Memorie
dal «Quaderno» (5)
di
Giovanni Pulini, presentazione di
Agide Vandini
Sono trascorsi appena quattro mesi dalla scomparsa
di ‘Tavio Lazzari o, meglio, di Céncio come tutto il paese lo ha sempre
chiamato, soprannome che ne ricorda il nonno, Vincenzo Antonellini, martire
antifascista filese. La memoria di ‘Tavio è ancora ben presente nel cuore di
chi, come noi, ne ha sempre apprezzato l’umiltà e la semplicità, la
disponibilità e la bontà di carattere, soprattutto è, e sarà sempre, nel cuore
di tutta la sua famiglia: moglie, figlie e nipoti da cui era fortemente amato e
benvoluto.
Non ha mai ostentato nulla, Céncio, non ha mai
preteso riconoscimenti particolari, lui, ex partigiano in momenti difficili ed
in un ambiente particolarmente ostico; anzi, era restio alle testimonianze ed
alle esibizioni in pubblico. Forse per timidezza innata, o forse non voleva che
lo si credesse un «eroe», lui che «eroe» non si era mai sentito, o forse infine
per quell’intimo rispetto verso i tanti, umili compagni rimasti sconosciuti
come lui. Gente che quella Resistenza l’ha combattuta e sostenuta in silenzio,
donne e uomini che ci hanno dato il mondo libero in cui viviamo. Uomini e Donne
che, poi, dopo il 25 aprile del 1945 non hanno chiesto onori o ricompense,
perché l’Onore Grande, quello Vero, stava e doveva rimanere dentro al loro
cuore: quella Democrazia e quella Libertà per la quale si sono sacrificati e
che, ai loro figli e nipoti, agli italiani a venire, hanno lasciato in dono.
Avrebbe accettato sì quella semplice pergamena col
suo nome, data a lui, in fondo, come a uno dei tanti, un riconoscimento che
avrebbe voluto ricevere per conto dei tanti compagni già andati e partiti uno
per volta, piano piano, quasi scivolando nell’acqua come la sua vecchia
barchetta, quella che teneva nascosta alla Böca di’ Pastùr, nelle valli
allagate. Aveva già prenotato il tavolo in cui avrebbe pranzato con noi, e con
l’amico Giovanni che sarebbe venuto apposta da Bologna a ritirare una pergamena
come la sua.
Il destino ha voluto che ‘Tavio ci lasciasse pochissimi
giorni prima del 14 aprile e che quella pergamena venisse ritirata da una fiera
quanto commossa, emozionatissima, nipote.
Ora Giovanni, Giovanni Pulini, il partigiano Condor,
ci ha mandato un suo breve ricordo di ‘Tavio, di vera vita vissuta, scritto per
il suo Quaderno. Un ricordo ed una dedica a cui tiene molto, anzi moltissimo.
Sono particolarmente felice di poterlo pubblicare
nell’«Irôla» nell’affettuoso ricordo di un amico, di un uomo semplice e Vero,
di una figura verso cui sento e sentiamo profonda gratitudine, tanto più in un’epoca
come questa, fatta sempre più spesso di Lustrini, Apparenze e Grida Sguaiate:
di quel genere di Orpelli Inutili che, a un uomo come ‘Tavio, non avrebbero mai
mai fatto né caldo, né freddo (a.v.).
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Ottavio Lazzari detto Céncio e la consegna della
pergamena alla memoria nell’aprile 2015
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Il mio è un
ricordo che va dal 1930 al 1996: il ricordo di un’amicizia lunga un’intera
vita.
Filo, mio paese natale, festeggia il giorno
della Liberazione e la fine del nazifascismo il 14 aprile. Quest’anno l’ANPI
locale ha organizzato, per il settantesimo Anniversario, un pranzo ed una festa
alla quale hanno partecipato numerosissime persone e agli organizzatori va un
mio personale plauso per la riuscita dell’evento e per l’eccellenza del pranzo.
In quella
occasione mi è stata consegnata una pergamena per il mio contributo dato alla
Resistenza, mentre altra analoga pergamena è stata consegnata, alla memoria,
alla nipote di Ottavio Lazzari che purtroppo ci aveva lasciati a tre giorni dai
festeggiamenti. Al momento dell’invito, Ottavio, sia pure in precaria salute,
aveva dato la sua calorosa adesione e ciò mi aveva reso felice.
D’altronde, in
analoga occasione, nel 1996, allorché venne organizzato un pranzo fra tutti i
filesi nati nel 1926, avevo incontrato
tante persone che non rivedevo da quaranta anni e al mio fianco sedeva proprio
lui, Lazzari Ottavio, conosciuto da tutti in paese col nomignolo di Céncio.
Fu quello un incontro bellissimo e tante
furono le cose che ci raccontammo.
Ottavio ed io abbiamo avuto infatti un
percorso di vita molto simile e quando gli dissi che avevo scritto un libro
autobiografico si mostrò alquanto interessato affermando che gli sarebbe
piaciuto scrivere la nostra antologia a quattro mani, lui ed io. Quando ci
lasciammo, ci promettemmo di rivederci quanto prima in altro contesto per
mettere a punto il progetto: purtroppo un incontro rimasto sempre e soltanto nelle
buone intenzioni.
Se mi permetto ora di dare voce a qualche
ricordo comune di stenti e di vita grama è perché anche Céncio non fece mai mistero della sua umile provenienza.
Eravamo tanto amici perché avevamo la stessa
età, e anche perché i nostri rispettivi padri erano amici a loro volta: il suo era conosciuto in paese come Pinàz de’ Canzularòñ. Entrambi abitavamo
nella borgata di Case Selvatiche, insieme avevamo fatto il breve percorso
scolastico, infine la sua famiglia era numerosa quanto la mia sicché ci
accumunava la miseria, quella che si accaniva verso le famiglie con tante
bocche da sfamare.
Racconterò un episodio che oggi sembra avere
il sapore di una favola, eppure ai tempi della nostra fanciullezza non destava
certo meraviglia o stupore.
Qualunque lavoro
nei campi a quel tempo veniva svolto dalla mano dell’uomo, e uno di questi era
la semina delle barbabietole, opera in cui l’apporto dei bambini era ritenuto
indispensabile. Noi piccoli con una mano portavamo il secchiello coi semi, e
con l’altra, a schiena curva, lasciavamo
cadere il seme all’interno di piccole buche scavate nel terreno dalla zappa dell’adulto
che ci precedeva.
Penso che avessimo
poco meno di dieci anni quando, un giorno, Céncio
mi propose di andare con lui, alla semina delle barbabietole presso gli Stufadĕñ, ovvero nella vicina campagna
della famiglia Savioli. Lì egli era già stato l’anno precedente e mi assicurò
che, non solo si mangiava bene, ma a fine lavoro essi erano soliti ricompensare
con qualche soldo anche i più piccoli aiutanti.
Così andammo
entrambi e il lavoro durò quasi una settimana. L’ultimo giorno si festeggiò con
una tradizionale bandĕga (banchetto);
a tavola, oltre all’abbondanza di tutto, ricordo che, cosa rara a quei tempi, ci
fu data persino la ciambella… Alla fine del pranzo a noi furono allungati un
po’ di soldi, non ricordo quanti.
Durante il cammino
verso casa Céncio, a pancia
finalmente piena, mi confessò d’essersi abbuffato a sazietà poiché non sapeva
quando ci sarebbe stata una seconda volta.
Se avessimo
scritto un libro insieme sono certo che avrebbe voluto raccontare la gioia e la
soddisfazione di quel giorno, un episodio che, in ogni nostro incontro,
solitamente narrava con dovizia di particolari, quasi si fosse trattato di un fatto
epico ed eroico.
Quando fu più grandicello, Céncio si trasferì con la famiglia alla
borgata del Molino di Filo e i nostri incontri divennero meno frequenti. Spesso
ci vedevamo nelle valli dove entrambi pescavamo le anguille di frodo. Facevamo
lo stesso lavoro in squadre diverse e quasi sicuramente eravamo i bracconieri
più giovani della valle. Quell’attività ci fece diventare uomini molto presto soprattutto
perché, sia pure ancora ragazzi, eravamo costretti a prendere spesso decisioni
forti, come quella vita necessariamente richiedeva.
Abbiamo poi
avuto la fortuna, entrambi, di superare, in quell’ambiente, ogni insidia e
pericolo nella comune guerra di Resistenza particolarmente combattuta ed attiva
nel nostro territorio. Nonostante i rischi e le tante traversie, ne siamo
rimasti vivi.
Nell’immediato
dopoguerra continuammo ancora per un po’ nel bracconaggio poi, per motivi di
lavoro, io, a fine anni Cinquanta, lasciai il mio paese.
Non abbiamo potuto scrivere insieme la nostra
storia e di ciò mi dispiaccio molto. Nei nostri rari incontri a Filo, si finiva
sempre nel reciproco «Ti ricordi…», ed
era ogni volta un infinito piacere riabbracciarci e rivederci.
Di recente ho
avuto modo di consultare un Archivio storico contenente importanti documenti
della lotta partigiana, epoca che ci ha visto protagonisti nelle nostre valli. Sfogliando
con grande curiosità ed emozione una carpetta appartenuta al Comandante Meluschi
(Il Dottore)[1]
ho potuto leggervi, con mio grande piacere, il nome di Lazzari Ottavio, il
nostro amato Céncio, a quell’epoca,
come me, poco più di un ragazzo, ed era menzionato in prima fila, fra coloro
che diedero il loro vitale e prezioso contributo alla Resistenza, alla lotta
per la libertà di tutti.
Giovanni Pulini, Luglio 2015
[1] Antonio Meluschi,
detto Il Dottore, comandante della
Brigata Garibaldi «Mario Babini» operante nell’argentano e nel comacchiese.
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