!»

La madre piangente

«Ogni riserva poi scompare, allorché lo sguardo si posa sulla figura materna, piangente e contrita, in quel viluppo di pieghe che il grembiule, stretto con la cordella ai fianchi, raccoglie nella mestizia della veste nera, quella che da sempre segna la costante del lutto e il sacrificio dell’esistenza vissuta solo per la famiglia.

Quel disperato gesto delle mani portate al volto, a nascondere un pianto che vuol invocare la sublimazione della penitenza e, insieme, la compassione per lei, costretta a vivere quando il senso dell’esistenza si è dissolto con la scomparsa del figlio: quel gesto, sì, noi tutti lo comprendiamo bene…»

 

 

***

 

È intorno a questo simbolo di Memoria e di Riconoscenza che i filesi di oggi, ogni 14 aprile ancora si raccolgono, grati a chi sacrificò la propria vita per la Libertà e la Democrazia, fieri delle loro radici, della loro storia e della loro identità.

 

 



Il video della recente Cerimonia



[1] Libero Ricci Maccarini, I racconti del «Palazzone» curati da A. Vandini, Longastrino, CDS Edizioni, 2022, pp. 151-155. Il libro è attualmente disponibile presso l’Editore, nonché presso  le due edicole filesi.

[2] Trattasi di Paolo Panizza (Péval), il cui padre era stato sindacalista e presidente della Coop Muratori. Lavorò sotto la direzione di Barbieri Emanuele che a sua volta collocò, sotto uno scalino del monumento, una dedica scritta ai caduti filesi (testimonianza di Coatti Antonio, Tugnön).

[3] Per «scuole nuove» devono intendersi le aule edificate all’epoca nel terreno oggi parco dell’ex asilo, aule distrutte dai bombardamenti, così come la lapide commemorativa, il cui testo andò perduto.

[4] I tre caduti partigiani cui si fa cenno avevano combattuto sui monti di Romagna nelle fila della 36° Brigata Garibaldi «A. Bianconcini» dando prova di grandissimo ardimento. Caddero dapprima Ainis Trapani (Baröni) e Pietro Liverani (Pirì) il 25 maggio del ‘44 sul Monte Carzolano, in terra toscana, oltre Palazzolo sul Senio, poi, quasi cinque mesi dopo, il 18 ottobre, Mario Guerra (Mao), ferito nella battaglia di Purocielo nell’Appennino faentino, catturato e fucilato pochi giorni dopo dai fascisti al Poligono di tiro di Bologna.

[5] La vasca coi pesci rossi, rimasta in funzione per alcuni anni, poco alla volta si interrò e non fu ripristinata in occasione del restauro del monumento operato ad inizio secolo. In quella occasione, fu eretto, a fianco dell’opera, un cippo commemorativo dedicato al sacrificio di Agida Cavalli, madre e partigiana, cui è dedicata la piazza.

[6] Ad Angelo Biancini, alle diverse opere di cui ha fatto onore e dono al paese di Filo, ho già dedicato un corposo articolo in questo stesso blog nell’ormai lontano 2009: http://filese.blogspot.com/2009/10/le-opere-filesi-del-maestro-angelo.html . Per una biografia completa e per una rassegna delle opere più note dello scultore si possono consultare anche: https://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Biancini   e : https://www.angelobiancini.com/about