di Agide Vandini
Le avevo ascoltate, queste poesie, la scorsa estate durante la serata di chiusura del ciclo dedicato ai «talenti» locali. Dalla viva voce dell’autore, mi erano decisamente piaciute. Ora ho avuto i manoscritti, in dialetto tipico filese, dallo stesso Settimio e sono rimasto sorpreso dai magnifici schizzi coi quali ha pensato di corredare i suoi versi. Ho trascritto le sue poesie, secondo i canoni dell’Ortografia romagnola di D.Vitali, e ritenuto di proporle ai lettori di questo blog, affiancate ai disegni originali dell’autore.
Settimio Coatti, classe 1938, è ben conosciuto in paese. Uomo di forte e travolgente passione politica, egli si sente alquanto legato alle lotte ed alle conquiste operaie del dopoguerra. Tornato a Filo da pensionato dopo una vita da operaio metalmeccanico spesa a Bologna, egli, oltre a prestarsi come volontario nell’associazionismo locale, da anni si prodiga anima e corpo in opere dell’ingegno (poesie, disegni, sculture ecc.) ove cerca di far risaltare soprattutto il valore unico, spesso epico, rappresentato dal lavoro; per far questo egli si cala volentieri nei suoi anni giovanili, in quella atmosfera quasi magica che fece rifiorire il paese di Filo nell’immediato dopoguerra.
Credo che le sue opere vadano considerate una testimonianza di quel clima di grande fierezza per le realizzazioni che la «cultura della solidarietà», il cui braccio era costituito dalle organizzazioni sindacali e cooperative filesi, seppe infondere nella nostra gente, almeno fino a quando, pochi anni or sono, il crac fragoroso dei giganti della cooperazione locale, si è portato via, oltre a gran parte dei risparmi dei lavoratori, anche tanto del loro orgoglio e dei loro sogni.
Ci sono però valori che non muoiono mai, tanto meno quelli legati ad una storia di solidarismo e di lotta per l’emancipazione che, in queste terre, ebbe grandi sussulti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Da allora questi valori hanno saputo superare momenti ancor più difficili di oggi, basti pensare ai grandi scioperi di inizio Novecento e al ventennio fascista, in cui essi furono, proprio qui, a lungo negati e sbeffeggiati. Spirito di sacrificio, anche a rischio di ritorsioni personali e della vita stessa, forte unità e coesione fra i lavoratori furono, nell'anteguerra come nel dopoguerra, le armi che consentirono, ottenuta la Libertà e la Democrazia, il raggiungimento di obiettivi soltanto sognati dai nostri bisnonni, ricette che, a ben vedere, avrebbero tanta valenza anche oggi.
Settimio, nelle sue opere, cerca a modo suo di difendere e ricordare quelle conquiste e quei momenti di orgoglio e soprattutto di esaltare lo “sforzo umano” insito nel lavoro, quello che, sì, nobilita l’uomo e la sua coscienza, ma che, come ci ricordava il grande Jacques Prévert, in un passo de L’éffort humain:
[...] Non
l’éffort humain ne porte pas un petit enfant sur l’épaule droite
un autre sur la tête
et un troisieme sur l’épaule gauche
avece les outils et la bandoulière
et la jeune femme hereuse accrochée a son bras
L’éffort humain porte un bandage herniaire
Et les cicatrices des combats
Livrés par la classe ouvrière
Contre un monde absurde et sans lois
No / lo sforzo umano non porta un fanciullino sulla spalla destra, / un altro sulla testa / e un terzo sulla spalla sinistra / con gli attrezzi a tracolla / e la giovane moglie felice aggrappata al suo braccio. / Lo sforzo umano porta un cinto erniario / e le cicatrici delle lotte / intraprese dalla classe operaia / contro un mondo assurdo e senza leggi.
E’ con questi sentimenti che Settimio scrive poesie che meritano tutto il nostro apprezzamento e che ho il piacere di pubblicare a ridosso del Primo Maggio. Quanto alle altre sue opere, mi riprometto, prossimamente, di dedicargli un appropriato servizio (Agide Vandini).
A i nòstar vẹc’
Par quéši una vita intira La tu mensa l’ira: Par tèvla e’ cògol de’ fös, Par scarana un còdul Par furzina un sprẹc ad tamaréš E pu döp, ‘fena a sira, So e žö par l’êržan A tësta basa Cun la sóla cumpagnia de’ gnéc Dla tu cariôla.
La lẹsta
La lẹsta, Un sèmpliz foj ad chêrta, Una fila ad nọm, Un atrèž da tù, Un pöst d’andê, Un urêri da cminzê.
E’ foj e’ švulaza, Férum da un sas, So int e’ banchêl d ‘na fnëstra. E la piò braghira in tësta, La lẹž e la scandés: « Tẹ t cì a là cun quèst, e tẹ a là cun st’êtar atrèž...»
Intóran ae’ grọp dal dön, u s sent a murmurê in aligrèia e, màñ màñ ch’al s lasa, al vóš al s’élza: «Admàn pu, a finirò ad cuntêt che fat...!» E acsè, atóran a ste pcòn d chêrta, u s fa fësta, una fësta ch la s’arnuva admàn e clêtar dè incóra par dê la vita a qui ch lavóra.
Al dön de’ Coletìv
Una longa fila ad biciclèt Tọti dön senza una faza ... «Mọ chi èli?» E’ cmandarẽb un furastìr. Mọ agli è al nòstar dön, Al dön de’ Coletìv... Faz cvérti da un capàñ Parchè e’ sól un li sfigura, Faz imprignêdi int e’ sudór, int l’aria sêlsa dla bunefica, in cla tëra negra e brọla che gnit la n t pò dê se t’a n’i sud inso.
E, a pinsêi bèn, al dön ad Fil, insèm ae’ bagn de’ su sudór, nenc e’ sangv e tenti böt agli à mẹs ... E cla tëra ch’l’ira negra Adës, piañ piañ, la s tenž ad rös.
L’inmantladura
Quènd che int e’ mëž dla nöt La fadiga de’ dè La sta par dvintê alžira alžira, e trasfurmês in sọgn, Incora prẹma ch’l’arbómba in zil e’ tròñ, L’arsóna in pina nöt L’arciàm ad Buslòñ E in qua e in là U s’impeia sòbit ‘na quelca luš. E da la fnëstra, scrutènd e’ temp, u s sént: «Fašèñ prèst ..., Fašèñ prèst, tabachi!» E incóra cun i blëc in màñ al cọr Coma ch’u li supiẹs e’ vént E int un mumént Agli è ža a lè ch’al cruvẹs e al ripêra Tènta, tènta dla su fadiga...
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Ai nostri vecchi. Per quasi una vita intera / La tua mensa era: / Per tavola il cordolo del fosso / Per sedia una grossa zolla / Per forchetta un ramo di tamarisco / E poi dopo, fino a sera / Su e giù per l’argine / A testa china / Con la sola compagnia del cigolio / Della tua carriola.
La lista. La lista / Un semplice foglio di carta / Una fila di nomi, / Un attrezzo da portarsi appresso / Un posto ove andare / Un orario d’inizio lavoro. / Il foglio svolazza / Tenuto fermo da un sasso / Sul bancale di una finestra. / E la donna più spigliata in testa, / legge e scandisce: / «Tu sei là con questo, / e tu là con quest’altro attrezzo... / Intorno al gruppo di donne / Si solleva un allegro mormorio / e man mano che si lasciano, le voci si alzano: / «Domani, poi, finirò di raccontarti tutto ...!» / E così, attorno a questo pezzetto di carta / Si fa festa, / Una festa che si rinnoverà / domani e l’altro giorno ancora / per dare la vita a quelli che lavorano.
Le donne del Collettivo. Una lunga fila di biciclette, / Tutte donne senza un volto ... / «Ma chi sono?» Chiederebbe forse un forestiero / Ma sono le nostre donne, / Le donne del Collettivo ... / Facce coperte da un capanno [copricapo con enorme visiera] / affinché il sole non le sfiguri, / Facce impregnate di sudore, / nell’aria salsa della bonifica / in quella terra nera e brulla / che nulla può dare se non ci si suda sopra. / E, a pensarci bene, le donne di Filo, / assieme al bagno di sudore, / pure il sangue e tante botte ci hanno messo... / E quella terra che era nera [vuoi perché di bonifica recente, vuoi perché di proprietà di latifondisti di destra] / Ora, piano piano si sta tingendo di rosso [vuoi per il sangue versato, vuoi perché acquistata poco alla volta da una cooperativa di sinistra].
La copertura d’emergenza del laterizio (con arelle di canna). Quando nel bel mezzo della notte / La fatica giornaliera / Sta per alleggerirsi / E trasformarsi in sogno, / Ancor prima che il tuono rimbombi in cielo / Risuona in piena notte / Il richiamo di Buslòñ [La stridente sirena azionata da Leoni Gaetano, che fu uomo di guardia alla fornace di Filo fra gli anni ’30 e gli anni ’60] / E qua e là s’accende subito qualche luce. / E dalla finestra, scrutando il tempo, / si sente: «Facciamo presto ..., / facciamo presto, ragazze!» E ancora coi vestiti in mano corrono/ Aizzate dal fervor del vento / E in un momento / mettono al riparo / Tanta tanta della loro fatica.
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1 commento:
BRAVO SETTIMIO
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